La città di Dio

Un pastore newyorkese ex sessantottino di grandi dubbi viene un giorno derubato del crocifisso della sua chiesa. Lo ritrova dopo pochi giorni un giovane rabbino sul tetto della propria sinagoga. Nasce un profondo legame tra i due uomini alla ricerca di una spiegazione del mistero. Il rabbino viene poi ucciso e il pastore ne sposa la moglie, rabbino anche lei, abbandona il cristianesimo e diviene ebreo.
Ci vuole pazienza per condurre a termine la lettura dell’ultimo romanzo di E.L. Doctorow. Per questo “La città di Dio” ha spiazzato molti, quando è uscito negli Stati Uniti, la scorsa primavera. Con tutto il credito che si può concedere all’autore di “Ragtime”, la richiesta di attenzione e fede imposta dal suo racconto è una bella prepotenza. Per una lunga parte iniziale non solo è complicatissimo ricostruire i diversi narratori che si alternano di paragrafo in paragrafo o, in assenza di virgolette, le voci parlanti all’interno dei paragrafi stessi ma anche il filo che annoda le diverse vicende, di cui quella del pastore Pem è solo la principale, è del tutto misterioso.
Il libro è in effetti un complesso lavoro di scrittura a proposito di temi impegnativi l’esistenza di Dio, il valore delle Scritture, il confronto tra ragione e scienza, l’olocausto e il rapporto dei cristiani con esso che fatica molto a trovare una coerenza di romanzo. Anziché organizzare il tutto, l’alternanza rocambolesca di narrazione tradizionale, dialoghi, versi di canzoni, spunti di sceneggiature, riflessioni di scienza, musica e ornitologia, apparizioni in prima persona di Einstein, Wittgenstein e Frank Sinatra, per quanto siano trovate a momenti geniali, confondono ulteriolmente. Ma questo lampante e ineludibile fallimento, è un prezzo assolutamente onesto per il piacere intellettuale che la scrittura di Doctorow e il genio dei suoi ragionamenti concedono. La parte più tradizionalmente narrativa, quella del piccolo Yeoshua nella Lituania occupata dai nazisti, è una specie di oasi di riposo tra i confusi baleni di intelligenza del libro (che neanche qui mancano: “Eravamo vissuti tra i cristiani per generazioni solo per vederci distorcere e adattare alla forma del loro odio. Eravamo stati trasformati in ebrei perché gli altri potessero essere cristiani”). E ci sono imbattibili passaggi umoristici, come la cerimonia che Pem immagina del suo spretamento (“all’alba, rullano i tamburi, e alla presenza del clero schierato, il vescovo ti strappa il crocefisso, ti lacera il collarino e ti piega all’indietro le dita”) o la reincarnazione auspicata per Adolf Hitler in batterio del fango cloacale del pesce-accetta.
Lo stesso romanzo è parte di una corsa alla metafora che alimenta il groviglio dei temi trattati. L’idea che le cose siano più complesse della possibilità di ridurle in sistemi, che si tratti della creazione del mondo e del suo funzionamento, che si tratti della Bibbia, che si tratti della città di New York, si insinua anche in una delle molte considerazioni autobiografiche messe da Doctorow in bocca ai suoi due personaggi principali, l’alter ego scrittore Everett e il pastore Pem: “Tu scrivi abbastanza bene”, dice il secondo, “ma nessuno scrittore può riprodurre il tono genuino della vita”. E il rapporto tra le storie e il raccontarle, è presente in tutto il libro: “I giornali raccontano storie che, con rare eccezioni, non vengono mai portate a termine”.
“Città di Dio” non sfugge a obiezioni anche di sostanza: mentre il mistero irrisolto della croce è un escamotage narrativo in grado di reggere la propria funzione, pur perdendo presto qualsiasi importanza, la morte del rabbino Joshua è elusa con una prepotenza irritante nei confronti del lettore. E il personaggio di Sarah è assai evanescente, il suo fascino e la sua grandezza ripetuti a ogni pié sospinto ma privi del conforto di un approfondimento serio. Persino gli intervalli di riflessioni scientifiche sono stati colti nella castagna di alcuni errori fattuali dai lettori americani.
Del caos narrativo che vorrebbe andare sotto il nome di romanzo, lo stesso Doctorow pare però essere cosciente e maestro, quando riflette sulla Bibbia e le sue incongruenze. “Gli interpreti sapevano quello che facevano quando non cercarono di cancellare le incoerenze e di mettere le cose a posto. Proprio le contraddizioni, le storie che coabitano con i propri rifacimenti, manifestano la stessa lotta descritta nei racconti”.

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