Tre storie di Freedom of Speech, dopo l’11 settembre

Sicurezza e libertà: più sicurezza, meno libertà. Parlano di questo, gli americani, dall’undicisettembre, e di questo leggiamo ogni giorno. Ma che si tratta anche della libertà di stampa e di opinione, ci avevamo pensato? I nervi scoperti dalla strage stanno generando scontri quotidiani, alzando il tono delle reazioni e facendo vittime. Un portavoce della Casa Bianca ha attaccato Bill Maher, titolare di uno show televisivo, che aveva sventatamente accusato di viltà i militari americani che lanciano missili da lontano: “di questi tempi la gente dovrebbe stare attenta a quel che dice e quel che fa”, ha detto il portavoce Ari Fleischer. A quel che dice. Ecco tre storie.
Tom Gutting è un ragazzone biondo di 23 anni. Si è sposato l’estate scorsa. Ha cominciato a scrivere da quando era al college. Dev’essere stato bravo perché ha ottenuto di lavorare prima a un quotidiano di Baltimora, e poi al Texas City Sun – che vende 7 mila copie in quella città – come City Editor. Al Sun hanno una regola, che tutti i pezzi devono essere approvati da uno dei tre responsabili, e uno è il City Editor. Due sabati fa Gutting scrive un fondo molto severo nei confronti del presidente Bush, che viene descritto come “un bambino spaventato da un incubo che cerca conforto nel letto della madre”: in particolare Gutting attacca la “dichiarazione di guerra contro un nemico che non sappiamo nemmeno trovare” e la “fuga” di Bush nelle ore successive agli attentati. “Non è un leader: è un pupazzo, e non è mai stato così evidente”. Bush dovrebbe prendere esempio da Rudy Giuliani, di cui Gutting incensa il comportamento di queste settimane. L’indomani il Sun sommerso da telefonate e lettere di protesta – pubblica due articoli firmati dal direttore Les Daughtry jr.: in uno spiega come mai il pezzo è stato pubblicato senza bisogno che nessuno l’approvasse e chiede scusa di questa norma che verrà cambiata. Era un’opinione che “non era il caso di pubblicare nella situazione in cui si trovano oggi il nostro paese e i suoi leaders” e di cui “chiedo scusa al presidente Bush” . Nel secondo attacca violentemente l’articolo di Gutting “un giovane e inesperto City Editor” “così vergognoso che non meriterebbe risposta da nessuna persona ragionevole”. Il direttore conclude la sua risposta così: “Dio benedica il presidente Bush e gli altri leaders. E Dio benedica l’America!”. Gutting viene licenziato. (“Me la caverò. Il presidente aveva chiesto sacrifici e io sono felice di aderire. Ma la nostra sicurezza non guadagna niente dalla restrizione della libertà di parola”, ha commentato ieri su Salon).
Dan Guthrie, 61 anni, lavora al Daily Courier (Grants Pass, Oregon: 16 mila copie) da dieci anni. Ha vinto diversi premi per la migliore rubrica giornalistica dello stato. Si chiama “Dogwatch” l’edizione del 15 settembre è tutta contro il presidente Bush. Che si sarebbe “nascosto in un buco del Nebraska” dopo gli attentati. La questione della scomparsa del presidente in quelle ore è delicatissima e al centro di molte polemiche: la stampa ha dubitato molto della versione per cui Bush sarebbe stato tra gli obiettivi, e i suoi portavoce sono stati reticenti ad avallare la versione. “Il ragazzo ha condotto una vita di giocattoli e privilegi”, scrive Guthrie: “al primo guaio, è crollato. Preghiamo per lui”. Le lettere di protesta sono centinaia. Il giorno dopo il direttore pubblica un editoriale di scuse. E licenzia Guthrie.
Ann Coulter è stata procuratore al Dipartimento di Stato e assistente al Senato. Poi è diventata opinionista: una forte aggressività, argomenti tosti, una violenta campagna contro la coppia Clinton, minigonne e bionda chioma le hanno valso presenze televisive e diversi contratti. I suoi commenti sono pubblicati da decine di giornali e siti internet. Quello del 13 settembre molti non lo pubblicano. National Review Online sì: è “Il primo sito conservatore d’America”, la popolare versione internet della popolare rivista. La rubrica di Ann Coulter parla di Barbara Olson, la giornalista morta nell’aereo dirottato e precipitato in Pennsylvania. “Era una persona meravigliosa”, scrive: una cara amica, lei e suo marito Ted una coppia straordinaria, altro che Bill e Hillary. “La sera la CNN disse che c’erano state delle esplosioni in Afghanistan, ma le bombe non erano nostre. Dovevano essere nostre. Io voglio che siano nostre. Questo non è il momento di essere delicati e individuare esattamente gli individui coinvolti nell’attacco terroristico. Sono responsabili tutti quelli che hanno sorriso dopo che una patriota come Barbara Olson era stata annientata”. Coulter rincara, altro che Oriana Fallaci: “La nazione è occupata da un culto fanatico e assassino. E noi gli diamo il benvenuto. Vengono qui e usano i nostri aerei. È come se durante la seconda guerra mondiale avessimo invitato la Wehrmacht a immigrare in America e lavorare per noi. Ma la Wehrmacht era meno sanguinaria”. E infine: “Noi sappiamo chi sono i maniaci omicidi. Sono quelli che festeggiano. Dovremmo invadere i loro stati, uccidere i loro capi e convertirli al Cristianesimo. Non siamo stati così pedanti quando si è trattato di punire Hitler e i suoi ufficiali. Abbiamo bombardato a tappeto la Germania, abbiamo ucciso i civili. È la guerra”. Quando il giorno dopo Coulter invia un nuovo pezzo in cui chiedeva il controllo dei passaporti per i voli nazionali e accurati controlli in caso di “individui sospetti dalla carnagione scura”, la National Review lo rifiuta e scioglie la collaborazione. (“Femminucce senza spina dorsale, non so che farmene di loro”, ha comentato Coulter).
E così vanno le cose, di questi tempi.

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