Il natale del barbone

A Natale, mi chiamano i parenti. Ogni anno. Che c’è di strano, direte voi. È che non mi fanno gli auguri. Si dimenticano. Mi hanno chiamato solo per un motivo. Sanno che scrivo di musica e hanno un sacco di regali da fare. Mi consigli dei cd da regalare?, dicono. Se esito, se mi diffondo in alternative, si seccano. Vogliono andare a colpo sicuro, entrare nel negozio con un foglietto e i nomi. Quest’anno mi sono preparato. Dirò “Is a woman” dei Lambchop ai più anziani, e “Unplugged” di Lauryn Hill ai più giovani. Risolto. Ma non è di questo che volevo parlare. Volevo parlare del fatto che qualche volta, dopo Natale, qualcuno mi chiama per ringraziare. Un ottimo consiglio, dicono, è stato molto apprezzato. Bene: nove anni fa mi richiamarono tutti. Tutti: mia madre, le mie tre zie, mio fratello, mia cugina, la mia matrigna, quattro amici, il mio ex professore di storia dell’arte. Un successone. Che avevo fatto? Gli avevo raccontato una storia.

La storia è questa. Gavin Bryars è un musicista contemporaneo non facile da etichettare. Nei negozi  quando ce l’hanno  lo mettono a volte nel reparto classica, a volte in quello jazz, a volte nelle colonne sonore, a volte dove capita. Ha fatto musiche per opere teatrali, per film, per programmi tv, opere classiche a se stanti, progetti d’avanguardia. Una volta stava girando per Londra con un registratore in cerca di suoni per un programma della BBC. Si imbattè in un barbone forse ubriaco che trascinava ripetitivamente tra i pochi denti una canzoncina. Non era proprio una canzoncina. Una specie di canto religioso: diceva “Il sangue di Gesù non mi ha mai tradito finora”, e lo ridiceva, e lo ridiceva. Bryars si portò a casa il suo nastro e lo tenne lì. Ogni tanto lo riascoltava e ci pensava su.
“Jesus blood never failed me yet” fu pubblicato nel 1993. Dura settantatrè minuti. Per settantatrè minuti si ripete circa centocinquanta volte la stessa strofa sottratta quella notte alla voce del barbone londinese, campionata e ripetuta per tutta l’opera e accompagnata da un arrangiamento orchestrale sempre più denso, che parte da pochi archi e si arricchisce man mano di altri strumenti, cori, e infine una seconda voce solista che chiude la composizione sottobraccio al barbone. Una voce straordinaria, e la più associabile a quella di un barbone ubriaco, avrà pensato Bryars prima di telefonare a Tom Waits. Il disco è straordinario, unico, notturno, struggente. E natalizio.

Quando spiego loro di cosa è fatto, i parenti sorridono. Diffidano. Sai che noia, vorrebbero dire. Come voi adesso. Non hai niente di più normale? Poi lo ascoltano, e sorridono ancora. Alcuni fingono di addormentarsi, per prendermi in giro. Dopo lo riascoltano, e ancora. Poi, una sera che mi hanno invitato a cena, glielo trovo accanto allo stereo. Mi affaccio alla cucina dove il padrone di casa sta lavorando con un mestolo e una pentola, e il grembiule attorno alla vita, e glielo sventolo davanti agli occhi. Sorridono ancora. L’hanno comprato; dopo lunghe ricerche, perché non è facile da trovare.

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