Romanzi con i disegni intorno

“Io le chiamo storie”, dice Gipi. La definizione di “graphic novel” suscita reazioni diverse tra gli appassionati e gli stessi disegnatori di fumetti. Alcuni ne apprezzano il suono un po’ solenne che mette sullo stesso piano della letteratura alta e dei romanzi scritti le grandi storie a fumetti. Altri, che non sentono come diminutiva o infantile la tradizionale definizione di “storie a fumetti”, giudicano la categoria del “graphic novel” superflua: una di quelle espressioni inventate a posteriori per capirsi, o per sdoganarsi appunto presso ambiti artistici che storcono il naso di fronte a quella cosa per ragazzini, i… fumetti.

Gianni Pacinotti è uno dei più bravi e apprezzati disegnatori italiani, e si firma Gipi. Oltre a illustrare molti degli inserti di Repubblica, e raccontare piccoli pensierini su Internazionale, fa i fumetti, soprattutto appunto in forma di romanzi disegnati. L’anno scorso la sua “Appunti per una storia di guerra” ha vinto il festival di Angoulème, uno dei più importanti del settore. E lui le chiama storie. Ma che l’espressione anglosassone sia familiare o no, un senso ormai ce l’ha. Malgrado i suoi confini siano mobili, proviamo a dire che definisca una storia a fumetti lunga e conclusa, i cui personaggi vivono quasi sempre solo quella storia (ma non sempre). Romanzi, per capirsi. La distinzione dalla categoria dei fumetti in generale suona meno notevole a noi che non agli americani, i quali – abituati alla prevalenza dei comics in forma di strisce quotidiane o albi periodici – coniarono l’espressione “graphic novel” per i volumi soprattutto francesi di lunghe storie concluse. Tin Tin, per esempio, o Blueberry.

Ma dagli anni Settanta, il campo è stato invece occupato più notevolmente da storie indipendenti con temi più adulti e “seri”. L’autore canadese Chester Brown ha raccontato una volta a fumetti il suo tentativo di spiegare che il graphic novel è sì, in pratica, solo una storia a fumetti più lunga, ma “solo il fatto di avere più pagine a disposizione permette di approfondire storie di maggior complessità e temi più maturi”. Quello che è considerato il maestro del romanzo a fumetti americano, Will Eisner, era già l’amatissimo disegnatore delle storie di avventura di Spirit quando nel 1978 pubblicò “Un contratto con Dio”, una raccolta di vicende autobiografiche ambientate in un condominio del Bronx: grandissima letteratura, con cui la forma del fumetto adulto e drammatico fece un salto in avanti tuttora ammirato. Precedenti in questo senso c’erano già, e gli storici fanno a gara a trovarne, ma Eisner fu rivoluzionario anche nel decidere di emanciparsi dalla formula periodica per cui il disegnatore consegnava all’editore il lavoro previsto ogni giorno, o ogni settimana, o ogni mese.

Da allora, come dice Eddie Campbell (il disegnatore di “From hell”), il graphic novel è andato diventando “un movimento piuttosto che una tipologia”. Piaccia o no, definisce il desiderio dei grandi artisti del fumetto internazionali di combattere l’opinione che il loro sia un lavoro da ragazzini, e che la loro arte conosca dei limiti e si fermi un gradino sotto le grandezze creative della semplice parola scritta. E in effetti, questo movimento ha creato alcuni dei migliori romanzi degli ultimi decenni. Basti pensare al mille volte premiato e celebrato “Maus”, l’appassionante storia dell’olocausto raccontata da Art Spiegelmann che i giurati del Pulitzer vollero premiare nel 1992 malgrado non rientrasse nelle categorie tradizionali. O a “Persepolis” di Marjane Satrapi, una delle opere letterarie che più hanno spiegato al mondo un posto così difficile e distante come l’Iran contemporaneo. E un lavoro simile è il formidabile “Pyongyang” con cui il canadese Guy Delisle ha raccontato la Corea del Nord, tra umorismo e malinconia. O la “Palestina” di Joe Sacco, grande giornalismo.

Ci sono poi le storie più tradizionalmente “fiction”, come “From Hell” di Alan Moore e Eddie Campbell, o “Sin city” di Frank Miller. Ma anche le avventure di Corto Maltese, considerato internazionalmente come uno dei pochi personaggi ricorrenti degno di figurare tra il meglio del genere “graphic novel”.

Un terzo genere di racconti che ha prodotto risultati formidabili e commoventi nella versione di romanzo a fumetti è quello intimista-autobiografico. Romanzi di formazione come “Blankets” di Craig Thompson, “Paul ha un lavoro estivo” di Michel Rabagliati o “Fun Home” di Alison Bechdel. O piccoli e fulminanti ritratti di provincia, come “Ice haven” di Daniel Clowes.

In Italia, dove nei decenni passati il fumetto ha perso terreno e vendite rispetto alla solidità del mercato francese o alla curiosità di quello americano, le cose sembrano migliorare. Grazie al lavoro di piccole e preparatissime case editrici come Coconino e Kappa, all’investimento sui fumetti del settimanale Internazionale, e alla ritrovata passione di alcuni grandi editori: l’anno scorso Rizzoli ha rilanciato alcuni dei titoli migliori di questi anni, già pubblicati con minori promozioni dai piccoli. Tra i quali il fantastico “Il gatto del rabbino”, esilarante storia esotica a sfondo teologico.

“Mi chiedessero quali sono a parer mio i campi espressivi e artistici più vitali oggi nel mondo non avrei esitazioni, e risponderei, certo scandalizzando qualcuno: il romanzo a fumetti, che è diventato comune chiamare ora “graphic novel”, e il cinema documentario”, ha scritto il mese scorso sul Messaggero Goffredo Fofi.

Ormai sono molti anni che si cerca di spiegare che il fumetto è un genere all’altezza della migliore letteratura scritta. Forse non ha importanza discuterne ancora: la prossima volta che passate in libreria comprate “Blankets”, oppure “Maus”. E poi decidete da soli.

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