Che anno è, che giorno è

Sofri, quello anziano, sul tempo che va all’incontrario e sul suo libro: annunciato da titoli assurde e polemiche a caso prima che fosse letto, e ignorato nella sua sostanza ora che lo si è letto. Su Repubblica di oggi.

“Caro direttore, ci lasciamo alle spalle i sessant´anni dalla Costituzione, siamo nei quaranta da piazza Fontana e Pinelli. I francesi ci spiegano che i francesi non hanno capito gli anni di piombo. E noi? Noi ne abbiamo oggi un´idea più chiara? E siamo più vicini di dieci o venti o trenta anni fa a un sentimento di comunità civile? O ne siamo più lontani che mai? Noi la storia la facciamo all´indietro, come Benjamin Button: uno di questi giorni moriremo di vecchiaia, nel 1945. Gli Anni di Piombo si mangiano gli Anni Settanta, i quali si mangiano il Sessantotto. Il dopo non si limita a spiegare il prima, ma lo incrimina senz´altro. Il prossimo 12 dicembre, il prossimo 15 dicembre, saremo per un momento in imbarazzo, accorgendoci che la strage di piazza Fontana e il volo di Pinelli non appartengono né agli anni di piombo, né agli anni Settanta. Era il 1969. A Sanremo vinse Iva Zanicchi con “Zingara” – oggi non succederebbe.

Il mio libro, La notte che Pinelli, è in libreria da tre settimane. Trovo una sproporzione fra le recensioni preventive – chiamo così la colata di anticipazioni e commenti venuta prima della lettura del libro, su giornali agenzie e telegiornali – e le recensioni successive: successive alla lettura, cioè. Che, nel caso di un libro, è già singolare. Non mi lagnerei mai: mi lagno già abbastanza delle recensioni che vengono chieste a me. Non ho sollecitato una segnalazione a uno scritto mio in tutta la vita. So anche che le persone, specialmente quelle importanti, hanno da fare. Però bisognerebbe evitare certi effetti caricaturali. Per esempio il senatore D´Ambrosio, già giudice autorevole e stimato, era intervenuto un numero ragguardevole di volte a proposito di qualcosa che io avessi detto o che mi riguardasse. L´ultima volta, interpellato appunto a proposito delle fantasiose anticipazioni su La notte che Pinelli, aveva risposto spiritosamente: «Mi rallegro che Sofri abbia finalmente letto la mia sentenza. Peccato che sia ancora convinto che Pinelli si sia suicidato». 

Ora, la sentenza di D´Ambrosio fu resa disponibile al pubblico da un volume a mia cura edito sempre da Sellerio nel non vicino 1996. E di credere nel suicidio di Pinelli io non mi sognai mai, ché anzi lo escludo: proprio così come escludo la “improvvisa alterazione del centro di equilibrio” escogitata da D´Ambrosio e passata sotto il titolo di malore attivo. Il mio libro – salva confutazione, che aspetto a piè fermo – demolisce dall´a alla zeta la sentenza di D´Ambrosio, anche grazie alle risultanze dell´indagine condotta e poi dilapidata da D´Ambrosio stesso. Non escludo che anche questa volta il senatore voglia trovare il tempo di farsene un´idea e renderla nota, benché si tratti di un libro e non di uno strillo d´agenzia. La cosa vale, direi, anche per altri, non direttamente implicati nella vicenda che racconto daccapo. La racconto a giovani che non c´erano, e che la ascoltino per intero come storia nuova. Ma anche per chi c´era, e ammesso che ne serbi ancora qualche memoria, vi troverà, come vi ho trovato io, molte cose nuove e decisive. 
Ne faccio un elenco sommario. Si concluse che l´alibi di Pinelli fosse falso (benché non per una qualche sua correità): io dimostro che era vero e provato. Si concordò che l´interrogatorio ultimo fosse concluso e in un´atmosfera serena: dimostro che era solo interrotto, e nel punto più drammatico e minaccioso. Mostro con testimonianze di procedimenti diversi, mai messe a confronto, il modo in cui fu costruita la versione falsa della polizia. Mostro che difensori dell´estraneità di Calabresi, da Montanelli al temerario Achille Serra, sposano, sull´andamento dei fatti, tesi del tutto contrastanti con quella di Calabresi stesso. Smentisco aneddoti diventati via via luoghi comuni – la “quasi amicizia” fra Calabresi e Pinelli, eccetera. Ricostruisco la circostanza dell´appello degli 800 intellettuali, via via più esecrato e demonizzato, per distinguere un contesto che si è voluto cancellare da una protervia che nessun contesto basterebbe a giustificare. Metto a confronto la notte di Pinelli con una notte a sua volta tragica della questura di Palermo 1981, e il modo opposto in cui le autorità dello Stato risposero a un evento simile: «Un cittadino è entrato vivo in una questura, e ne è uscito morto». E l´elenco è ancora lungo. Quanto alle ultime parole del mio libro su che cosa sia successo davvero quella notte, cui le “anticipazioni” diedero un tal risalto – «Non lo so» – rispondono così solo dopo aver escluso appunto e il suicidio e il malore.
Di tutte queste cose tratta il libro, perché tratta di Pino Pinelli. Non primariamente di Luigi Calabresi, tanto meno di me. Quello che dice della nostra idea della violenza, delle sue origini, del suo superamento, ne é un corollario, benché necessario. Tratta di Pino Pinelli, per il suo ricordo. E anche per segnalare all´intermittenza delle memorie che la volontà appassionata di stare “dalla parte delle vittime” cominciò da lì, da piazza Fontana e dalla notte che Pinelli, e che è la più amara delle derive quella per la quale si rinnovano e si riesacerbano a tanta distanza opposizioni fra “i nostri morti e i loro”. 
Io ho rinunziato da tempo a immaginare cose come quelle che vanno sotto i nomi della “chiusura degli anni di piombo”, della “riconciliazione” o della “memoria condivisa”. Si diceva, tanto tempo fa: “È ancora troppo presto”. Macché: era già troppo tardi, e lo è sempre di più. Basta guardare allo spettacolo italo-brasiliano di questi giorni, appuntamento di tutte le maschere dell´impostura e della maramalderia, della demagogia e del cannibalismo, e con quale posta! Salvo che si tratti di sventare una minaccia attuale contro altre persone, come seppe fare Guido Rossa, io preferirei perdere la mia libertà e la stessa vita, spero (la libertà può essere infatti più sacra, come sa chi per lei vita rifiuta) pur di non mandare in una galera qualcuno. Ma di costui appunto, se lo incontrassi fuggitivo, mi chiederei solo se possa fare del male al suo prossimo, e per il resto non vorrei saperne altro, e tanto meno inventarlo migliore di com´è. 
È una morale personale semplice e ardua, e non penso certo che debba essere di tutti, o addirittura dello Stato. È la morale dei bambini cui si insegna a non fare la spia, o del pescatore di De André, che oggi riascoltate. Non può essere la morale dello Stato, ma lo Stato, per la sua dignità, dev´essere anche capace di gesti d´eccezione, e non della sola coazione a ripetere.
Sembra persuasa, la nostra società, che i delitti dello Stato meritino più indulgenza di quelli privati. Genova insegna. Non è così, naturalmente. Uno dei giudici della vicissitudine di Pinelli, uno dei tanti insabbiatori del resto, si spinse però a scrivere che la morte di Pinelli, se vi fosse intervenuta una colpa della polizia, sarebbe stata «un delitto terribile, forse peggiore della strage di piazza Fontana…». 
E però. Non c´è riconoscimento né risarcimento per Pinelli. Nel solenne album della Presidenza della Repubblica dedicato alle vittime del terrorismo la sua figurina non c´è. Ma non c´è nemmeno altrove. Dalla “notte che Pinelli”, hanno abitato il Quirinale sette presidenti: Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Tanti, e tanto diversi fra loro. Non uno di loro ha mai fatto né fatto fare una telefonata a Licia Pinelli, che è oggi una signora di 81 anni e non aspetta telefonate. Nemmeno Pertini, lo stesso Pertini da cui Gemma Capra si sentì dire, in un incontro al Quirinale: «Signora, io la capisco, ma sa, su suo marito c´è sempre l´ombra di Pinelli». Io poi non sono certo un paladino di Licia Pinelli, e lei mi sembra forte, più forte di me, magari.
Giorgio Napolitano ha davvero molto da fare, molto di più dello stesso senatore D´Ambrosio, e tuttavia mi aspetto che legga il mio libro. Li visse anche lui quei giorni, ci si arrovellò anche lui. Non c´è la sua firma sotto l´appello infamato che io invito a rileggere, ma ce ne sono tante altre che non possono non farlo arrovellare ancora: quella di Giorgio Amendola, per esempio. Magari così, il prossimo dicembre, sapremo meglio in che anno siamo”.

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