La pandemia della divulgazione scientifica

Questa intervista con Adam Bly è pubblicata sul numero di Wired di luglio.

Ciao, dove sei adesso?

A New York, vivo qui. Tu dove sei?

A Milano. Dicci cosa è Seed.

Siamo un’organizzazione che crede che la scienza possieda un potenziale unico di miglioramento del mondo e creiamo informazione e tecnologia – dalle riviste ai blog alla comunicazione dei dati al software – per aiutare a realizzare questo potenziale

Una specie di impero moderno dell’informazione scientifica: come è nato?

Come nelle storie, io ero molto appassionato di cose scientifiche fino da quando ero bambino.

Non la prendevo così alla lontana…

Beh, quando ho cominciato a fare il ricercatore a Montreal al Consiglio Nazionale delle Ricerche avevo solo sedici anni, ero piuttosto giovane. E ho cominciato presto a pensare di facilitare l’accesso alla divulgazione scientifica, sia nell’informazione tradizionale che su internet. Seed è nato nel 2005, quando avevo 24 anni.

Cosa pensi dell’attitudine diffusa a considerare il metodo scientifico e la scienza come “un modo” di vedere le cose, un punto di vista come un altro?

Che non è una cosa nuova e riguarda molti tempi e molti tipi di società: in America c’è di certo un atteggiamento antiscientifico molto popolare che cerca di contestare la validità del pensiero scientifico alla sua base e di suggerire che ci siano approcci antiscientifici di altrettanta validità.

Ma secondo te chi crede invece nella scienza e nel pensiero razionale deve cercare di affermarne la validità solo restandogli fedele, o ci sono situazioni di “guerra delle idee” che impongono anche di contestare i propugnatori di tali idee? Penso per esempio alle combattive campagne portate avanti in questi anni dai pensatori “atesisti” come Dawkins, o anche Hitchens, per contestare razionalmente la fede in Dio.

Guarda, io non voglio vivere in un mondo che dice dovete credere alla scienza punto. Penso che a ogni teoria e pensiero debba essere data cittadinanza fino a che il dibattito si svolge sul piano del rispetto reciproco e degli argomenti non fanatici. Rispetto alla fede, ci sono grandi spazi di compromesso e convivenza – dimostrati dal gran numero di persone che occupano questi spazi – tra il pensiero religioso e quello scientifico.

E la scienza cosa può fare per popolare ancora di più questi spazi?

Capire come mai c’è chi non li abita: io ho imparato – dopo una educazione religiosa ebraica piuttosto assidua – a separare la componente della religione che riguarda la fede e che non pretende di spiegare perché le cose avvengono, dalla sua parte più “tribale” di chi cerca di trovarci le soluzioni ai propri problemi o del mondo. Questo tipo di abitudine a pensare ai fondamenti e dogmi religiosio come qualcosa che “è” e non va discusso né spiegato limita poi la nostra disposizione a capire le cose.

Quando il mese scorso è stata annunciata la creazione della prima cellula artificiale, la notizia circolava da diversi giorni ma l’Economist aveva imposto un embargo agli altri media rispetto alla propria esclusiva. Naturalmente l’embargo è stato violato in rete alcune ore prima dell’annuncio. Possono essere ancora validi questi meccanismi che riguardano informazione e divulgazione scientifica?

La questione ha diversi aspetti. Intanto oggi molta scienza arriva sui giornali in base a meccanismi economici: ci sono grandissimi investimenti che riguardano sia i media che chi fa ricerca. Questo business, che è notevolisimo che è tutto sul limitare l’accesso alle informazioni, hai giorni contati se non già finiti. Rispetto a temi come quelli scientifici tutte le istituzioni che trattengono le informazioni stanno compiendo enormi ingiustizie per il mondo: ci vogliono regole e leggi che favoriscano l’accesso libero a ogni tipo di dati e documenti.
Ma non bisogna neanche pensare a un mondo illusorio: c’è un sacco di gente che lavora per calcolare l’impatto di questo o quel giornale rispetto alle notizie e alle ricerche che vengono diffuse. È un gran business, e dobbiamo tenerlo in considerazione se vogliamo capire e cercare di padroneggiare il cambiamento.

E quindi, sulla questione della scoperta…

In quella storia ci sono molte implicazioni relative all’informazione. Craig Venter non ha creato la vita, e lui è stato attento a chiamarla “cellula sintetica”: la vita ha migliaia di definizioni e non è solo una questione di lingua ma sostanziale. Perché ha a che fare col modo in cui regoliamo le cose e per regolarle dobbiamo definirle: e Venter sta molto attento a usare il temine vita. E se scientificamente può essere l’inizio di una nuova era, i giornali ne parlano perché ne vogliono palare subito, ma pochi giornali sono in grado di spiegare cosa significa, dare le risposte, e non farne sensazionalismo.

Anche l’Economist?

La copertina stessa dell’Economist (con l’uso di un dettaglio della creazione michelangiolesca, ndr) è piuttosto discutibile, non so se sia il modo giusto di presentare la notizia.

Ma un giudizio critico sui media, il sensazionalismo e la scienza riguarda anche il modo in cui sono stati trattati i rischi di epidemie in questi anni.

Certo col senno di poi non c’è stata questa pandemia mondiale di febbre suina, né di aviaria, ma non so dire se si sia trattato di un vero fallimento dei media: c’è stato un sensazionalismo – e non è mai una bella parola – ma chi può dire che quell’eccesso di cautela non abbia anche aiutato a controllare più attentamente gli sviluppi dell’epidemia.

Cosa ti appassiona più di Seed in questi giorni?

Una cosa simile alla pandemia: la possibilità di allargare geograficamente gli obiettivi di divulgazione scientifica. Abbiamo lanciato dei blog in Brasile e stiamo lavorando sulla Germania. Sui blog facciamo tre milioni di utenti unici al mese. Capire quali altri paesi e lingue possano essere colonizzati da una buona informazione scientifica è la cosa più stimolante, ora.

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