Una cosa lunga sul bel libro di Francesco Piccolo

Sono stato convinto per gran parte della lettura del nuovo libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, che I barbari di Baricco non fosse più l’unico libro ad avere spiegato con straordinarie intelligenza e intuizione il cambiamento di questo millennio, e parlo del cambiamento nelle nostre teste e nel nostro rapporto con quello che ci succede intorno: mi è venuta qualche perplessità nel finale, ma l’ho già superata. Il libro di Piccolo – avviso: ci sono spoiler sul libro in queste mie riflessioni, vedete voi – è diverso dal saggio di Baricco, che era una raccolta di riflessioni le più varie intorno a un’idea complessiva: questo è una specie di precoce autobiografia aggrovigliata a una biografia dell’Italia nei cinquant’anni corrispondenti, e da questi due racconti escono pensieri acuti e molto attuali su come siamo e come funzioniamo.

Il tema che a me pare centrale (ce ne sono molti) è quello del rapporto di Piccolo con la sua “superficialità”: la ricerca intorno alla possibilità o meno di far coincidere i suoi desideri e le sue emozioni con quelli che pensa siano i desideri e le emozioni “giuste”, il confronto tra ciò che è e che sente e ciò che gli dicono il mondo e le sue stesse elaborazioni, l’equilibrio tra il microcosmo intorno a sé e il grande mondo tutto intorno. Questo tema e altri sono raccontati con una bella trovata: individuare continue metafore della realtà e dei suoi dilemmi in parte negli episodi della sua vita e in parte in opere letterarie e cinematografiche che Piccolo racconta ai lettori in modo molto piacevole e avvincente.

Confesso, come dicono quelli, di non essere un lettore obiettivo: ho scoperto di avere la stessa età di Piccolo e di condividere inevitabilmente una serie di corrispondenze tra reazioni private ed eventi storici che lui racconta, a cominciare da un gol di Sparwasser nel 1974 (non mi dilungo su queste ragioni di apprezzamento, né su quelle che hanno a che fare con altre sintonie – basti dire che Piccolo scrive spesso di “stare in mezzo”, che i lettori più affezionati qui ricorderanno essere un vecchio motto di questo blog – perché riconosco in questa tentazione la meschina frustrazione del lettore che non è stato capace di scriverle, quelle cose che sente così sue). La mia fortuna – oppure sfortuna: dato che io quindi non ho materiale per scrivere un libro così bello – è stata un’educazione immeritata che mi ha regalato per tempo opinioni che Piccolo ha conquistato con grande fatica e vagabondaggio: la consapevolezza che il bene non stia per definizione da una parte, che l’essere minoranza è una sconfitta e non una vittoria, che possano convivere emozioni “superficiali” e individualismi con tensioni verso il bene comune e generosità, che criticare invece che costruire sia più facile ma perdente. Cose così, che nel libro di Piccolo si concretizzano in un’ammirazione per il Berlinguer costruttore del compromesso storico e di un’idea inclusiva di governo (ammirazione contrapposta a una critica, per quanto solidale, per l’arroccamento identitario a cui Berlinguer fu costretto dai fatti e dalla variabile imponderabile del sequestro Moro, arroccamento poi esaltato sventatamente dai suoi successori), in una diffidenza per la battaglia antiberlusconiana condotta con armi berlusconiane e sui piani del ridicolo invece che su quelli della concretezza: in un rifiuto di Piccolo per l’idea di una parte migliore e una peggiore del paese e soprattutto di una loro definizione esatta e preventiva.

Ma l’intuizione migliore e più raffinata del libro di Picco è lo sdoganamento della condizione caratteriale della “superficialità” (è interessante che il libro di Baricco, così diverso e così altrettanto contemporaneo, parlasse dello stare sulla superficie delle cose), l’accettazione e nobilitazione di un atteggiamento sdrammatizzante e indulgente nei confronti della vita e del mondo che è oggi una condizione estesissima e quella su cui sarebbero possibili grandi investimenti costruttivi, se la sinistra ex progressista e di cambiamento non fosse diventata reazionaria: atteggiamento contrapposto all’indignazione permanente e alla sistematica espressione di disgusto e fastidio che molte persone di sinistra hanno assunto persino nei riguardi delle stesse cose che frequentano e fanno.
Dai pensieri di Piccolo e dalla loro evoluzione, si capisce che il terreno più fertile di cambiamento in meglio del mondo è dato dalle persone in cui prevale il curioso desiderio di un cambiamento piuttosto che la “resistenza” indignata nel passato. Che la presa di distanza dall’oggi e dalle maggioranze è stato ed è l’atteggiamento più complice nei confronti degli aspetti criticabili dell’oggi, una ritirata autoassolutoria ma ancora più colpevole: una consegna del presente e del futuro ai cialtroni, avvenuta nel momento in cui presente e cialtroni sono stati dichiarati identici, e non lo sono. Che stare nell’oggi, amandolo ed essendone affascinati in quanto tale, se non aiuta a renderlo migliore – e spesso lo fa – aiuta ad essere più felici (mi ha meravigliato che in una sintesi finale di questi temi, Piccolo non abbia citato la principale canonizzazione di questi pensieri, la formula del Pane e le rose di cui incidentalmente ha raccontato la storia Enrico Deaglio nel suo nuovo libro appena uscito).

Noi pensiamo sempre che c’è stato un passato miglio­re, in cui le persone si occupavano, tutte, di questioni im­portanti. Pensiamo che siano i nostri tempi a essere su­perficiali, perduti. È questa certezza che ha reso saldo il nostro istinto reazionario, in qualsiasi spazio di vita. Era meglio prima.
Gli uomini primitivi, quando arrivava la luce del gior­no, uscivano dalle caverne e rischiavano la vita contro ani­mali ferocissimi, per procurarsi cibo. Ma si è scoperto che uscivano dalle caverne e rischiavano la vita anche per pro­curarsi coralli per fare le collane. Rischiavano allo stesso modo, sia per la sopravvivenza sia per la vanità.
La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profon­dità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità. È questo il problema in cui mi sono tro­vato alla mia nascita in quanto persona che sta nel mondo, e al quale non sono mai riuscito a dare risposta – rubavo la coca cola e contemporaneamente sentivo la grandezza di far parte dell’umanità. Gli esseri umani si preoccupano delle condizioni di vita nel mondo e cantano a squarciagola canzonette sotto la doccia. La sinistra, mi pare, ha impara­to a conoscere a fondo i grandi problemi di questo Paese (senza peraltro che questa conoscenza bastasse a risolverli); mentre è geneticamente maldisposta verso un’altra parte di Paese, preponderante per costume e forza, superficia­le, spensierata. Ed è cosí geneticamente maldisposta, che non sa nemmeno piú che Paese è. Finora questa lacuna era stata combattuta dicendo: stanno dall’altra parte del con­fine, non ci riguardano. Ma poiché questo è un solo Paese; poiché la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che per­dono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo – è bene oltrepassarlo questo confine e andare a capire di là chi c’è, come si ragiona, cosa si fa. Portando il proprio sapere, i propri ragionamenti, le proprie soluzioni. La sinistra si deve occupare di procurare cibo per so­pravvivere e si deve occupare di procurare coralli per le collane. Se non fa entrambe le cose – come non ha fatto – diventa elitaria e dispregiativa.

Questi approcci ai nostri tempi e all’Italia sono stati e sono tuttora minoritari, a sinistra (il libro di Piccolo, della sinistra parla, raccontando mille storie affascinanti), sconfitti da intransigenze e aggressività, indoli reazionarie, faziosità e demagogie, rifiuti del cambiamento e della comunità, che prevalgono da molti anni: però mi chiedo se stia cambiando qualcosa, oggi che hanno somiglianze con alcune cose che dice il candidato favorito alla guida del PD e al governo; trovano ospitalità complice nel programma più identitariamente di sinistra della Rai; hanno sovrapposizioni con altre idee simili pubblicate e diffuse in questi anni su libri e siti web. Probabilmente saranno invece poco accolte sui quotidiani a cui Piccolo allude quando dice:

Da questa par­te, dalla parte degli antiberlusconiani, si sono posizionati “tutti gli altri”. E siamo tanti. Con pensieri molto diversi, ma costretti a stare tutti insieme. Stiamo tra di noi, comu­nichiamo tra di noi. Ci confermiamo le nostre ragioni, ci rassicuriamo su un assunto fondamentale su cui abbiamo molto bisogno di essere rassicurati: che il mondo miglio­ re è il nostro, assomiglia a noi e alla vita che viviamo, alle scelte che facciamo riguardo non soltanto a regole e leg­gi, ma anche a salute, cibo, educazione, linguaggio, libri, film, viaggi. Abbiamo pensatori di grande fama e carisma che stanno insieme a noi, ci rassicurano, dicono che siamo giusti e facciamo cose giuste; anche se il mondo sta andan­do da un’altra parte, anche se la gente in maggioranza vo­ ta da un’altra parte non ci dobbiamo preoccupare: stanno sbagliando e un giorno si ravvederanno, comprenderanno e torneranno. Abbiamo creato giornali su misura per noi, scrittori su misura per noi, film su misura per noi, eventi su misura per noi, e tutti ci comunicano compiaciuti che non stiamo sbagliando, che stiamo facendo tutto bene, che dobbiamo continuare cosí. Mai nessuno che metta in dubbio le nostre idee, si chieda se c’è qualcosa che non funziona, si chieda perché gli altri riescono a penetrare i desideri di una quantità di gente superiore alla nostra. Mai che andiamo a curiosare chi sono, cosa fanno, quali debo­lezze hanno, se nascondono una virtú che non riconoscia­mo. Siamo assolutamente sicuri che il mondo è diviso in due, quelli che stanno sbagliando tutto e quelli che stan­no facendo tutto bene, e per una coincidenza infelice la maggioranza continua a essere cieca e a guardare a quelli che sbagliano. Ma presto, molto presto, si ravvederanno.

A proposito dei giornali, Piccolo racconta molto bene la pigra ritualità del lavoro di molti commentatori di fatti correnti sui quotidiani – lui compreso -, una catena di montaggio di ovvietà che alla fine suona come un brusio di fondo insignificante.

Mi telefonavano e mi dicevano: una barca di immigrati clandestini è naufragata, ti va di scriverne? Lo chiedevano a me come ad altri per altri giornali. E io e gli altri scrive­vamo un articolo indignato e addolorato in cui dicevamo che era molto brutto che la barca fosse naufragata, che le barche sarebbe molto meglio che non naufragassero; che era molto brutto che gli immigrati non venissero accolti, che era molto brutto in generale che la gente nel mondo soffrisse di fame e di povertà e fosse costretta a prendere barche per andare a cercare fortuna in Paesi piú ricchi e che poi queste barche naufragassero. Poi ci chiamavano e ci dicevano che una donna era stata violentata in una città del Nord, noi scrivevamo che era molto brutto che le don­ne venissero violentate, e che non bisognava violentarle, e che era molto brutto in generale che ci fosse qualsiasi tipo di violenza, non solo nel Nord, ma anche nel Sud, e che tutte le persone, e in special modo le donne, doveva­no essere rispettate e amate. Ci eravamo perfino spinti a scrivere, alcuni di noi, che era molto brutto che Israele e Palestina fossero in guerra da cosí tanto tempo, e che bi­sognava trovare una soluzione; non avevamo idea quale, ma nessuno ne aveva idea, quindi il proposito era suffi­ciente; e poi pensavamo, scrivevamo, che in tutti i luoghi del mondo ci sarebbe stato bisogno di pace e non di guer­re. Scrivevamo che bisognava dare lavoro ai disoccupati, che la cultura era importante, e un sacco di altre cose che sono tutte lí, a testimoniare il mio (nostro) senso civile.
Non era compito nostro trovare soluzioni, però era com­pito nostro tenere desta l’indignazione. La richiesta dei giornali e il mio desiderio coincidevano alla perfezione: i giornali cercavano scrittori che dicessero le cose giuste che c’è bisogno di dire; io avevo cercato con tutte le forze di essere cosí; i lettori andavano ogni giorno in edicola e ve­devano confermato in pieno quello che pensavano. Tutti avevano già pensato questi pensieri, è vero, ma il motivo era molto semplice: dicevamo cose giuste. Ci sentivamo rassicurati, nonostante ritenessimo di vivere tempi parti­colarmente bui: almeno c’era una comunità che difendeva una fortezza dentro la quale non ci importava nemmeno troppo cosa custodissimo.

Potrei andare avanti a citare passaggi e invenzioni interessanti di questo libro per molto ancora: è un libro molto bello. Ci sono invece alcune cose che non mi convincono, nella sua ultima parte. Una è questa: Piccolo sostiene che sia sbagliato – e lui lo ha fatto – sentirsi migliori di altri italiani, e sia sbagliato disprezzare “le persone diverse da me”. Formulata così, è un pensierino ingenuo non all’altezza della lucidità del resto del libro. Quello che è indubbiamente sbagliato è infatti formulare queste valutazioni a priori, pregiudizialmente, in nome della diversa cultura, politica o no. Ma che ci siano di volta in volta – misurate e misurabili – persone migliori di altri, pensieri migliori di altri, opinioni più corrette e nobili di altri, e ragioni a volte di disprezzo di persone, pensieri, opinioni, mi pare indiscutibile: il problema della “superiorità morale” è che in parte della sinistra italiana è diventata un dato pregiudiziale a prescindere, una presunzione che ha perso l’abitudine a motivarsi e dimostrarsi, e si è svincolata dalla morale, diventando pretesa di superiorità anche quando era immorale. Ma senza rapporti di valore e “superiorità” non esistono più cose giuste e cose sbagliate, sostituiti da un egualitarismo assolutorio, pavido e artificiosamente generoso: che non credo Piccolo condivida, ma ho l’impressione che gli sia scappata la mano in una tendenza all’autodafé che è un astuto tratto del suo racconto.

A questo proposito, al lettore che abbia apprezzato strada facendo la straordinaria capacità di consapevolezza di sè, dei propri pensieri e delle proprie scelte da parte di Piccolo, l’elencazione finale di eventi i più vari, candidi e ingenui della sua vita suona inevitabilmente più costruita e paracula di quello che pretende, e sembra improbabile che l’autore non abbia ponderato l’effetto che fa ognuna di quelle spudorate confessioni, apparentemente sincere ma molto scelte. La scrittura stessa del libro, sta nel modo di essere precario e contraddittorio che Piccolo vi racconta e rivela.

Infine, sono ovviamente molto in dissenso con la conclusione autoindulgente di Piccolo nei confronti del suo carattere: dico ovviamente perché il discorso di Piccolo, con qualche raffinatezza in più, si avvicina molto al famigerato “sii te stesso” su cui ho annoiato già molti lettori. Ma me la spiego con la confessata passione di Piccolo per la condizione di perdente e per gli stimoli della sconfitta rispetto alle soddisfazioni della vittoria: e quindi evidentemente preferisce conservare il sé difettoso piuttosto che ottenere da sé successi di cui rallegrarsi.

Per quanto mi riguarda, tutti questi anni passati a in­seguire un me migliore, sono stati molto faticosi e hanno ottenuto poco o niente, nel tentare di indicare la respon­sabilità degli altri. Tanto valeva affrontare le cose dalla strada opposta: ammettere chi ero, da dove venivo – tutti i miei limiti; era questo il sollievo che avevo provato li­berandomi della purezza, come se la tensione a essere co­me i miei simili mi avesse debilitato, impegnando tutte le mie forze in uno sforzo gigantesco; e alla fine, non ci ero nemmeno riuscito.
È meglio rendersene conto: se come si è, e come si dovrebbe essere, non riescono a coincidere, allora la sin­cerità è piú fruttuosa del senso di giustizia. Perché ti fa cercare le cose che non funzionano in te, in qualche mo­do ti fa imparare ad accettarle e a conviverci – la since­rità ti fa vedere anche accanto a te quei cinque ragazzi abbarbicati addosso alla ragazza del cortometraggio fran­cese. Il senso di giustizia ti spinge di continuo a ignora­re i tuoi difetti fondanti e a tendere verso il bene. E chi non ha la propensione alla purezza, non ce la fa; o ce la fa inciampando di continuo, guardandosi di continuo al­ lo specchio perché i vestiti che indossa non sono i suoi, sono quelli che vorrebbe indossare, quelli che desiderava. Ma non sono i suoi. 

Tra le storie che Piccolo recupera e racconta c’è un famoso romanzo di Dürrenmatt, La promessa: il protagonista si convince così tanto di una sua ipotesi – contro ogni evidenza e il parere di tutti – da diventare ossessionato dalla sua dimostrazione. Poi si scopre che aveva ragione lui, ma un incidente imprevisto ha reso impossibile che i fatti gli diano ragione: lui però ormai è impazzito e continuerà ad aspettare quei fatti, contro ogni possibilità realistica, incapace di assumere che la realtà abbia sovvertito la bontà delle sue ragioni.

Così dice di sentirsi Piccolo, rispetto all’Italia e alle sue aspettative per l’Italia: “C’è stato l’incidente, ma io non lo so. O meglio, lo so, me l’hanno raccontato, ma sono impazzito e continuo a dire che (la mia soluzione) verrà, io aspetto perché sono convinto che verrà”. Ed è un’altra ottima allegoria per raccontare l’apparentemente inconciliabile contraddizione tra il nostro lucido disincanto sulle prospettive di questo paese e la nostra imbattibile tendenza a volerle cambiare. È successo un incidente, lo sappiamo, ma siamo impazziti e aspettiamo convinti che un cambiamento in meglio arriverà. Probabilmente siamo più felici così, e l’attesa si autoavvera.

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9 commenti su “Una cosa lunga sul bel libro di Francesco Piccolo

  1. Francesca

    Avremmo dunque mancato di “superficialità”, non avremmo saputo, o non sapremmo stare “sulla superficie”?
    La superficialità è quell’atteggiamento per cui “nessuno possiede tutta la ragione” si svacca in “non ci sono ragioni, e comunque io non he ho bisogno”, dal quale discende “possiedo tutta la purezza”, per cui se non ci sono coralli deve essere COLPA dell’inpuro e del contaminato.

  2. sergiogarufi

    l’idea che oggi l’intellettuale, intervenendo sulle questioni di più scottante attualità, debba darci ragione per sembrare che ha ragione, ossia debba farsi vox populi, è una solenne baggianata. la riflessione di francesco piccolo, con gli esempi dei suoi articoli sulle barche di immigrati naufragate o sulle donne violentate, ricalca ancora la stessa modalità di pensiero binario, mentre un tempo l’intellettuale provocava, faceva discutere, urtava il senso comune (penso per es. agli articoli di manganelli a proposito degli spastici cacciati da un albergatore ligure perché gli rovinavano l’immagine), magari adoperando un registro antifrastico molto più efficace nel mostrarci quella barbarie. in questo pezzo uscito su l’unità lo argomentai in modo più articolato:
    http://lavienbeige.wordpress.com/2012/09/20/dalla-parte-del-torto/

  3. Raffaele Birlini

    Viene trattato l’argomento dell’intellettuale (in termini contemporeanei chiunque abbia scritto un libro non-fiction, magari inserito nella collana saggistica), come se non ci fossero calcoli di convenienza dentro alla scelta della militanza politica. La democrazia come mercato dei voti, dove qualsiasi programma di governo è accettabile se ti fa prendere più voti dell’avversario, a prescindere da valutazioni di fattibilità, qualsiasi candidato è preferibile se i sondaggi lo danno favorito, implica il doversi vendere, il marketing politico dove la comunicazione non è informazione ma promozione, la propaganda è pubblicità per vendere il prodotto ideologico. Se non scegli la sinistra hai meno possibilità di successo in quanto i sentimenti nobili sono a sinistra, la lotta contro il male sta a sinistra. Che senso avrebbe, per chi voglia vendere le sue chiacchiere, recitate o scritte o cantate, il sostenere opinioni che non vanno incontro ai gusti delle masse di elettori/clienti? Oppure il precludersi l’accesso a piattaforme mediatiche che devono vendere spazi pubblcitari perché lo sponsor che finanzia lo spettacolo non vuole che la sua merce venga associata al nome di chi dice cose spiacevoli da sentire, a un antipatico, a un personaggio che non attira consensi immediati, non filtrati da ragionamento ma dettati dall’emozione. Quindi la morale che deve sottostare alle scelte di chi è chiamato a esprimere opinioni nei panni dell’intellettuale (che poi di intellettuale può anche non avere nulla, essere semplicemente un testimonial commercial-politico dell’opinione che si desidera prevalente o si considera una scelta premiante in termini di feed-back elettorale, la più semplice da veicolare nelle preferenze del target di cui si vuole conquistare la fiducia, l’amicizia, il click sul bottone mi piace) è svincolata dalla verifica di realtà, si può dire morte allo strupratore oppure accogliamo lo straniero senza dover spiegare come dove perché, l’importante è il messaggio implicito del tipo noi siamo i buoni e gli altri no, gli altri bisbigliano fra di loro cose meschine, con noi ivece condividi senza paura, sottoscrivi senza vergogna, sii orgoglioso di gridarlo per strada, e l’intellettuale non è chiamato a riflettere e ragionare esercitando il giudizio critico, ma il suo compito è solo quello di narrare, mettere insieme la favoletta del giorno che ci fa sentire bene nelle parentesi di svago dedicate all’informazione come il ritrovare la solita musichetta nel solito spot, ci rassicura di non aver sbagliato a votare, di non tifare per la squadra dei cattivi, permettendoci di vivere dentro a un’atmosfera finta, disneyana, che ci libera dal senso di colpa, dalla frustrazione, dal peso opprimente di una realtà sempre al di sotto delle aspettative, di un futuro che tende a ignorare le nostre speranze, alla storia che tende a non realizzare i nostri desideri. Pertanto che qualche sonnambulo con appicciata addosso l’etichetta di intellettuale, in missione per conto della dea politica, ogni tanto si senta alienato, schizoide, paranoico, e si faccia delle domande sulla propria sanità mentale, beh, è forse un bussare del buon senso alla porta della coscienza, ma forse in casa non c’è più nessuno.

  4. odus

    Se Piccolo ha ragione tanto che il direttore de il post gli dà ragione quando riconosce errato rifiutare la “superficialità” degli “altri da voi che siete nel giusto” mentre quegli altri anche se sono la maggioranza sono chiaramente fuori dal giusto, brutti e cattivi, perché allora, di grazia, il post censura e non pubblica tanti dei miei commenti essendo io uno degli “altri da voi” che siete i giusti per antonomasia: quelli che, come scrive Piccolo ” Tutti avevano già pensato questi pensieri, è vero, ma il motivo era molto semplice: dicevamo cose giuste. Ci sentivamo rassicurati, nonostante ritenessimo di vivere tempi parti­colarmente bui: almeno c’era una comunità che difendeva una fortezza dentro la quale non ci importava nemmeno troppo cosa custodissimo.”

  5. minimAL

    “Non leggo libri da mesi e mesi, forse anni: cioè, li apro, ne leggo dei pezzi, o li sfoglio, ma non li riprendo quasi mai. Ne apro degli altri, eccetera. So di cosa parlano, insomma, e anche come sono scritti. Conoscenza superficiale, eccetera: ma io avevo un’attitudine alla conoscenza superficiale già prima che il mondo diventasse a mia immagine ed accoglienza”
    (Luca Sofri, 22 giugno 2010)

  6. nicolacolella

    OT: è un mio problema, o il sito del Post non è più raggiungibile? (nel senso che si apre la pagina di un servizio di registrazione domini).

  7. Pingback: Francesco Piccolo Il desiderio di essere come tutti | Zanzibar

  8. DigitalLion

    Libro bellissimo, sono del 63 e ci ho riletto la nostra storia di questi anni.
    Alcune cose non mi hanno convinto. La prima è che quando si era ragazzi negli anni 7o sceglievi per chi schierarti in base alla divisa, ad un pacchetto di valori preconfezionati, ti affascinava questa o quell’altra parte e non la mettevi mai in discussione. Poi, casomai il ragionamento subentrava dopo (quando?) e allora potevi aggiustare il tiro e scegliere per davvero, e se eri fortunato riuscivi addirittura a cambiare idea, oppure confermavi la tua scelta ma con motivazioni, contenuti ragionati.
    Ecco, in base a quale pacchetto di valori Piccolo da ragazzo sceglie di diventare comunista? Ok, si rende conto di parteggiare per i più deboli nelle partite di calcio, ci sta. E poi la speranza di cambiamento, di un mondo migliore. Si ma migliore come? Non si può dire l’uguaglianza, perchè Piccolo capisce presto che non può essere quello, dato che siamo diversi. Semplicemente, pari opportunità in partenza e poi devi potertela giocare in base ai tuoi talenti, senza doverli redistribuire, i tuoi talenti.
    Quindi, simpatia per i più deboli, cambiamento, mondo migliore. Tutto qua?
    E dopo, quando subentra il ragionamento, cosa aggiunge?
    Ok, il fatto che impara che è necessario fare, e non solo starsene li a giudicare e a sentirsi migliori di quelli che provano a fare. Ma cosa è necessario fare? Non è dato sapere.
    E poi, del libro, non mi hanno convinto gli orizzonti. Dice che ha scelto di stare, che la sua vita è in Italia e i suoi orizzonti sono in Italia. Si ha l’impressione di stare a Roma, poi in vacanza a Caserta o al mare li vicino. Ecco, forse questi orizzonti sono un pò strettini, bastano per giudicare ma non per fare. Per fare bene.

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