Siamo in effetti parigini

Ogni volta che ci sono violenze o catastrofi con molti morti, in una parte del mondo o l’altra, a molti vengono da paragonare le diverse reazioni che prevalgono in questa parte di mondo, nelle nostre teste, sui nostri giornali e siti di news, nelle conversazioni: e domandano perché quelle che sembrano uguali sofferenze, uguali numero di morti, o addirittura maggiori, vengono trattati con minore commozione, minore scandalo, minore preoccupazione, solo perché avvengono in luoghi lontani, o in luoghi diversi. In alcuni casi domandano davvero e in buona fede, ponendosi il problema essi stessi; in altri la domanda è strumentale a un’accusa di ipocrisia o di discriminazione nei confronti di alcuni popoli o di alcune sofferenze (ieri questa inclinazione ha generato un caso di accecamento collettivo sui social network).

Le discriminazioni esistono, e di certo a molte persone ci sono popoli e luoghi del mondo che sono più cari per ragioni personali, biografiche, politiche, religiose. E spesso sono anche ragioni comprensibili: le violenze compiute da quelli che sentiamo aggressori nel torto, per esempio, sono meno tollerate di quelle compiute da chi riteniamo reagisca o si difenda da quell’aggressione, spesso con uguali spietatezze e uguali sofferenze inferte. Anche se spesso è il pregiudizio fazioso a farci decidere chi sia l’aggressore e giudicare di conseguenza.
Per questi casi – forse per tutti – probabilmente bisognerebbe a priori fare uno sforzo per trattenersi dal paragonare, e ancora di più dal paragonare a forza di numeri di morti: le storie sono diverse, ognuna drammatica a modo suo, e nessuna merita di diventare un argomento di paragone con qualcos’altro.

Ma più di frequente la ragione per cui abbiamo reazioni che ad alcuni suonano come “due pesi e due misure”, è secondo me comprensibile e legittima, e dovremmo serenamente rivendicarla, invece che sentircene in colpa: soffriamo di più per le persone che ci sono più vicine. Nessuno si meraviglia che ci emozioniamo e soffriamo molto se muore un nostro parente, o un nostro amico, o qualcuno che avevamo conosciuto, in misure successive: e che quindi ci siano reazioni diverse a seconda della maggiore o minore prossimità con le vittime. Ma per molti di noi – non per tutti: c’è chi ha il cuore da sentirsi vicino a tutti gli umani – questa prossimità esiste ed è sentita con forza decrescente anche per i nostri concittadini, o connazionali, o “simili”. Per tutti, in ogni parte del mondo, ci sono civiltà e persone che ci assomigliano di più, di cui condividiamo di più le sofferenze perché ci è più facile entrare nei loro panni, riconoscere le loro sensazioni, le loro vite (certo, dice giustamente Lorenzo Fernandez: c’è una responsabilità da parte dell’informazione che fa poco per aiutarci a entrare nei panni diversi dai nostri). Ci somigliano, tra i nostri simili. Ci sono persone “come noi”, e persone più diverse. Ci sono luoghi che sono quelli dove camminiamo e luoghi che non abbiamo mai visto (purtroppo). Questo non vuol dire, naturalmente – conclusione da stupidi, o da disumani – che le seconde persone debbano essere meno protette, difese, aiutate delle prime (anche se le organizzazioni statali basano il proprio funzionamento su equilibri di priorità, inevitabilmente). Ma lo scandalo per il fatto che siamo più colpiti, addolorati e preoccupati per i morti di Parigi rispetto a quelli di Karachi o di Baghdad – e ne parliamo di più, e ci sembra che abbiano a che fare con il nostro mondo e lo cambino – è uno scandalo sterile da professionisti dell’indignazione. “Il nostro mondo” esiste, e ogni persona in ogni mondo ne ha uno suo (più è esteso, meglio è). Riconoscere e tollerare questi sentimenti – distinguendo commozioni e ragioni, empatia e giustizia – non significa ignorare il bene degli altri mondi (anzi, proprio l’identità può diventare una motivazione all’altruismo).

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6 commenti su “Siamo in effetti parigini

  1. Luca Segantini

    Tutto condivisibile, eccetto per un notevole caso: in tutto il mondo, sembra esserci una soglia di attenzione altissima per i morti palestinesi. Non c’entra la vicinanza geografica (gli australiani, ad esempio) o l’affinità culturale. È proprio che gente diversissima per lingua, religione, cultura e opinione politica sembra veramente preoccuparsi di più per quei morti che, poniamo, per i massacri di studenti messicani o per il genocidio in Rwanda o per gli eccidi in Bosnia. Europei, americani o altre nazionalità tutti accomunati da questa eccezione alla regola “il mio simile conta di più” spiegata sopra. Ho letto tante teorie su questo, nessuna mi ha convinto. L’altissima mediatizzazione del conflitto in Palestina mi sembra non spieghi niente, è più la conseguenza di questa inspiegabile sensibilità che la causa. Come dice Francesco Costa: “I giornali ne scrivono sempre, di Beirut, del Kenya, eccetera: è ai lettori che non interessano, per questo non ne sentite parlare in giro.” Idee?

  2. Jack

    Sono d’accordo e lo penso da tempo: è normale che un avvenimento che riguarda un parente stretto ci colpisca di più di uno che riguarda un conoscente, e l’empatia diminuisce naturalmente, almeno per la maggior parte di noi, man mano che ci si allontana dalla nostra sfera personale.
    C’è però secondo me da fare un distinguo: la nostra parte emotiva funziona così e non abbiamo modo di alterarne il comportamento; ma, prima di far esprimere quel pezzetto della nostra persona pubblica rappresentato dai nostri account sui social network, dovrebbe intervenire una specie di filtro che moderi le nostre reazioni ed esternazioni in base alle razionali considerazioni già note.

  3. tanogasparazzo

    “Filter bubble, in italiano bolla di filtraggio, è il termine utilizzato per definire l’insieme di filtri imposti sulla Rete per favorirne l’usabilità—il loro scopo è, letteralmente, filtrare i contenuti ponendosi tra noi, gli utenti, e loro, le informazioni. Abbiamo trasformato la rete in una vetrina di contenuti cuciti su misura per noi, gettando nel cesso il processo di decentramento della conoscenza che era avvenuto negli anni precedenti.”

  4. Lazarus

    L’altissima soglia di attenzione per qualsiasi refolo d’aria che riguarda i palestinesi (non il conflitto in se perché nessuno sa nulla e nessuno si preoccupa di sapere realmente come stanno le cose) è un fenomeno che ha un’origine che si perde i tempi remoti e che periodicamente rinasce e si rinnova. La “inspiegabile sensibilità” (termine adeguatissimo) è parte di questo fenomeno sul quale qualche ingenuo un giorno osò dire: mai più. Ma la memoria purtroppo è corta.

  5. Boccione

    E’ facile commuoversi sui social e forse anche opportuno.
    Non mi convince, ritengo che siano i media a decidere chi e cosa deve commuovere il pubblico, se parlassero, così come hanno parlato della strage di parigi, per esempio dell’aereo abbattuto in russia, facendoci conoscere la vita dei passeggeri, dei loro figli dei loro amori… oppure dei morti uccisi per errore, errore ammesso dagli stessi bombardieri, dell’ospedale a kunduz, l’effetto sarebbe uguale.
    In questi giorni i tg non hanno riportato altre notizie, monotematici e monoespressivi. Tra quelli che hanno messo la bandiera francese su fb lo stesso giorno hanno fatto anche questo
    http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/11/16/foto/battaglia_con_i_cuscini_in_piazza_del_gesu_-127482882/1/#1
    certo certo la vita continua, ma con un po’ di coerenza si spera.
    Se poi parliamo di vicinanza, quanto tempo abbiamo impiegato prima di commuoverci per i morti in jugoslavia?

  6. fedecaso

    La riflessione di Sofri sui motivi per cui i fatti di Parigi ci commuovono di più rispetto a fatti analoghi che accadono in altre parti del mondo, sfiora, con sorprendente leggerezza, un problema enorme. Secondo Sofri i parigini sono più vicini e affini a noi di quanto non siano, per esempio, gli afgani, i siriani, i russi morti sul Sinai e persino, viene da pensare, i bosniaci di 25 anni fa. Per questo le loro morti ci colpiscono di più e i media parlano così dettagliatamente delle loro biografie. E’ lo stesso meccanismo psicologico, dice Sofri, per cui la morte di un amico o un famigliare ci colpisce di più di quella di uno sconosciuto. E’ lo stesso meccanismo, aggiungo io, per cui se accade, poniamo, una tragedia aerea, la circostanza che non vi fosse nessun italiano a bordo viene presentata dai giornalisti con un accento consolatorio, come se la tragedia fosse tutto sommato meno grave – il che mi fa regolarmente arrabbiare molto me ma non Sofri, a quanto pare.
    All’origine del ragionamento di Sofri ci sono processi di identificazione e di corrispondente disidentificazione che non cessano di essere pericolosi e spesso colpevoli per il solo fatto di essere spiegabili o in qualche modo naturali. Anche a me hanno colpito straordinariamente le stragi di Parigi. Non tanto per una speciale affinità con le vittime – mi sono commosso altrettanto e ancor più spaventato per le storie individuali raccolte nei libri di Luca Rastello sulla guerra bosniaca, o per i reportage di Salgado sul Ruanda. Mi hanno colpito per le circostanze, i luoghi e i modi in cui si sono verificate. Alla pena per le vite stroncate si aggiunge il senso di un pericolo a cui sono esposto in prima persona: facile immedesimarsi.
    Ma al di là delle ragioni per cui mi sento più coinvolto in questa vicenda che in altre, invece che cercare una puerile (lo ripeto: puerile) giustificazione che servirebbe solo a farmi sentire meglio come probabilmente si sente meglio Sofri dopo avere scritto il suo articolo, cercherò di usare la mia partecipazione emotiva per immedesimarmi anche con situazioni molto più lontane da me. La stessa pena che ora provano i famigliari di Valeria (a cui va tutto il mio cordoglio) la provano altri famigliari di vittime dello stesso terrorismo in altre parti del mondo e sarebbe il compito del buon giornalismo aiutarci in questo esercizio difficile. Un esercizio nel quale io per primo non sono affatto bravo: spesso hanno la meglio la pigrizia emotiva, la debolezza morale e la mancanza di immaginazione. Sì sa la sera, dopo una giornata di lavoro… non si riesce a stare dietro a tutto il dolore del mondo, meglio limitarsi a quello degli europei. Si può comprendere, ma non voglio smettere di sentirmi colpevole per questo.

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