Quello che sappiamo, lo sappiamo dai titoli

Il titolismo è ormai una categoria a sé del giornalismo contemporaneo. Lo è sempre stato, ma negli ultimi anni il distacco e l’autonomia dell’informazione trasmessa attraverso i titoli rispetto a quella propria degli articoli sono cresciuti straordinariamente soprattutto per due ragioni: la prima è l’aumento del sensazionalismo allarmistico generato in parte dalla crisi di vendite e in parte dal fatto che l’enorme quantità di informazioni in circolazione ha alzato l’asticella dell’attenzione dei lettori, che i giornali cercano di coinvolgere con toni sempre più enfatici e spettacolari; l’altra ragione è che effettivamente la quota di attenzione e tempo dedicati agli articoli da parte dei lettori è molto diminuita, e una grandissima parte di lettori usuali o passeggeri legge soltanto i titoli, di molti articoli, se non di tutto il giornale. O legge solo i tweet e i lanci su Facebook.

Di conseguenza, nel caso della storia falsa sulla ragazza bruciata dal Ku Klux Klan, è molto probabile che un numero molto esiguo di lettori del «Corriere della Sera» abbia chiuso il giornale consapevole che la ragazza aveva confessato che quella del Ku Klux Klan era una balla. E anzi la maggior parte avrà registrato quella versione, la ragazza sfregiata e bruciata dai razzisti (per via della maglietta di Obama, se ne hanno letto sul «Fatto»). Dico «molto probabile», ma in realtà l’effetto è documentato.

A dicembre del 2014 il settimanale americano «New Yorker» ha infatti raccontato di uno studio compiuto dallo psicologo Ullrich Ecker alla University of Western Australia (che è una vera e illustre università australiana, se ve lo state chiedendo: lui è più esattamente un neuroscienziato che studia i meccanismi della memoria). L’articolo del «New Yorker» era intitolato «Come i titoli cambiano il nostro modo di pensare», e la scelta delle parole era molto azzeccata: il tema infatti non è che i titoli siano spesso inesatti, falsi, o sbagliati. Il tema è che proprio dai titoli noi registriamo le cose che poi sappiamo, un’idea della realtà, dei fatti e del mondo: spesso inesatta, falsa o sbagliata.

Spiegava quella ricerca che sono soprattutto i titoli degli articoli a influenzare la nostra percezione del loro contenuto e ciò che ne conserveremo. A prescindere dal maggiore approfondimento e articolazione che troveremo nel resto del pezzo. E, in un sistema in cui il tasso di inaccuratezza dei titoli è molto superiore a quello già alto degli articoli, questo significa che ciò che conserviamo in termini di conoscenza della realtà e degli eventi accaduti è una grandissima quota di informazioni false.

La conseguenza di questo squilibrio di percezione è che aumentano i problemi quando un titolo è anche minimamente ingannevole. «L’inquinamento dell’aria è oggi la maggiore causa del cancro ai polmoni» diceva un titolo sul quotidiano britannico «Daily Express» l’anno scorso. L’articolo però non diceva questo, o piuttosto non proprio. Spiegava invece che l’inquinamento era la maggiore causa «ambientale»: ma altri fattori, come il fumo, sono tuttora i maggiori responsabili. È facile decifrare la scelta di titolare in quel modo: le distinzioni non c’entrano, in poco spazio, e una volta attratti a sufficienza i lettori troveranno comunque nell’articolo le sfumature esatte.
Ma quello che si è scoperto è che leggere l’articolo può non essere sufficiente a correggere l’impressione errata ricevuta dal titolo.

In sostanza dopo aver sfogliato i giornali – che leggiamo gli articoli o meno – ciò che ci resterà in termini di informazioni assunte saranno soprattutto quelle descritte dai titoli. Che sono usati sempre più per ottenere l’attenzione di lettori disattenti e in allontanamento, a scapito della verità: «Non è sempre facile riuscire a essere sia interessanti sia accurati, ma come mostra lo studio di Ecker, è meglio che essere attraenti e bugiardi», dice il «New Yorker».

[…]

Come abbiamo visto, «Repubblica» non titolò quella falsa notizia «Il cavaliere indagato in Irlanda» (virgolette mie), ma «“Il cavaliere indagato in Irlanda”» (virgolette sue, di «Repubblica»): le virgolette, ovvero, erano nel titolo e avevano una funzione precisa, diventata di uso straordinariamente comune nelle titolazioni. Dico straordinariamente perché a che mi risulti è una cosa tutta italiana, e che dipende dall’inclinazione tutta italiana a costruire dei titoli sensazionalistici su notizie infondate, incerte, o non notizie: perché le virgolette intorno al titolo permettono di dare questo tipo di notizie attribuendole a qualcun altro, e a prescindere da qualunque credibilità della fonte.

Il progressivo alzare l’asticella di questa consuetudine ha concorso alla costruzione di un criterio di scelta nuovo nella selezione e pubblicazione delle notizie: che in molti casi non è più quello di ciò che il giornale o il giornalista ritengono oggettivamente una notizia, ma quello di ciò che «suoni una notizia» a prescindere dalla sua fonte o fondatezza, meglio se allarmante o esagerata. Come nel caso del titolo di «Libero»: «Isis: “Una pioggia di missili sulla Sicilia, apriremo il fuoco dalla Tunisia”», riferito a un poco credibile e poco attribuito documento circolato online, che il quotidiano maltese «Times of Malta» descriveva così:

È vero che presto Malta sarà colpita da una pioggia di missili lanciati dall’Isis? Non sembra realistico, e in realtà l’Isis non ha mai promesso – nel famigerato e mal scritto documento intitolato «The Islamic State 2015» – un simile scellerato diluvio nel prossimo futuro e forse mai. Ma questo è quello di cui molti si sono convinti dopo aver letto i titoli degli articoli su alcuni giornali maltesi che citavano dei siti di news italiani.
La maggior parte delle persone non analizza in dettaglio gli articoli di giornale. Molti sono genericamente attratti dal titolo e poi scorrono l’articolo, e arrivano a una conclusione che riflette più il titolo e altre valutazioni che non quello che è davvero scritto. Alcuni dei fattori che orientano questo processo sono il contesto complessivo che i media hanno offerto al lettore in quel periodo e il clima che circonda la pubblicazione di quell’articolo.

Un altro quotidiano maltese, il «Malta Independent» – l’isola era indicata come possibile obiettivo della «pioggia di missili» – pubblicò un articolo di simile tenore che metteva in discussione l’autorevolezza del documento e spiegava come la minaccia dell’attacco verso l’Italia fosse esposta in modo molto vago e non imminente, oltre a essere concretamente impossibile nei termini descritti. Ma nessuna di queste analisi e comprensioni della realtà era stata fatta da «Libero», il cui articolo iniziava invece così: «Su “Libero” lo diciamo da tempo: i tagliagole sono alle porte». E usava appunto le virgolette per titolare «“Una pioggia di missili sulla Sicilia”».
Così come faceva «il Giornale» nel suo titolo di due giorni dopo «“Arriva l’Isis”. E l’Italia aspetta l’Onu». A prenderlo sul serio, stava arrivando l’Isis: a decodificare il linguaggio subdolo si capiva che era secondo il primo ministro libico che «la minaccia si estenderà ai Paesi europei e in particolare all’Italia» se non fossero intervenuti con aiuti militari in Libia.

Il meccanismo si liberò persino delle stesse virgolette quando il presidente della regione Calabria disse che se la sua regione fosse stata scelta (dopo fragili ipotesi giornalistiche in questo senso) per ospitare delle armi chimiche rimosse dalla Siria «si rischia di portare alla guerra civile un territorio» (e intendeva la Calabria, non la Siria). L’espressione sbilenca divenne un titolo senza virgolette, ma attribuito, per l’Ansa («Scopelliti, rischio guerra civile») e poi un titolo senza virgolette e senza fonte per «Repubblica», cioè un annuncio di guerra civile come si annunciano temporali per domani o la finale dei mondiali domenica prossima: «Le armi chimiche siriane a Gioia Tauro. Calabria in rivolta: sarà guerra civile». Poco mossi gli altri mari.
Questo meccanismo di raccontare una cosa detta da qualcuno come se fosse un fatto – l’indagine contro Berlusconi, l’Isis in Italia, la guerra civile in Calabria – e introdurre nella testa del lettore comunque un pezzetto di quell’informazione, che si radicherà a prescindere da qualunque virgoletta, smentita successiva, o dubbio, è uno dei più frequenti casi di abuso di virgolette nella titolazione dei quotidiani italiani. Ma ce ne sono altri.

Uno è banalmente quello di attribuire alle fonti dei virgolettati cose che non hanno detto: se avete la pazienza di controllare anche il contenuto degli articoli vi accorgete che le citazioni nei titoli non sono quasi mai state dette in quel modo, anche se la convenzione a cui siamo abituati è che i virgolettati siano fedeli trascrizioni di cose realmente dette o scritte. E i titolisti hanno due motivi per violare questa convenzione e ingannare i lettori: il primo è che spesso le formulazioni reali non sono una notizia attraente o allarmante come la versione inventata dal titolista. Prendete questo caso in cui, il 6 marzo 2015, «La Stampa» doveva titolare un articolo che spiegava la seguente presa di posizione ufficiale delle Nazioni Unite sulla situazione in Libia: «Determinando che la situazione in Libia continua a costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, e agendo in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio decide di estendere fino al 31 marzo 2015 il mandato di Unsmil».
Titolo scelto dalla «Stampa» per riportare questo testo: «L’Onu dà un mese alla Libia. “Accordo o azione militare”». Citazione virgolettata inesistente nel testo riportato, nemmeno in parafrasi.

Il secondo motivo di travisamento delle citazioni originali nei titoli è ancora più terreno, ed è che a orientare gran parte delle scelte di titolazione è banalmente una questione di spazio, che costringe a travisare forma e senso di frasi più lunghe e articolate.
Mentre infatti prospera da tempo un intenso dibattito sull’evoluzione della lingua – sulla sua involuzione, secondo molti – in conseguenza del suo uso in formati che costringono a una maggiore brevità (gli sms, prima, Twitter poi, e in generale la comunicazione sbrigativa online a cui ci stiamo abituando), in realtà il tema non è peculiare di Twitter né di internet né della tecnologia moderna. La ridotta dimensione dello spazio, infatti, definisce da tempo e sempre di più la comunicazione dei titoli dei giornali: ovvero quella che è la fonte principale – ancora – dell’informazione che circola sulle questioni più importanti.

E nella scelta del linguaggio (ma anche del contenuto), il fattore che più determina il modo in cui in Italia si fanno i titoli – ovvero spesso l’unica cosa che leggiamo e assorbiamo di una notizia – ha a che fare con le primordiali leggi sulla Materia e con lo spazio fisico, niente di digitale: spazio. È la dimensione dello spazio allocato rigidamente al titolo – su carta o su schermo – a costringere il linguaggio usato dal titolista e le informazioni che darà. Se sono così frequenti e abusati i termini come «choc», «killer», «il sì», «il no», «l’ira di», «fumata nera per», «è giallo», «caos», «crisi», «è bufera», «no a», «via libera», «aut aut» (ma anche «Silvio»), non è solo per pigrizia e scarsa varietà di lessico da parte di chi fa i titoli: è anche perché le locuzioni corrispondenti più estese e accurate sono troppo lunghe.

In un dibattito tra giornalisti a cui partecipai nel 2014 negli stessi giorni in cui era in ballo la scelta dei nuovi membri laici del Consiglio superiore della magistratura, Mattia Feltri della «Stampa» citò appunto lo sfinente esempio del titolo: «Fumata nera per il Csm». In un mondo giornalistico intenzionato a dare ai lettori le notizie con chiarezza, il titolo corretto sarebbe stato: «Nel voto del Parlamento per i nuovi membri del Csm, nessun candidato ha ottenuto il quorum». Ma è troppo lungo, e il titolista immagina che i lettori non arrivino oltre «membri del». Allora potrebbe sintetizzare in: «Il Parlamento non ha eletto i nuovi membri del Csm» e nel sommario – che c’è apposta – estendere la spiegazione. Molti giornali stranieri infatti fanno così: usano i titoli per dare le notizie, e non per costruire delle vie di mezzo tra slogan, haiku e titoli di film d’azione («Scontro finale», «A un passo da» e simili). Fanno titoli lunghi, su due o tre righe.

Un’ulteriore ragione di uso creativo delle virgolette nei titoli è mostrata da questo titolo che apparve identico sui siti del «Corriere della Sera» e di RaiNews il 18 gennaio 2014, dopo che un fulmine aveva colpito la statua del Redentore a Rio de Janeiro scalfendone la mano. «Fulmine sul Cristo Redentore, la statua “perde” un dito».
«Pollice destro mozzato» aggiungeva il sommario del Corriere.it. Ma bastava leggere il testo dello stesso articolo per apprendere che «Il danno è stato definito “superficiale” da padre Omar Raposo, rettore del santuario». E le immagini girate successivamente mostrano chiaramente la dimensione della scalfittura sul pollice della statua, corrispondente a quello che su una vera mano definiremmo l’estremità di un’unghia spezzata.

Quindi non solo era una notevole forzatura definire «mozzato» un pollice a cui si era staccata una parte equivalente a circa un venticinquesimo della sua lunghezza, ma meno che mai si poteva dire che la statua avesse «perso» un dito. E lo comprese bene lo stesso titolista del Corriere.it, che aggiunse quelle virgolette in un loro uso ulteriormente ardito: quello di legittimare una bugia, mettendola appunto tra virgolette: «“Perde” un dito». Se ne possono immaginare sviluppi diversi, che non escluderei: «Incidente sull’autostrada, “morte” quindici persone» (c’era solo un ferito lieve), «Le “dimissioni” del presidente della Repubblica» (è andato due giorni in vacanza), «Un terremoto “abbatte” la Torre di Pisa» (si è crepato un colonnino), eccetera.

(testi tratti da Notizie che non lo erano, 2015)

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