"Accà ce brucia ‘a capa"

Luca Sofri

GQ, novembre 2004

La volta che mi sono divertito di più allo stadio la partita fu noiosissima. Era quattro anni fa, Napoli-Genoa, ultima giornata del campionato di serie B con il Napoli già promosso in serie A, per ricominciare un cammino lieto dopo aver toccato con la retrocessione il fondo della catastrofica discesa seguita ai mirabolanti anni di Diego Armando Maradona. Vinse il Genoa tre a uno, e la partita fu appunto mediocrissima, ma non gliene fregava niente a nessuno. Il San Paolo era una pompa vivente di eccitazione e passione e da alcune ore prima del fischio di inizio fu la stessa emozione di quanto il Papa arrivò a Tor Vergata in mezzo a un milione di ragazzi: non so immaginare cosa possa essere stato l’anno del primo scudetto, o Woodstock, oppure la caduta del Muro. Io ho vissuto solo questi spiccioli di eventi qui.
Erano ancora i tempi di Bassolino sindaco, e ancora circolava un po’ di quell’ottimismo e speranza che quell’amministrazione ereditò dalla città, nutrì per un po’ e poi dissipò pigramente secondo alcuni o inevitabilmente secondo altri. Nella seconda metà degli anni Novanta la città aveva creato una nuova vivacità culturale e sociale che “l’amministrazione comunale non solo non stimolò, ma distrusse”, spiega Goffredo Fofi oggi, mentre presenta un libro alla Libreria Feltrrinelli di Piazza Martiri. Fofi, critico cinematografico e animatore culturale di molte cose successe in Italia nella seconda metà del secolo scorso, a Napoli è ancora molto ascoltato: la sala è piena per lui e per Mario Martone, altro orgoglio culturale della città, autore del libro di cui si parla, che raccoglie i suoi pensieri e le sue considerazioni di regista cinematografico e teatrale.
Le librerie di Napoli sono sempre piuttosto affollate: l’impressione è che qui esista meno che altrove la divisione tra i cultori del libro come oggetto colto e gli acquirenti di libri di Zelig o di guide turistiche. Da Treves una signora leggeva al telefonino a un suo misterioso interlocutore paragrafi interi di una biografia di Mussolini presa su un banco vicno alla cassa, per sapere se comprarlo o no. Poi gli ha chiesto se prendere anche un libro di D’Alema e ha concluso “qui c’è un dizionario di politica, dovresti leggerlo”, senza nessuna ironia. Adesso sono le undici di mattina e ci saranno almeno cinquanta persone in età occupazionale che girottolano tra gli scaffali di Feltrinelli.
Se uno dovesse calcolare il tasso di disoccupazione a Napoli dandosi un’occhiata intorno, la previsione sarebbe terrificante. Alle cinque del pomeriggio di un martedì di settembre in via Toledo (“passiammo pe' Tuledo, nuje annanze e mammeta arreto...”) si cammina a fatica. Sembra quasi di essere a Natale, ma poi leggi sul Mattino che a Natale il Comune ha previsto addirittura di stabilire i sensi unici di marcia per i pedoni in alcune strade intorno a San Gregorio Armeno, e “multe per chi cammina in senso vietato”. Capannelli di uomini intorno a un lampione, o a un motorino, intenti in conversazioni misteriose, li vedi in tutta la città. “Ma non parlano più solo di calcio, o ne parlano meno di una volta”, mi spiega il mio amico Mimmo.
Il Napoli ha appena cominciato il campionato in serie C1, ora che voi leggete questo articolo. Ora che io lo scrivo, è già indietro di due partite per la deroga ottenuta in considerazione della rocambolesca vicenda che l’ha portato – dopo il fallimento – all’iscrizione in C1. Le altre squadre hanno già giocato e il Napoli sta ancora mettendo insieme i giocatori: oggi ne sono arrivati un altro paio, assieme alle divise per allenarsi. I palloni mancano ancora. Giocheranno in squadra assieme che si sono conosciuti due settimane prima. Eppure, anche se se ne parla meno (“ormai accà ce brucia ‘a capa, e pensamm’o calcio?”, mi domanda un tassista), la squadra di calcio sembra l’unica cosa a mettere un po’ di buonumore e speranza nei cuori dei napoletani. Paradossalmente, la squadra un C1 e ancora in via di costruzione viene vissuta come una linea di partenza per una nuova storia (nemmeno una resurrezione, proprio altro: “andava fatto dopo Diego: chiudere, e cominciare n’ata cosa”), complice il fatto che per la prima volta in molti anni il Napoli ha un presidente di cui non si teme di leggere l’arresto sui giornali del giorno dopo. Aurelio De Laurentiis, produttore cinematografico di film sbancabotteghino natalizi con Christian De Sica e Massimo Boldi è arrivato a spazzare via ipotesi deprimenti e tumulti di strada che si erano succeduti durante l’estate. Per qualcuno è mandato da Berlusconi, per qualcuno no, ma eventualmente tanto meglio: è uno che parla poco, fa pochi proclami e non si appella alla retorica cittadina. E l’aria che tira intorno alla squadra sembrerebbe dimostrare che a Napoli se fai le cose seriamente e con umiltà sono tutti contenti e fiduciosi. Ma questo contraddice il luogo comune della città tutta cuore, passione e drammi, e a Napoli i luoghi comuni di solito sono piuttosto fondati.
Mimmo, che ha trent’anni e lavora con un’associazione di volontariato, dice che se ne vuole andare: “sono rimasto finora sopportando tutti i difetti di questa città perché mi dicevo che andarsene è da vigliacchi. Ora vado a stare in Toscana, anche se è da vigliacchi, e a cercare lavoro là”. Siamo in un piacevole bar di piazza Bellini, dove dei simpatici ragazzi ti servono dopo mezz’ora che sei arrivato: “il gestore l’altra sera è uscito per difendere una ragazza da dei tizi che le davano fastidio, e si è preso una bottigliata in testa”. Un cameriere meno giovane sgrana gli occhi come se lo prendessi in giro, quando gli chiedo come vanno le cose. “Come vuole che vadano, dotto’? Tanto qua chi nasce operaio muore operaio”. La prendo come una dimostrazione di solidarietà proletaria e non gli chiedo ragione del fatto che lui faccia il cameriere. Andando via salgo su un autobus che si incastra nel traffico. Poco lontano, un gruppo di vigili intorno alle motociclette pare disinteressarsi del problema: “’A vita vera è allòro”, fa il conducente, non si capisce se seccato o ammirato. In un bar, il Tg3 della Campania dà come notizia di apertura la morte di un uomo nell’esplosione accidentale dei fuochi d’artificio che produceva illegalmente a casa sua. E intanto, grava sulla città l’immondizia, metafora fin troppo facile e disgustosa: ma grava concretamente, i cassonetti sembrano sempre sul punto di esplodere, le strade del centro vanno ripulite continuamente dai residui dello sciamare umano, sia nel corretto senso di marcia che contromano, e poi c’è questo promemoria annidato in un punto più o meno remoto nel cervello dei napoletani. L’immondizia.
Quest’estate è stato inaugurato un bus turistico, che fa il giro della città: è un bus rosso, a due piani, scoperto sopra, molto britannico: su un fianco ci sta scritto “City Sightseeings”. Gli hanno già dovuto cambiare percorso già due volte perché i ragazzini si appostavano sopra la strada e lanciavano gavettoni ai passeggeri del piano scoperto. Peggio è andata a quei due turisti che dopo aver intrapreso l’affascinate e lugubre tour della “Napoli sotterranea”, furono dimenticati dentro all’ora di chiusura. L’ingresso dei cunicoli è un paio di vicoli più in là del bar Nilo a Spaccanapoli, quello che espone all’esterno in una teca il “vero capello di Maradona”.
A Napoli è tutto fatto così a forma di Napoli, che ti chiedi se non sia colpa tua, se non siamo noialtri non napoletani che in fondo gli chiediamo proprio questo, e loro per gentilezza si adattano, spazzatura compresa. Ma adesso c’è De Laurentiis, e la nuova squadra, e vedrete.