I cartoni delle uova

La grande epica delle radio libere, abbondantemente celebrata e costruita da film, libri, musica e memorie varie, avrebbe dovuto individuare come suo simbolo concreto (che se no era tutta una cosa di “etere”, musica, suoni, polvere, emozioni e telefonate in onda) un oggetto: il cartone delle uova. Ovvero quei pannelli fatti a forma di contenitori delle uova e storicamente usati in ogni ambiente dove si fa musica perché hanno un buon potenziale di assorbimento del rumore a basso costo rispetto a materiali più efficaci e “tecnici”. E usati moltissimo nelle radio libere, soprattutto in quelle più piccole e a corto di risorse, come quella che frequentai per un periodo quando ero al liceo, che stava davvero in un garage sulla strada, diviso in due spazi insonorizzati con i cartoni delle uova e chiuso da una saracinesca avvolgibile.
Ero il più piccolo, mi facevano mettere i dischi ogni tanto – io a casa ne avevo pochissimi, costavano – a patto che non parlassi nel microfono perché avevo la voce di Paperino. E che non mi fissassi troppo sulle stesse canzoni, come quando avrei messo “You” di George Harrison una volta ogni mezz’ora, per la disperazione dei nostri trentasette ascoltatori e la mia sovreccitazione – pezzo tiratissimo, fatto praticamente solo di pronomi – in quello spazietto di cartoni delle uova.
Per quello mi è tornato in mente, perché vedo ora la raccolta di George Harrison uscita insieme al film di Martin Scorsese su di lui, e non vedo “You”, e pazienza. Ho tutti i file mp3, ora, e niente cartoni delle uova.

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