Ho solo dovuto aspettare
un po'
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Sono le tre di notte della vigilia di capodanno
e una coppia di mezza età si è da poco addormentata
nella grande casa dell'Oxfordshire dove vive da vent'anni. Sir
George ha cinquantasei anni e sua moglie Olivia ne ha cinquantuno.
L'indomani ci sarà da fare, i preparativi per la festa
di fine millennio con un po' di amici. Niente di straordinario,
la compagnia discreta e limitata che frequentano da tempo. Ma
alle tre di notte entrambi vengono svegliati si soprassalto da
un suono di vetri rotti. Sir George si alza e scende a vedere,
ma viene aggredito da un uomo sulla trentina, molto agitato,
che lo colpisce con un coltello. Quando Olivia arriva ai piedi
della scale vede suo marito riverso a terra nel sangue e lo sconosciuto
venirle incontro con la lama brillante nella notte. Lei prende
in pugno una lampada da tavolo e si difende colpendolo alla testa.
L'uomo cade a terra tramortito. Arriva la servitù, arriva
il giovane figlio Dhani, viene chiamata la polizia, l'uomo è
arrestato, un'ambulanza porta sir George all'ospedale col petto
squarciato.
Così andò
il capodanno del Duemila
per George Harrison e per la sua famiglia. Così andò
tutta la sua vita, forse, catturata negli effetti collaterali
di essere stato uno dei Beatles, e nel tentativo di sfuggirne.
Dagli effetti, non dai Beatles, che furono sempre cosa sua. È
buffo pensare che le mie canzoni da solista avrebbero potuto
essere delle canzoni dei Beatles, se solo non ci fossimo lasciati,
diceva. Per me si trattò solo di suonarle con altri musicisti.
Nulla cambiò, per lui. Non seguì-altre-strade,
come impone il cliché in questi casi, né cercò
maggior spazio per se stesso, come fecero i suoi compagni. Continuò
a scrivere canzoni, come faceva già prima, con la sola
differenza di non dover più metterle in lista d'attesa
dietro quelle di quei mostri della composizione che erano gli
altri due. Con i Beatles aveva scritto Something, che molti ritengono
la più bella canzone d'amore della loro storia, altro
che Yesterday, dàn, dàn. Aveva scritto While my
guitar gently weeps, e Here comes the sun, e un'altra ventina.
Ma riuscire a farsi largo era un'impresa. A permettere alle canzoni
di farsi largo, che sir George non ci aveva mai tenuto a sgomitare
per se stesso. A volte era frustrante, raccontò poi, dover
far passare milioni di Maxwell's Silver Hammer prima di usarne
una delle mie; a pensarci adesso, ce n'erano un paio, delle mie,
che erano migliori di quelle che John e Paul scrivevano con la
mano sinistra. Ma le cose andavano così, sapete, e non
mi dispiace particolarmente: ho solo dovuto aspettare un po'.
Da solo, in trent'anni
ormai la durata dei Beatles è solo una piccola parte delle
vite dei suoi militanti, eppure tocca sempre parlarne, come Lotta
Continua George Harrison ha inciso una quindicina di dischi.
All things must pass, che uscì nel 1970 è probabilmente
il più bel disco di un ex Beatle (Double Fantasy di John
Lennon perde per via delle canzoni di Yoko Ono). Allora sir George
fu il primo dei quattro ad arrivare al primo posto delle classifiche
da solo, con una canzone meravigliosa e canticchiabile per i
prossimi quattro secoli, My sweet lord. Ma il talento dell'uomo
è sempre stato soggetto alle disavventure del destino,
e qualcuno al tempo orecchiò una palese similitudine con
una canzonetta di dodici anni prima, He's so fine dei Chiffons.
Invece di dargli un premio per averla resa un capolavoro, un
giudice lo condannò a pagare mezzo milione di danni. Per
lui si trattò di un tradimento, che i diritti erano stati
nel frattempo acquistati da un suo scaltro ex agente, che dopo
averlo difeso pubblicamente passò a riscuotere.
Comunque, My Sweet Lord arrivò al numero uno che ancora
gli altri Beatles stavano riposandosi al sole o organizzando
conferenze stampa a letto. Era una canzone che aveva dentro tutta
l'allegria musicale degli hits di sir George senza transigere
sul valore appassionato delle parole. Come è felice l'innamorato
di Something, come è deliziato e spensierato l'annunciatore
di Here comes the sun, come è ottimista colui che sa che
All things must pass, come è divertito colui che ricorda
All those years ago. E come è terrenamente invaghito della
sua gioia e della sua fede quello che canta "mio dolce signore,
muoio dalla voglia di vederti e di conoscerti, di venire con
te, ma ci vuole così tanto, signore, alleluia, hare krishna,
hare rama".
La passione per l'India a sir George venne nel 1967. Si era comprato
un sitar piuttosto scalcagnato in un negozio indiano di Londra,
e aveva imparato a suonarlo. Convinse gli altri a usarlo in Norwegian
Wood, e fu molto contento del risultato. Poi una sera conobbe
Ravi Shankar a casa di Peter Sellers (andava così, allora,
mica ci si incontrava da Chiambretti). Shankar è il più
grande suonatore di sitar di tutti tempi, ma non è che
questo gli abbia mai dato una grande notorietà. Con George
divennero molto amici e lo restarono sempre, e qualche tempo
dopo Patti Boyd, allora signora Harrison, lo introdusse alle
cose di meditazione e religioni orientali di cui si era appassionata.
Si erano sposati nel 1966, conoscendosi sul set di A hard day's
night, in cui lei aveva una parte discreta: recitava la battuta
"Prigionieri?". Poi lei ed Eric Clapton si innamorarono
e con George finì. Lui andò anche al loro successivo
matrimonio e Clapton restò sempre uno dei suoi migliori
amici. È quello che suona la chitarra in While my guitar
gently weeps, per capirsi. Sir George lo invidiava, invidiava
il suo virtuosismo e la sua libertà. Mentre noi diventavamo
un fenomeno, raccontava, mentre diventavamo gli Spice Boys del
tempo e non riuscivamo a fare un concerto senza che tutti strillassero
per tutto il tempo, Eric era sempre in tour e diventava più
bravo e suonava con tutti i musicisti migliori.
Comunque, Patti e George andavano agli incontri, seguivano
i corsi, leggevano dell'India, e coinvolsero anche gli altri.
Nel 1968, agosto, se ne andarono tutti laggiù dal maestro
Maharishi Mahesh. Fu un evento spettacolare, i Beatles in India,
e questo si sa. Poi il maestro risultò essere un cialtrone,
Paul e Ringo si stufarono presto, e John fu illuminato dalle
sorti del mondo e dalla sua propria grandezza. E i Beatles finirono,
per via che George aveva voluto cercare qualcosa di suo, con
discrezione. O sarebbero finiti comunque. Lui rimase il solo
a mantenere un attaccamento fedele e sincero nei confronti della
spiritualità orientale, per il resto della vita, anche
nell'Oxfordshire con la messicana Olivia, che sposò nel
1978, un mese dopo la nascita del loro unico figlio, Dhani. Con
Shankar organizzò uno degli eventi musicali maggiori degli
anni Settanta, il concerto per il Bangla Desh al Madison Square
Garden, a cui parteciparono Clapton e Bob Dylan e che è
l'unico motivo per cui molti di quella generazione sanno cosa
sia il Bangla Desh. Penso che John avesse molto a che fare con
questo atteggiamento, spiegava sir George di recente: se era
convinto di qualcosa, lo faceva. E io, sapete, ho imparato molto
standogli vicino.
Sir George si fece una casa
discografica e la chiamò Dark Horse. Come me, diceva,
quello su cui nessuno punterebbe un soldo, l'ultimo che ci si
aspetta possa diventare un vincente. Rimase nella seconda linea
dove già stava con i Beatles, non fece niente per reinventarsi.
Scrisse canzoni, come prima, continuò a guadagnare montagne
di soldi mai come gli altri due si appassionò
di giardinaggio, continuò a seguire la formula uno e scrisse
Faster, sugli eroi dell'automobile. Produsse dei film dei Monty
Python e qualche altro che andò così e così.
Decise di smettere con il cinema dopo il fallimento di Shanghai
Surprise, con Madonna e Sean Penn, e si legò al dito la
mediocrità del secondo, a cui pochi mesi fa non ha concesso
di usare le canzoni dei Beatles per il suo nuovo film. Penn ha
dovuto ripiegare su delle cover. Incise delle canzoni con un
gruppo di arzilli vecchietti lui, Dylan, Tom Petty, Roy
Orbison, Jeff Lynne con il nome di Traveling Wilburys.
Niente di che, ma si divertirono. Non cercò nuovi amici,
non volle tenersi giovane a forza di stupidaggini, concesse rare
interviste in cui disse che gli Oasis erano monnezza egocentrica,
gli U2 ambiziosi vanitosi e le Spice Girls la prima band che
puoi seguire con lo stereo spento. Niente a che vedere con il
talento, trent'anni e nessuno si ricorderà di loro.
Negli ultimi anni, a parte essere accoltellato da un
giovane pazzoide, sir George ha avuto il cancro. Ne ha avuti
a bizzeffe e ha cercato di curarsi. La stampa gli è stata
sulla testata del letto come un avvoltoio. Alcuni mesi fa i giornali
inglesi falsificarono notizie e dichiarazioni sulla sua salute
per pubblicare allarmati annunci di una sua morte a giorni, ripresi
in tutto il mondo. Ci furono delle dimissioni, ma tutto è
ricominciato nell'ultimo mese. Ogni giorno un lugubre e vago
avvertimento, sempre misterioso e indefinito. I coccodrilli pronti
nei cassetti. I titoli con i giochi di parole e le citazioni
dalle canzoni. Lasciatemi in pace. Per favore non vi preoccupate,
erano le ultime parole che aveva voluto diffondere, quest'estate.
Oggi è il primo dicembre. A dicembre sir George e Olivia
vennero aggrediti in casa loro due anni fa. A dicembre John Lennon
fu ucciso, ventuno anni fa. Oggi sir George è morto. I
read the news today, oh boy. Metà dei Beatles sono morti,
e anche di più: i Beatles erano tre, e poi c'era uno che
ebbe la botta di fortuna della sua vita. Sono rimasti quelli
più normali: un grandissimo artista la cui maggiore alzata
di testa nella vita è stata sposare una giovane e bella
portatrice di handicap, e uno che passava di lì con delle
bacchette in mano quando si incontrò la coppia perfetta
della storia della musica. Paul McCartney ha appena pubblicato
un ennesimo disco, onesto e terribilmente migliore del nuovo
di Mick Jagger, per chiudere quella partita lì. Dentro
c'è un pezzo, Tiny Bubble, che gli potrebbe costare una
condanna miliardaria se l'autore di un'altra canzone, Piggies,
lo denunciasse per plagio. Sono uguali. Ma George Harrison, che
scrisse Piggies per il White Album dei Beatles, non l'avrebbe
denunciato mai.
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