Late-comers, il bello della discografia
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Negli affari della musica, la promozione e il marketing hanno
un'influenza sul successo di un disco pari a quella di qualsiasi
altro prodotto industriale, sia un detersivo, un'automobile o
uno yogurt. Anzi, è il caso di dire che nessuno di questi
potrebbe funzionare senza rispettare un livello minimo di qualità:
né uno yogurt rancido, né un'auto che cappotta
in curva, né un detersivo che non lava. Al contrario,
le canzoni non hanno degli standard fissati di senso e praticità,
né quindi un livello di qualità stabilito a priori
(ed è giusto così), di modo che una campagna ben
condotta può far vendere praticamente qualsiasi cosa (si
potrebbero fare degli esempi, ma sarebbe snobismo sprecato).
Lo stesso, a pensarci, vale anche per i libri, senza stare a
far tanto gli schizzinosi.
La musica che ha successo e che conosciamo è perciò
debitrice, nel novanta per cento dei casi, di premeditate e abituali
campagne di promozione. I dischi che riescono a giungere alle
nostre orecchie senza contrattati passaggi radiofonici, marchette
giornalistiche, comparsate televisive, possono ringraziare il
cielo ed escludere comunque di vedere una classifica di vendita
anche da lontano.
A meno che. Un'eccezione sfugge a questa logica ogni anno, da
tre anni. E quindi fa notizia. Gli inglesi li chiamano late-comers,
o late-bloomers: i dischi che escono nella gran corrente dei
trascurati, non pubblicizzati, a basso budget, nomi oscuri o
su cui le case non investono, ma che in qualche modo si vendono
bene, godono di un gran passaparola (quelli che approfittano
degli spot pubblicitari sono un caso a parte), hanno qualcosa
in più che li fa apprezzare per quello che contengono.
Dopo un po' fanno il botto e diventano mainstream, ma per meriti
acquisiti sul campo, con tanto di promozione a scoppio ritardato,
improvvisa e unanime attenzione dei media e gara a io-lo-conoscevo-da-prima.
Ry Cooder, chitarrista e bluesman americano di fama, che non
aveva mai avvicinato un successo internazionale in vita sua,
concluse un'idea che lo aveva appassionato nell'autunno del 1997.
Pubblicò un cd che radunava alcune leggende della musica
cubana in canzoni e ritmi isolani gradevolissimi. Gli esecutori,
tutti di un'età tra i settanta e i novant'anni, erano
allora noti nel mondo quanto lo poteva essere Fabrizio De André
(niente, per essere chiari, pur essendo grandissimi nel loro
paese). Il disco, Buena Vista Social Club, fu notato dapprima
dai francesi, che al terzomondismo musicale sono sempre più
inclini. L'estate successiva, in Italia non ne aveva ancora parlato
pressoché nessuno, se non in colonnini isolati delle riviste
specializzate. I venditori di dischi raccontavano di venderne
una quantità straordinaria, malgrado non lo si fosse mai
sentito alla radio. La dimensione inattesa delle vendite per
passaparola convinse i distributori a investirci di più,
ormai un anno dopo. E arrivò il successone, il tour mondiale
degli arzilli vecchietti, il film di Wim Wenders, la voga cubano-latina
e tutto quanto.
Negli stessi giorni, intanto, arrivava nei negozi un cd altrettanto
variopinto nella grafica e nella musica, di tale Manu Chao. I
negozianti più accorti lo raccomandavano segnalando che
si trattava del leader del disciolto gruppo franco-spagnolo dei
Mano Negra. E tra la fine del '98 e l'inizio del '99 si trovava
in casa delle persone dai gusti più vari un cd di cui
nessuno di loro sapeva niente ma ne andava matto, con il vezzo
aggiunto di avere una cosa sconosciuta ai più. Quando
alcune radio cominciarono a trasmettere la canzone King of
the Bongo di loro iniziativa, alle soglie dell'estate, la
casa discografica decise di ristampare il cd, infilarci due pezzi
in più e attaccarci un'etichetta che diceva dei Mano Negra.
Il cd uscì dalla fase carbonara, divenne di culto e molto
trendy, poi un vero successo. Malgrado questo, Manu Chao riuscì
a tenersi alla larga dal repertorio del marketing discografico,
si concesse pochissimo, fece concerti a sorpresa, e fece solo
le pochissime apparizioni che gli piacevano. Ora sta concludendo
un disco nuovo.
Ancora, proprio mentre Chao improvvisava uno spettacolo notturno
e memorabile in piazza del Duomo a Milano, sugli scaffali dei
grandi megastore sotto i portici aveva preso un posticino il
nuovo cd di Moby, pubblicato a giungo del 1999. Chi? Appunto:
Moby era un deejay americano che aveva già inciso dei
cd dance un po' techno, un po' ambient, e un po' tutte queste
definizioni idiote necessarie alla sopravvivenza della critica
musicale e incomprensibili alle persone normali. Musica originale,
nel suo genere, ricca di citazioni e suoni accatastati da varie
provienienze, ottima nelle discoteche, ostica per il grande pubblico.
Nel suo nuovo cd, Play, Moby mise molto blues e lo ricostruì
su ritmi elettronici e ballabili, saldando le ripetitività
dei due generi. Ebbe a cuore di non essere molto rumoroso, di
salvaguardare la melodia, di fare per la prima volta della musica
addirittura canticchiabile. Negli Stati Uniti ricevette diversi
premi ed encomi critici. Cominciò a sfondare alla fine
dell'anno. Da noi fu presto di culto in un'estesa nicchia modaiola
e futurista, ma ci volle la colonna sonora di The Beach
e una valanga di spot pubblicitari con le sue canzoni per farlo
diventare il primo boom discografico del nuovo millennio, pochi
mesi fa. Ora è su una copertina diversa ogni settimana,
malgrado l'aria sfigata e la pelata, e Play se lo contendono
le generazioni più insospettate.
Se il ciclo continua, vale la pena di stare attenti a cosa esce
nei negozi in queste settimane. In Inghilterra è entrato
nei primi dieci in classifica White Ladder di David Gray,
ristampato da una nuova etichetta dopo aver portato a casa sette
dischi di platino in Irlanda, il suo paese, dove era uscito addirittura
nel 1998. Ora lo stanno promuovendo anche negli Stati Uniti e
anche lui sta occupando colonne sonore, ma è un gran bel
disco di ballate (un Dylan, o un Cohen, moderno, scrivono le
critiche americane) troppo tradizionale nel genere per poter
accomunare il suo destino a quello dei cubani, di Chao e di Moby.
Sarà un altro, il late-comer del 2001.
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