Stato il 4 di luglio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Re: No Subject

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C'è una sentenza, che si fa? La giudichiamo per la sua corrispondenza al diritto e alle leggi, oppure ci buttiamo col popolo dei fax scandalizzato, con i politici demagoghi che si battono il petto e i lanciatori di monetine, lazzi e minacce nei confronti dei coinvolti? Da che parte stiamo, da quella della giustizia e delle sue norme scritte o da quella della piazza che grida "vergogna!"? (gridare "vergogna!", la tentazione è sempre forte). Questa sentenza è arrivata sei giorni fa, sei giorni prima del giorno dell'Indipendenza, così vicino e così lontano: un tribunale californiano ha dichiarato anticostituzionale l'espressione "sotto Dio" contenuta nel Giuramento di Fedeltà pronunciato ogni giorno nelle scuole degli Stati Uniti. Ci interessa? Ci interessa, ci interessa. Riassunto: laggiù esiste un Primo Emendamento, che difende la libertà di espressione. Esiste una Clausola al Primo Emendamento che impone che lo Stato non sostenga o favorisca alcuna religione. Esistono sentenze della Corte Suprema che hanno via via annullato l'obbligo di partecipare alla pronuncia di quel "sotto Dio", e hanno vietato la preghiera nelle scuole, nelle cerimonie accademiche, negli appuntamenti sportivi, nonché l'affissione nelle aule dei Dieci Comandamenti. Esiste, insomma, una solida giurisprudenza sulla separazione tra Stato e Chiesa. Adesso, chiamati in causa dalla denuncia di un padre (che per ragioni di faziosità dialettica qualcuno definisce un ateo convinto, per distinguerlo evidentemente dagli atei "indecisi", "azzardati", o "non tanto convinti"), tre giudici hanno dovuto decidere se quelle due parole "sotto Dio" ­ introdotte per ragioni politiche di Guerra Fredda nel 1954 ­ corrispondano o meno a quella giurisprudenza. E hanno deciso di no. Ai due giudici estensori (uno nominato da Nixon, uno da Carter: non esattamente due estremisti golpisti) sono piovute addosso le critiche di mezza America e più. Si dividono tra quelle di chi ­ Bush in testa ­ trova scandaloso che la discendenza da Dio dello Stato americano sia messa in discussione e quelle di chi ­ più a sinistra ­ trova la questione risibile: non sono questi i problemi veri della separazione tra Stato e Chiesa e così si dà un'arma gratuita agli stracciatori di vesti clericalisti, dicono.
C'è un problema, però: ed è che nessuno, ma proprio nessuno, ha potuto attaccare la sentenza nel merito legale. Tutti parlano d'altro, ma si dà il caso che la sentenza stia in piedi. Potrà essere pignola e affermare un punto inutile, ma ai giudici è stata chiesta e il punto c'è. Si chiama separazione tra Chiesa e Stato: e se i sarcastici detrattori della decisione strillano che "allora andrebbe anche tolto il motto "In God we trust" dalle monetine", la risposta è sì, a norma di legge andrebbe tolto, ammesso che qualcuno ­ come ha fatto il dottor Newdow di Sacramento per consentire a sua figlia di pronunciare il Giuramento di fedeltà assieme agli altri bambini ­ vi trovi degli effetti discriminanti, e chieda l'applicazione della legge.
Alle obiezioni che vengono dalla destra religiosa e che arrivano fino alla Presidenza, è difficile trovare un senso, visto che fanno leva unicamente su una presunta "tradizione". Che non esiste quanto al Giuramento: fu composto centodieci anni fa e solo da 48 è stato cambiato con le due paroline, quindi la tradizione vorrebbe semmai la loro rimozione. Per non parlare della discendenza divina della Costituzione americana di cui Bush va raccontando: la Costituzione non cita mai una volta il nome di "Dio", e inizia, come si sa, con l'espressione "we, the people", ovvero l'esatto contrario (non ci credo, ho quasi quarant'anni e sto motivando la tesi che i diritti non ci vengano da Dio). I Padri Fondatori - oggi è il quattroluglio - badarono a tenerlo alla larga, con rispetto parlando. È vero che Dio è citato nella Dichiarazione di Indipendenza, 1776, ma là si parla anche di "spietati selvaggi indiani la cui regola di violenza colpisce e distrugge gente di ogni età, sesso e condizione". O vogliamo far imparare ai bambini anche queste parole?
Ma gli argomenti della destra sono evidentemente un modo per battersi il petto di fronte all'attacco miscredente e favorire nuove e peggiori brecce nella Clausola del Primo Emendamento, dipingendo un attacco alla bandiera e alla patria, che torna sempre buono, figuriamoci di questi tempi. Le proteste più equilibrate vengono invece da chi ritiene che quelle due parole configurino sì, in teoria, una violazione della Costituzione, ma, per dirla con un giudice di Corte Suprema, si tratti di "deismo cerimoniale", che ha perso ormai il suo significato letterale, ma viene pronunciato come una specie di mantra: come l'acqua santa di Trapattoni, a occhio e Croce. Tra questi c'è anche il giudice che ha scritto l'opinione di minoranza, in cui dice che non vede rischi di una nuova teocrazia solo per quelle due paroline. Solo che ­ evocare l'eccesso opposto è un argomento dialettico che abbonda sempre su molte bocche ­ nessuno teme la teocrazia: quello che è più preoccupante è un maggiore intervento degli argomenti religiosi nelle decisioni sociali e politiche. In poche parole, una minore separazione tra Chiesa e Stato.
Poi ci sono i candidati in campagna elettorale, dell'uno e dell'altro fronte politico, che ora fanno scudo con il proprio corpo alla minaccia antinazionale annunciando emendamenti alla Costituzione come se fossero bruscolini: "un provvedimento a difesa delle parole "under God" sarebbe la più cretina modifica alla Costituzione dai tempi del proibizionismo", ha scritto qualcuno, dotato di ancora un po' di misura e di una bottiglia di Macallan, direbbe Mordecai Richler. Questi politici ­ oltre a ignorare che gli Stati Uniti sono Miracolosamente sopravvissuti a 178 anni senza le due paroline - scontano, in buona o cattiva fede, un'interpretazione della Clausola del Primo Emendamento che ritiene corretto che a ogni religione e a ognuno con una fede o non, sia data la sua fetta di Stato da orientare secondo ciò in cui crede: "non un muro tra Chiesa e Stato, ma una serie di buchi nel muro in cui ogni Chiesa abbia uguale diritto di prendersi un pezzo di Stato", ha scritto Dahlia Litwick di Slate. Se ognuno ha un pezzo, tutti sono contenti e la Costituzione è rispettata (ignorare le regole attraverso la spartizione del piatto, does it ring a bell to anybody?).
Il fatto è che un sistema di regole e norme democratiche e orientate alla giustizia e al funzionamento di una comunità, come è una Costituzione, non potrà mai compromettersi con un complesso di insegnamenti e credenze legate alla tradizione, immodificabili nel tempo, e discendenti da una visione ultraterrena delle cose priva di logica e concretezza. Acqua e olio: non c'è niente da fare, a meno che una delle due non si mangi pezzi dell'altra. Quindi è impossibile non tenerle separate, drasticamente ed estremamente. Period.
La vicenda delle due paroline si è sommata a un'altra sentenza importante, arrivata il giorno dopo, qui commentata con favore: quella con cui la Corte Suprema ha ritenuto legittima la concessione da parte della città di Cleveland di contributi alle famiglie per l'iscrizione dei ragazzi alle scuole private. Attenzione: non "alle scuole private e religiose", come si è scritto, e proprio lì sta il punto. In discussione, da parte della Corte, non era infatti una questione scolastica, ma ancora un caso da Clausola del Primo Emendamento. Ovvero: se i denari dei contribuenti vengono destinati alle borse delle scuole religiose, si sta violando la Costituzione, ancora dove dice che lo Stato non sostiene o aiuta nessuna religione? La Corte Suprema ha risolto la questione ignorando lo stato di fatto e le conseguenze dell'applicazione della legge, ma limitandosi al rispetto della Costituzione: esattamente quello che avevano fatto i giudici del Nono Circuito, né più né meno (approvare l'una e criticare l'altra, ci vuole una certa acrobazia, un paio di pesi e almeno altrettante misure). Ovvero ha deciso che i contributi pubblici vadano ai genitori che scelgono la scuola privata, che non deve essere per forza religiosa. Ce ne sono di laiche. Che poi il 96,6% dei ragazzi vada iscritto a scuole religiose (soprattutto cattoliche), è un risultato di situazioni di fatto ­ le scuole religiose sono più numerose, quelle laiche sono troppo costiose anche per chi ha i contributi, altre hanno deciso di non partecipare al programma ­ di cui i giudici non hanno voluto tener conto: la legge è legge. La loro sentenza quindi, è una esatta applicazione della separazione tra Chiesa e Stato. Rimane il problema del privilegio di fatto accordato alle scuole cattoliche: in un regime liberista si tratterebbe di una condizione di monopolio dell'educazione intollerabile anche alla più ingenua commissione antitrust. E rimane anche il problema che la quasi totalità dei bambini delle scuole private di Cleveland ­ uno dei posti con le peggiori scuole pubbliche della nazione ­ cresceranno nell'insegnamento di una sola cultura, vicino a compagni con la medesima educazione, senza l'opportunità di avere una buona istruzione che metta nella stessa classe un cattolico, un ebreo, un ateo, un protestante e un piccolo musulmano nero. I quali magari cambieranno idea, a guardarsi intorno, e magari no. Ma questi sono problemi che vengono dopo. Adesso ci sono due paroline da salvare, a furor di fax e modifiche alla Costituzione, e stasera i fuochi d'artificio.