Ho l'impressione che facciamo finta di niente

Luca Sofri
Il Foglio, 11 settembre 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

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Stamattina, mi sono alzato. C’era il sole. Sono andato a fare la doccia. L’acqua era calda il giusto. Ho acceso il telefonino, mi sono vestito e sono sceso a comprare i giornali e a fare colazione. Ho pagato. Ho attraversato la strada e sono andato a prendere la metropolitana. C’era parecchia altra gente, come al solito.
Siamo in guerra? C’è una guerra contro il terrorismo? Come è fatta?
Quando ce l’hanno annunciata, ci hanno detto che sarebbe durata molto, e che sarebbe stata diversa dalle altre. Fu un bel discorso, quello di Bush, quella volta: una delle poche cose apprezzabili dell’uomo, a mia memoria. Disse che sarebbe durata molto, e che sarebbe stata diversa dalle altre. Forse è per questo che ho fatto la doccia, che vendevano i giornali, che il telefono funzionava, che le brioches avevano la crema, e che la metropolitana era affollata. È una guerra diversa dalle altre.
Lo stesso, c’è qualcosa di non detto, di rimosso, di ignorato, in questa contraddizione. Non ci comportiamo, nemmeno gli americani si comportano, come se fossimo in guerra, anche una guerra “diversa” (e cosa sarà poi, una guerra diversa? Le guerre sono già del tutto diverse l’una dall’altra. Se si sente il bisogno di specificare, forse non è una guerra. È un’altra cosa?). L’altroieri ho sentito pezzi dell’ultimo discorso di Bush: diceva che nessuno sforzo, nessuna spesa, nessun uomo sarebbe stato risparmiato per vincere questa guerra. La cosa faceva impressione, ma aveva una sua coerenza: non è lui che sta dicendo una cosa inaudita, siamo noi che non abbiamo voluto ascoltarla. Ce l’aveva già detta. Da un pezzo. Eppure: siamo in guerra? Ci sentiamo diversi?
Oggi si celebreranno commemorazioni, ricordi, consuntivi, numeri speciali, trasmissioni, tutto il repertorio. Si dirà ancora che il mondo è cambiato. Ma per chi è cambiato? Per noi che ne scriviamo è cambiato. Per altri è cambiato tragicamente. Ma il mondo, il mondo delle persone che si svegliano e fanno la doccia, e colazione, eccetera, è cambiato? Per quelli che non hanno la doccia, né la colazione, è cambiato? Non c’è una distanza tra le formule che usiamo per definire l’undici settembre e la nostra disposizione al cambiamento? Siamo disposti ai sacrifici, alla diversa attitudine nei confronti delle cose, al cattivo umore, alla paura, che impone questa guerra, diversa? Ho l’impressione di no: ho l’impressione che facciamo finta di niente e che pretendiamo che tutto attorno a noi faccia finta di niente, e in cambio offriamo il cerimoniale delle commemorazioni, delle frasi fatte, della faccia da fare a scadenze opportune.
Vale solo qui in Italia, o vale anche in America? Non so, non l’ho frequentata abbastanza in questi due anni. Di sicuro è diverso. Ma non so se l’America sia davvero in guerra, o cerchi di rimuovere il pensiero ogni volta che può, ogni volta che non le muore un parente, ogni volta che il presidente non le chiede dei soldi.
Ma se là è diverso, allora è importante capire se la cosa intelligente che va scrivendo Ezio Mauro da allora non sia in realtà resa infondata dai fatti. Mauro se l’è sempre presa con quelli che dicevano di sentirsi vicini all’America in quel momento, con quelli “siamo tutti americani”, con quelli vicini agli amici attaccati. Non siamo vicini, ha scritto, siamo attaccati. Anche noi. Ci riguarda: riguarda l’Occidente, non l’America. Ci riguarda.
Vuol dire che siamo in guerra? Non so. Abbiamo fatto come se lo fossimo, nell’affrontare la politica internazionale e nell’affrontare la doccia e la colazione, o abbiamo fatto finta di niente? E abbiamo avuto torto, o ragione? Non so.
Non so.