Quando muoiono gli americani
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Fa un effetto strano, quando muoiono gli americani.
Gli americani sono invincibili e di invincibile ottimismo e ingenua
sicurezza, sono quelli dei cartoni animati. Quando muoiono gli
americani è come se morissero Pippo, Ciccio Papero e Clarabella.
Una strage americana non somiglia in niente alle stragi di miseria
di derelitte folle indiane in mezzo a una catastrofe naturale,
a una strage di palestinesi o israeliani con il terrore sempre
negli occhi, a sofferenze che si sommano a sofferenze, a una
guerra orrenda tra hutu e turtsi, a ineluttabili punizioni riservate
a popoli sfortunati. Quando muoiono gli americani c'è
qualcosa di diversamente prepotente, una sofferenza di bambini,
una distruzione dei loro giocattoli. La loro retorica diventa
ingenuità, la strafottenza fa tenerezza, quando un bullo
riduce a bambini in lacrime e sangue i guardiani del mondo. La
cosa straordinaria degli americani è che sono convinti
di essere americani: si riuniscono e cantano, issano bandiere.
I membri del congresso in mezzo alla tragedia, d'un tratto, spontaneamente,
intonano in coro "God bless America". My home, sweet
home. Eleganti businessman si allontanano da Downtown completamente
coperti di polvere bianca, con la ventiquattrore in mano e passo
imperturbabile. Uno di loro spiega all'intervistatore della CNN
che era nella torre sud e stava per buttarsi dalla finestra,
"quando è apparso questo signore", ed espone
con gesto improvviso e spettacolare alla telecamera un omino
che pare un addetto alle pulizie, anche lui tutto bianco, un
po' spaurito, "e mi ha detto: aspetta, stanno venendo a
prenderci". Eroe per caso. Un altro avanza verso il cameraman
e alza il braccio in segno di vittoria. Ha la camicia stracciata
e il viso coperto di sangue e polvere: "Still around, guys.
I'm still around", è un atleta alla fine del match
che saluta i suoi fans.
Quando gli americani muoiono, non se lo aspettano. E non ce lo
aspettiamo noi, né la commozione protettiva che ci prende.
Sono nelle nostra vite, gli americani, sono i colonizzatori delle
nostre emozioni. Hanno costruito loro stessi i meccanismi che
orientano tutte le nostre reazioni a quello che gli sta capitando
oggi. Hanno disegnato tutte le immagini che stiamo usando per
descrivere tutto questo. Tra un momento faranno di nuovo la voce
grossa, stanno già per esibire generali e comandanti in
capo coperti di stellette e sbruffonate, quelle che gli americani
si aspettano. Per adesso, toglieteci dal televisore l'esibizionista
intervistato stradale che chiede risposte immediate contro questo
o quel nemico. L'improvvisa umiltà a cui la catastrofe
costringe persino l'America non durerà molto. Ma fa impressione.
A Roma i turisti americani si affollano davanti ai televisori
dei negozi, sotto i maxischermi dei bar. Trattati come simpatici
gonzi fino a poco prima, adesso i romani li guardano con tenerezza
stuzzicare i cappellini da baseball, stringersi le mani, qualcuno
piangere. E ti stropicci gli occhi davanti al manifesto dei diesse
che annuncia semplicemente "Solidarietà al popolo
americano": è la fine del mondo, dopo decenni di
solidarietà a derelitti popoli angariati dall'America
assassina, oggi gli americani sono diventati popolo.
Quando muoiono gli americani è come quando succede un
guaio a quei parenti di cui abbiamo sempre pensato che fossero
un po' stupidi, perché sono così diversi da noi.
Ma sappiamo che sono di famiglia. Ci figuriamo un ghigno da
cattivo che ride di quei piccoli illusi che scappano come formichine,
incredule, e c'è qualcosa dei fumetti anche quando muoiono,
con gli americani. Ammazzati dai cattivi che hanno disegnato
loro.
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