L'America del cinema
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In realtà l'America
di cui tutti parliamo commossi, su cui tutti esibiamo i nostri
provinciali ricordi e ragionamenti, che tutti teniamo a modello,
è New York. Uno su cinquanta di noi si riferisce a Boston,
Chicago o San Francisco, uno su mille a quei nove milioni di
chilometri quadrati che stanno tra una riva e l'altra. E ancora,
la parte preponderante di questo sogno americano che tutti abbiamo
così presente come se fosse casa nostra, l'abbiamo costruito
seduti nella poltrona di un cinema. L'America di cui parliamo
è la New York che abbiamo visto al cinema o un complesso
quadro di immagini di varia provenienza in cui quelle su pellicola
fanno la parte del leone (del leone MGM, ovviamente). E il bello
è che questo quadro così mediato in realtà
è fedele. Non è completo, ma è fedele. L'America
è quella del cinema. Certi film mostrano di più,
certi di meno, l'importante è non confondersi, e pensare
che l'America sia tutta fatta da tipi alla Schwarzenegger (che
è austriaco, roba della vecchia e colta Europa) o da dominata
da critici patrioti liberal fatti a forma di Robert Redford e
Barbra Streisand. Parentesi, qualcuno analogamente va sostenendo
che tutta la nazione è acriticamente compatta dietro il
suo presidente qualunque scelta egli faccia per salvare il paese,
e che quando attaccano e discutono le decisioni di Rumsfield,
alcune centinaia di commentatori del New York Times, del Washington
Post, di Slate, di Salon, e dei media di mezzo paese siano una
retroguardia estremista che potrebbe trasferirsi a Ravello. Roba
un po' forte, chiusa parentesi.
L'America che abbiamo imparato
alcuni di noi tra i trenta e i quaranta, è quella del
cinema degli anni Settanta. Ci hanno risparmiato da piccoli le
corazzate Potemkin e le partiture incomplete per pianola meccanica
che la vulgata fantozziana pretende aver ipnotizzato la sinistra
di quei tempi e ci hanno fatto vedere tutti i Sidneypollack Alpacino
Dustinhoffman Paulnewman Warrenbeatty Robertredford JackNicholson
in circolazione. Tutto quello in cui eroi solitari americani
combattessero soprusi istituzionali americani: carceri, tribunali,
manicomi, presidenti, società sportive o semplici ricchi
arroganti. Non l'abbiamo mai considerata un'altra America, buona
e frondista, contro quella vera e perfida. Era l'America buona
e vera che combatteva i suoi riformabili malanni. Ed erano dei
film formidabili. Adesso se ne fanno meno, ma questo non riesce
a farmi trovare la voglia di andare a vedere i film iraniani.
Non ce la faccio. Ho provato con un italoaustraliano, ma non
era all'altezza del peggior film con Bruce Willis. Anche perché
persino il peggiore film con Bruce Willis è erede della
più grande storia cinematografica del mondo. E Bandits,
una commediola gradevole e nulla più con Bruce Willis,
uscita questo weekend, ha due pregi. Uno, che non è ambientato
a New York né a Los Angeles. Due, che è ricalcato
su un paio dei film più belli degli anni Settanta, entrambi
con lo stesso duo Paulnewman Robertredford. Butch Cassidy, di
cui riprende i due banditi simpatici e sgangherati e una decina
di situazioni, soprattutto il monologo di Cate Blanchett che
dice di non volerli vedere morire, uguale a quello di Catherine
Ross. E poi Bandits reinventa un cliché sentito trent'anni
fa e oggi del tutto superato dai costumi, tipico della libertà
e spensieratezza di fine Sessanta: i due amici con una ragazza
in comune, ovvero Jules e Jim, ovvero Giù la testa, ovvero
Butch Cassidy. Ma poiché i tempi sono cambiati, e i buoni
non muoiono, il finale di Bandits è invece tal quale quello
della Stangata. Tal quale. Aggiungendo l'unica vera novità
del cinema di questi anni - l'imbottitura di canzoni a ogni taglio
di montaggio, la videoclippizzazione dei film - senza neanche
un'idea originale abbiamo tirato su un filmetto gradevole. Solo
per il fatto di essere americano.
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