Buenos Aires, tutto sommato
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Odio
l'Argentina. Odiavo l'Argentina, anzi, dall'estate del 1978.
Il paese era massacrato dalla dittatura militare, le persone
assassinate e fatte sparire. Ma non era per quello: io odiavo
l'Argentina per come si era portata a casa la Coppa del Mondo,
pestando l'Olanda di Krol e Cruyff che già era stata rapinata
dalla Germania quattro anni prima. Erano ventiquattro anni che
odiavo l'Argentina - malgrado mi commuova ancora a vedere i vecchi
filmati di Diego - quando ho smesso, e ora ne vado matto. Tanto
che se avessi quattro soldi comprerei casa nel quartiere di Palermo
Vecchio, dove le case più belle come nella più
lussuosa Recoleta oggi costano al massimo un milione e
mezzo al metro quadro. Da quando il nuovo governo ha deciso di
slegare il peso dal cambio fisso alla pari con il dollaro, il
tasso di cambio e' raddoppiato in poche settimane e ora basta
mezzo dollaro per avere un peso. Risultato: se siete qui, avete
la meta' dei soldi. Se arrivate da fuori con i dollari, ne avete
il doppio. Un pranzo in un ottimo ristorante costa sempre 30
pesos: solo che prima erano 30 dollari e ora sono 15. E cosi'
via per praticamente tutto: quattro pesos per un viaggio medio
in taxi, 3 pesos per una rivista, 2 per brioche e caffelatte,
70 centesimi per la metropolitana. Che aria tira? Capire che
aria tira, a Buenos Aires, e' piu' interessante che in altri
posti del mondo. Primo, perche' ha quel nome, e invece hanno
soffiato spesso venti pessimi. Secondo, perche' quello che si
capisce da noi dei guai argentini di questi mesi, e' che in citta'
tira una brutta aria: scontri di piazza, polizie tornate violente,
gente sul lastrico, eccetera. Cosa ci si aspetta, arrivando?
"Aceptamos patacones", sta scritto sulle vetrine di
molti negozi, e non fa un bell'effetto: suona come "siamo
alla canna del gas". I patacones si chiamano ufficialmente
così - sono dei soldi alternativi stampati dalla banca
nazionale per cercare di evitare la bancarotta senza aggravare
l'inflazione. Ma un peso patacone vale gia' meno di un peso.
Ma patacones a parte, a girare per la citta' non pare che il
paese sia in bancarotta: nessun suicida mi si spiaccica davanti
agli occhi sul marciapiede, nessuno yuppie mi chiede l'elemosina,
i negozi sono aperti, i bar frequentati. E´una crisi strana,
dai sintomi vari. Alla stessa ora, verso la mezzanotte, ognuno
reagisce a suo modo. I bar dello scintillante centro commerciale
di San Vicente sono pieni zeppi di ragazzi e turisti, e cosi'
i cinema, le sale giochi, i ristoranti. Gente ricca, che fa finta
di niente. Nelle strade poco piu' giu' altri ragazzi, una giovane
madre con sua figlia, tutti dall'aspetto di gente che non l'aveva
fatto prima, rovistano tra i sacchi dell'immondizia messi fuori
dai portoni in attesa dei camion. La ragazza e la bambina cercano
lattine, che buttano in un loro enorme saccone; gli altri giovanotti
selezionano carta e cartone e li caricano in due carrelli della
spesa. Ne trarranno qualche soldo, e passano le serate cosi':
ce ne sono a bizzeffe, ognuno ha individuato alcuni isolati di
sua pertinenza, per ora. Accanto ai due ragazzi passa un signore
in bicicletta e si ferma a ogni telefono pubblico per controllare
se qualcuno ha lasciato dentro qualche spicciolo. Piu' a nord,
il quartiere Palermo e' la solita successione variopinta di bar
e locali e ristoranti, e c'e' gente. Anche se un po' meno. Molti
locali sono semivuoti, quelli piu' popolari reggono, ma non tutte
le sere. Altri giovani e meno giovani sono al concerto di Rod
Stewart. Non sono tanti, ma forse non e' per via della crisi.
A parlarci, ti dicono tutti che è un disastro, che hanno
perso metà dei loro soldi, che il paese ha toccato il
fondo e non si merita niente. Però te lo dicono seduti
in un bar e ordinando da bere sotto la luce dorata del tramonto,
e attaccando briga con le ragazze che passano.
La stessa sera si tiene un "cacerolazo" in plaza de
Mayo, o davanti al Congreso. Molte persone si sono portate
da casa pentole, bottiglie di plastica, coperchi, taniche, martelli,
mestoli e vanno percuotendoli per ore, fino a notte fonda, davanti
alle due maggiori sedi del potere: a volte sono insegnanti con
gli stipendi decurtati, a volte correntisti che non possono ritirare
i loro depositi in banca, oppure studenti preoccupati, o comitati
di quartiere delusi definitivamente dai politici argentini: "que
se vayan todos", se ne vadano tutti. Spesso sono tutti questi
assieme, e altri ancora. Certe sere sono alcune centinaia, altre
diecimila. Si mescolano giovani e cittadini di solida coscienza
politica e gente che non gliene e' mai fregato niente, ma ora
che si trovano senza i loro soldi pestano con mestoli e coperchi,
bang, bang, bang. Due file di poliziotti con scudi e manganelli
fronteggiano i dimostranti, protetti da una barriera metallica
modello Genova 2001, che naturalmente viene percossa con eccellenti
risultati sonori: un fracasso ininterrotto romba nella notte.
Cacerolazos minori avvengono nei quartieri, davanti alle case
dei ministri, nelle altre citta' argentine.
I ragazzi hanno per la maggior parte l'aria da collettivo studentesco,
ma ce ne sono anche altri fisionomicamente piu' simili a quelli
che stanno riempiendo i locali fighetti dall'altra parte della
citta'. Uno di loro sta un po' in disparte, osserva e non canta
slogan: e' alto e con i capelli biondi tagliati corti, una felpa
grigia e i jeans. Occhi azzurri, pare piu' scandinavo che sudamericano:
si chiama Danilo Castelli e non ricorda da quale generazione
arrivino le sue ascendenze italiane, ma sa di averne anche di
danesi. Mentre i suoi coetanei di Rifondazione fanno allegri
capannelli e issano striscioni, lui sembra sceso di casa a vedere
cosa succedeva, senza spegnere la Playstation. Ma le apparenze
ingannano: e' uno studente di informatica, 23 anni, e aveva un
lavoretto part-time come programmatore che ora non ha piu'. La
cosa che uno vorrebbe capire e' se ai giovani senza conti in
banca e senza lavoro fisso, la crisi cambia la vita o no, o se
in fin dei conti i giorni sono come prima. Cambia, dicono loro.
Nel locale piu' figo della citta', che si chiama Central e pare
saltato fuori dalle pagine di Wallpaper, lavora una ragazza che
si chiama Lorena e che dice che l'anno scorso veniva il doppio
della gente, che le mance sono meno, che lei adesso non ha soldi
per divertirsi e uscire. Per Danilo e' la stessa cosa. Ci sono
meno soldi, dice, e si fanno meno cose. Ma la cosa che e' cambiata,
per lui, e' che adesso e' preoccupato. Un anno fa aveva una competenza
moderna e ricercata e buoni progetti per il futuro: adesso deve
finire di studiare ma vede le cose piuttosto male, dopo. E la
sua partecipazione al cacerolazo di stasera comincia a spiegarsi
meglio. I politici hanno combinato solo guai, tutti o quasi tutti.
Li metti in parlamento e tempo pochissimo ognuno di loro si dimentica
della gente e diventa come gli altri: un politico, e basta la
parola. Noi vogliamo maggior democrazia, che i politici siano
a tempo, che i candidati siano scelti dalla gente, che ci sia
un controllo continuo su quello che fanno. E se le cose non dovessero
migliorare, dice Danilo con una luce negli occhioni azzurri,
allora la gente tornera' in strada a battersi per questo paese.
"Io amo questo paese, e sono pronto a combattere e a morire
per l'Argentina". Hai capito, Danilo. Ma intanto gli argentini,
e questo e' vero, continuano a trovarsi governati da gente incapace:
"Acceptamos patacones". Potrebbe diventare il motto
della nazione, se non se lo fanno sottrarre da qualche altro
paese dell'Occidente.
Buenos Aires e' una citta' bellissima, una Nueva York meridional,
tanto noiosa planimetricamente quanto spettacolare a camminarla.
Gli isolati sono tutti quadrati, ma i palazzi e i grattacieli
hanno architetture straordinarie e cosi' europee che non ne esiste
in Europa una altrettanta concentrazione. File di alberi accompagnano
ampi viali e stradette residenziali, e le piazze non si riescono
a comprendere appieno per il verde che ne nasconde le varie parti.
Ha i suoi orrori, la citta', come il volgare obelisco bianco
che le guide vorrebbero farne il simbolo. O la Avenida 9 de Julio
che attraversa e spezza la citta', cosi' larga che ad attraversarla
se ne va la pausa pranzo. Ma ogni quartiere e' un mondo a parte,
e nessuno da solo vale a capire la citta'. La gente affolla le
strade, le vetrine e i bar si susseguono: Buenos Aires sembra
essere stata colpita dal fallimento economico quando aveva gia'
spiccato il salto. Una specie di Vilcoyote che non si e' ancora
accorto di camminare sul vuoto, e aveva gia' perso da un pezzo
la terra sotto i piedi ma continuava ad abbellirsi e a farsi
piu' moderna. Con quali soldi, stanno cominciando a capirlo.
Nella zona del porto, Puerto Madero, si lavora ancora ai grandissimi
cantieri che hanno trasformato il quartiere sul modello dei Docks
londinesi. Un'area tirata a lustro, baciata dal sole e dalle
rive dei bacini, di nuove ristrutturazioni graziose e moderne
ma anche di grattacieli e uffici splendenti. E' stato appena
inaugurato il ponte girevole pedonale mozzafiato di Santiago
Calatrava, l'architetto che sta disseminando mezzo mondo di miracoli
statici. La zona e' gradevolissima, ma semideserta. La crescita
sociale e commerciale era gia' piu' lenta del previsto, e ora
chissa'.
Per capire che aria tira, a Buenos Aires, parla con i tassisti,
si dice. In realta' i tassisti si sono sempre lamentati, come
fanno i tassisti di tutto il mondo, ma quello di oggi 74
anni - almeno e' propositivo sul piano politico: "io sono
cattolico, ma lasci che glielo dica, bisognerebbe ammazzarli
tutti". Matar. Un indicatore piu' affidabile sono le scritte
sui muri, sempre piuttosto fantasiose. Ce n'e' per tutti, il
presidente Duhalde, le banche, il Fondo Monetario Internazionale.
Ma la migliore di tutte e' roba sentimentale. Dice "Maru',
tutto sommato ti amo". |