Di cosa parliamo quando parliamo di
baseball
Luca Sofri
Max, dicembre 2001
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108. Chiedete a un ragazzino
americano cosa gli fa venire in mente questo numero, 108. Ci
sono 108 cuciture in una palla da baseball. Lo sanno anche gli
stones, in America. E dategliela in mano questa palla con le
sue 108 cuciture, al ragazzino americano, e ditegli di lanciarla.
Il ragazzino la prende con tre dita pollice, indice e medio
e la tira così. Non con tutta la mano, solo i ragazzini
stranieri appena arrivati in America lanciano una palla con tutte
le dita. Gli americani pensano che la loro giovane cultura abbia
prodotto tre cose imbattibili: la costituzione, il jazz, e il
baseball. "Vedo cose straordinarie nel baseball. È
il nostro sport, lo sport americano. Fa uscire la gente di casa,
le riempie i polmoni, dà alla gente un nuovo eroismo fisico.
Ci solleva dalle nostre nevrosi. Ripara i nostri guai, ed è
una benedizione". Questo era Walt Whitman, poeta, americano.
Per noi ignoranti, quello di "O capitano, mio capitano",
i versi dell'"Attimo fuggente" con Robin Williams.
C'è questo grande romanzo,
si chiama "Underworld". Molti dicono che sia il più
grande romanzo americano. Lo ha scritto uno che si chiama Don
DeLillo, uno bravo. Tutto il primo capitolo è il racconto
formidabile e tesissimo della partita tra New York Giants e Brooklyn
Dodgers. Un derby. Adesso non ci sono più, nessuna delle
due squadre. O meglio. In America succede questa cosa, impensabile
a noialtri quaggiù, che le squadre cambiano città.
Lo fanno per motivi economici, perché c'è una città
dove verrebbero più tifosi allo stadio, dove ci sarebbero
maggiori investimenti, cose così. Nel 1957 non c'erano
squadre forti in California e ce n'erano troppe a New York, la
capitale del baseball. In un anno solo Giants e Dodgers se ne
andarono a San Francisco e Los Angeles, nuovi stadi moderni,
nuove folle, nuovi soldi, nuova geografia del baseball. A New
York restarono gli Yankees, e una nuova seconda squadra, i Mets,
arrivò cinque anni dopo: da allora sono i cugini poveri
ma hanno vinto un campionato e l'anno scorso sono arrivati a
giocare le finali contro i rivali cittadini, perdendo. Le chiamano
le Subway Series, le partite della metropolitana, perché
per le trasferte dallo stadio di una squadra a quello dell'altra
basta una linea della metropolitana.
Comunque, quando le due squadre
abbandonarono New York ci fu una mezza insurrezione, soprattutto
a Brooklyn dove i Dodgers erano un'istituzione. L'allora proprietario
della squadra Walter O'Malley, responsabile del trasloco, divenne
uno degli uomini più proverbialmente odiati della storia
di New York. Ma nel 1951 le tre squadre erano ancora tutte là,
i tre stadi nel giro di pochi chilometri. Gli Yankees avevano
vinto la loro lega e Dodgers e Giants dovevano giocarsi l'altro
posto per le finali. Una questione cittadina. E la partita finale
di quello spareggio bloccò la città. Jackie Robinson,
il primo nero ad aver giocato nella Major League fece entrare
un punto. Poi i Giants pareggiarono, ma i Dodgers arrivarono
a condurre quattro uno all'ultimo inning.
Già, e che diavolo è
un inning? E come si fa ad appassionarsi a uno sport così
complicato? Noi italiani non capiamo le regole, si dice spesso.
Certo, come no. Infatti Joe Di Maggio non le capiva molto bene.
E nemmeno Joe Torre, Lou Piniella, Bobby Valentine e Tony LaRussa,
i quattro allenatori delle quattro semifinaliste dell'anno scorso.
E nemmeno Rudolph Giuliani, il sindaco di New York che si vanta
di aver visto tutte le partite degli Yankees da quando era bambino.
E via così, italiani su italiani che hanno fatto la storia
del baseball. Quindi ce la possiamo fare anche noi. Ci sono nove
tempi innings in una partita di baseball e ciascuno
è diviso in due parti, in cui una squadra va in attacco
e l'altra in difesa. Chi è in attacco deve cercare di
battere la palla che il lanciatore avversario gli tira addosso,
e fare di corsa il giro del campo per fare un punto. Se batte
un fuoricampo, il punto è fatto. Se batte un fuoricampo
con un suo compagno che ha raggiunto già una posizione
in campo (una delle "basi"), sono due punti. Se i compagni
in campo sono tre il massimo si chiama Grand Slam,
quattro punti, il sommo colpo del baseball, un'apoteosi, che
non lo vedi spesso per niente.
Quindi se all'ultimo inning stai di sotto 4 a 1, sei nei guai.
E i Giants erano nei guai neri, la partita data per finita quando
Bobby Thomson va a battere. Ma il baseball è lo sport
in cui non è mai finita, in cui chiunque ha sempre un'occasione,
come in America. "Non è un bel lancio da battere,
alto e interno, ma Thomson ruota su se stesso e colpisce la palla
con un colpo fortissimo dall'alto in basso e tutti, trutti, stanno
a guardare". Questo è DeLillo che racconta. Quel
giorno, quel momento restò leggendario per i newyorkesi.
Thomson fece un Grand Slam per il rotto della cuffia e i Giants
ribaltarono il risultato nel modo più spettacolare. "Tutti
si ricordano dov'erano quando Bobby Thomson fece quel fuoricampo".
Una cosa simile è capitata
di nuovo il mese scorso, nella quarta partita delle finali tra
gli Yankees e gli Arizona Diamondbacks. Sotto per tre a uno,
davanti ai 56 mila dello Yankee Stadium, la squadra di casa ha
infilato due fuoricampo al nono inning e al secondo supplementare
e ha ribaltato una partita decisiva. È venuto giù
lo stadio, e la città. Si fa per dire, che lo Yankee Stadium
non farà la fine dei suoi storici predecessori cittadini,
demoliti cinquant'anni fa. È un mito sportivo, si trova
nel Bronx proprio di là dell'Hudson e venne costruito
nel 1923 per un semplice motivo, che cominciava con "Babe"
e finiva con "Ruth". Il più grande giocatore
della storia del baseball, che portò alla partita talmente
tanta gente da convincere i proprietari della squadra a edificare
uno stadio nuovo.
Di recente un giornalista del Chicago Tribune ha stilato una
lista delle cose che hanno reso grande la cultura americana,
a proposito di scontro di civiltà eccetera. Una trentina
di momenti storici, capolavori, successi, eventi, opere. Tra
questi, due riguardano il baseball. Uno è il discorso
d'addio di Lou Gehrig, il più grande prima base della
storia, anche lui uno Yankee, soprannominato "cavallo d'acciaio"
perché gioco una serie interminabile di partite consecutive
senza venir fermato mai da niente, né un acciacco, né
una stanchezza, per 14 anni filati. Lo fermò la sclerosi
laterale amiotrofica, malattia da allora nota come morbo di Gehrig,
che lo uccise a 38 anni. Lasciò il baseball con una cerimonia
commovente allo Yankee Stadium: "Sapete che sto avendo un
brutto periodo. Ma lasciate che vi dica che con questi compagni,
questi fans, e questa famiglia, io mi ritengo l'uomo più
fortunato del mondo".
L'altra citazione è per il fuoricampo di Robert Redford
che conclude "Il migliore", uno dei due miglior film
di baseball. L'altro "L'idolo delle folle"
racconta la storia di Gehrig, interpretato da Gary Cooper. Il
discorso d'apertura di un altro film, più debole, che
si chiama "Bull Durham" è invece questo: "Io
credo nella religione del baseball. Ho provato tutte le fedi
maggiori e molte delle minori. Ho creduto in Buddah, Allah, Brama,
Visnù, Shiva, negli alberi, nei funghi e in Isadora Duncan.
Le ho provate tutte, davvero, e la sola fede che davvero nutre
l'anima, giorno dopo giorno, è quella nel baseball".
Quest'anno il campionato è
finito a novembre invece che a ottobre, per la prima volta nella
storia. Tutto per colpa di bin Laden. Nei giorni dopo la strage
di New York il campionato si fermò e il calendario slittò
di una settimana. Così Derek Jeter, che è stato
il primo uomo a battere un fuoricampo a novembre, quattro minuti
dopo la mezzanotte del primo del mese, è stato ribattezzato
mister November (Reggie Jackson, un giocatore che dava il meglio
di sé nelle finali era noto come mr. October). La partita
era quella in cui il presidente Bush ha voluto sfidare il rischio
attentati e andare a lanciare la simbolica palla inaugurale,
sotto il pennone su cui sventolava la bandiera lacera a stelle
e strisce recuperata tra le macerie delle twin towers. Tempi
cambiati, nel 1969 allo Shea Stadium dei Mets si era deciso di
tenere la bandiera a mezz'asta, tanto era diffusa la contestazione
alla guerra in Vietnam. All'ultimo momento fu issata al suo posto
per la protesta di un gruppo di veterani feriti in guerra, ma
al reverendo Billy Graham fu sottratto il previsto lancio inaugurale
per il suo sostegno dichiarato al presidente Nixon.
Così è andata la storia degli Stati Uniti, passata
tutta per i campi da baseball, i "diamanti". Questo
è Donald Hall, scrittore: "Sapete quando volate in
aereo da una costa all'altra, e guardate giù e vedete
tutti quei piccoli diamanti dappertutto? Beh, ogni volta che
ne vedo uno, il mio cuore è là. E so che laggiù
non riesco a vedere le case e quasi nemmeno le strade
qualcuno sta giocando al gioco che tutti noi amiamo".
108. Le 108 cuciture, e le
statistiche infinite e i record, e i cappellini, e le figurine,
e gli eroi: l'epica e la mistica del baseball sono sopravvissute
all'attacco di basket e football, sport più televisivi,
più fisici, più moderni. È una fede, appunto.
"La gente mi chiede cosa faccio d'inverno, quando il campionato
è fermo", disse una volta, ottant'anni fa, Rogers
Horsnby dei Saint Louis Cardinals. "Beh, ve lo dico, cosa
faccio: guardo fuori dalla finestra e aspetto la primavera".
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