Muneer, che la sera sta a casa
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Muneer stasera sta a casa.
Sta a casa quasi tutte le sere, a dir la verità. Non è
che si esca molto, a Gerusalemme est. Qualche volta vengono i
suoi amici da lui, qualche volta lui va da loro. Muneer abita,
come tutti gli arabi, nella parte orientale della città,
quella oltre la famigerata linea verde che un tempo doveva limitare
la colonizzazione israeliana, ma ora è stata assai superata.
Ma Gerusalemme resta divisa in due, con la parte israeliana,
più moderna e coccolata dalle istituzioni. A ovest ci
sono bar, negozi occidentali, locali, vie pedonali, giardini.
A est ci sono botteghe e bottegucce, qualche modesta fumeria,
caffè aperti solo il giorno, un traffico più intasato
e sconnesso, gente per strada e ambulanti, mercati. Ma la sera,
praticamente niente. E di andare nell'altra parte della città,
non se ne parla. "Ho degli amici ebrei", dice Muneer,
"li ho conosciuti seguendo il corso di lingua ebraica per
gli immigrati". Ma non si sente a suo agio nei bar degli
israeliani, spesso lo squadrano, o ne sono impauriti. La Gerusalemme
israeliana è costellata di luoghi in cui è stato
compiuto un attentato, prima o poi. Giovanissimi cittadini di
Israele pattugliano la città in divisa o semplicemente
con il mitra a tracolla. Bevono una cosa al bar e lo appoggiano
sul banco. Gli arabi che lavorano qui fanno quel che devono fare
e appena hanno finito se ne tornano nella loro parte di città.
Muneer a volte lo scrivono
Munir, a volte Muner, lui di solito lo scrive in arabo
è un ragazzo arabo più fortunato della media dei
suoi conterranei, se si può dirsi comunque fortunati a
essere nati in una terra dove ci si spara da più di mezzo
secolo. Intanto abita a Gerusalemme: non è qui che il
mese scorso i carri armati israeliani sono entrati a cercare
gli assassini del ministro Zeevi. Hanno ucciso giovani palestinesi
a Ramallah, a Betlemme, pochi chilometri vicino, nelle aree controllate
dall'Autorità Palestinese. Invece Gerusalemme è
comunque una città dove le tensioni si tagliano con la
sega elettrica, ma garantita dal fatto di essere la capitale
dello stato di Israele. Una città che a volte può
sembrare quasi normale, non fosse per la sua bellezza e la sua
storia straordinarie che ti rincorrono ovunque. Altrove, a Gaza,
West Bank, la vita dei palestinesi è fatta di niente,
un niente povero e oppresso su cui crescono gli integralismi
e i desideri assassini e terroristici. I ragazzi di Gerusalemme,
invece, le scelte terroristiche dei loro connazionali si limitano
se così si può dire ad ammirarle o,
in casi più rari, a non condividerle del tutto. In più,
Muneer è un ragazzo arabo di buona famiglia istruita,
e con la voglia di capire il mondo. Suo padre era insegnante
e giornalista, e lui frequenta lo YMCA, l'organizzazione che
si occupa dei giovani in tutto il mondo, e che nella versione
palestinese crea attività sociali per i bambini e i ragazzi,
e ha permesso a Muneer di visitare la Germania e la Danimarca.
Ha i capelli neri e una faccia da ragazzo, vivace: si veste con
cose da ragazzi, sportive, ma quando deve uscire per vedere qualcuno,
nei giorni di festa, si mette elegante di quell'eleganza araba,
una bella camicia nera stirata, pantaloni neri.
Il mattino dopo la sua serata
domestica, Muneer si alza alle sei e fa colazione in casa con
i genitori e i fratelli. Abita in una casa a ridosso della linea
verde, a pochi passi dall'albergo più frequentato dai
giornalisti stranieri, l'American Colony, e a un centinaio di
metri dalla porta di Damasco, l'ingresso più monumentale
e vivace alla città vecchia murata. Davanti alla porta
di Damasco parte l'autobus scalcagnato che porta all'università
Al-Quds, dove Muneer studia legge. L'università è
poco fuori Gerusalemme, per arrivarci bisogna passare i checkpoint
dell'esercito israeliano. A volte le attese sono lunghissime,
i controlli meticolosi e ruvidi. Quindi Muneer quando può
preferisce usare la bicicletta, malgrado ci siano aspre salite
lungo la strada, che è malconcia e piena di buche. Per
molti suoi compagni che vivono a Betlemme o in altre aree più
controllate, l'arrivo alle lezioni è ancora più
faticoso. I checkpoint sono più numerosi, le attese interminabili,
e nei periodi di tensioni maggiori proprio non si passa. Quindi
si arriva in ritardo, o non si arriva proprio, oppure si arriva
a piedi attraverso le colline. Ciò malgrado l'università
si sforza di funzionare normalmente, e a un occhio europeo il
suo impegno più benedetto è quello di tenere i
giovani palestinesi in contatto con delle idee, con la civiltà
moderna, con la discussione. La prima lezione di oggi per Muneer
è di diritto, e si tiene in inglese per insegnare ai ragazzi
a familiarizzare con i termini giuridici in quella lingua. Chi
più chi meno, l'inglese lo parlano tutti, e un professore
paterno e che conosce il mondo accende rapidamente una discussione
sul confronto tra le arretratezze del diritto consuetudinario
ancora in uso in alcune aree della Palestina, e il moderno sistema
giudiziario. È un tipo distinto, il professore, sui quarantacinque:
faccia araba e gran baffi, se salisse su un nostro aereo scatenerebbe
il panico. Muneer chiede di intervenire, ha le idee chiare, e
il professore fa fatica a tenerlo a bada per far parlare tutti,
anche quelli con le idee confuse. Qualcuno ricorda che il diritto
consuetudinario punisce reati anche gravi come l'omicidio con
un risarcimento in denaro, oppure costringe all'esilio tutta
una famiglia. "Si chiama collective punishment, dice
il professore: per un criminale, pagano tutti. È quello
che fanno gli isareliani con noi, se ci pensate". Quando
Muneer dice fiero che la legge deve essere uguale per tutti e
questi usi sono incivili, le ragazze lo guardano affascinate.
"Voi parlate di utopie, però: ricordatevi che nei
paesi arabi, anche in Palestina, comandano dei dittatori",
ricorda il professore. Nelle pause tra una lezione e l'altra
i ragazzi affollano la modesta caffetteria a piano terra, o se
ne stanno fuori al sole, sui pendii brulli che circondano gli
edifici, a fare capannelli. È questo il luogo e il tempo
in cui gli studenti palestinesi passano più tempo con
i loro coetanei, ed è qui che si vedono le sfumature dell'odio,
sempre figlio di un fortissimo orgoglio personale e di popolo.
Gli ebrei sono quelli che hanno occupato la nostra terra, sono
quelli che ci sparano addosso, ci maltrattano, ci discriminano.
Gli ebrei sono razzisti, per via di quello che gli avete fatto
voi europei. Nessuno la pensa diversamente: le differenze sono
solo nella disponibilità a condannare il terrorismo, dopo
una vita di checkpoint e di controlli, di morti in famiglia e
tra gli amici. Non si devono uccidere gli innocenti, dicono,
ma il ministro Zeevi non era un innocente.
Muneer dice che non è
più nazionalista, che il nazionalismo è una stupidaggine
e che gli uomini sono tutti uguali. Dice che si vergogna delle
arretratezze del suo paese, che vorrebbe le strade belle e pulite
come quelle tedesche. Che l'Europa è bellissima. Ma non
gli piace come si comportano con gli affetti e le famiglie, gli
europei. I legami familiari sono importanti, non si può
sposarsi, separarsi, sposarsi di nuovo con tutta quella facilità.
Come se non contasse niente. Non si può non essere legati
ai propri fratelli e ai propri genitori più che a ogni
altra cosa. Sostiene un equilibrio tra modernità e Islam,
tra apertura e rigore, che a noi pare acrobatico. Nel suo corso
ci sono molte ragazze, sicure, in gamba, ma quando chiedi loro
cosa pensino dell'America rispondono sfuggenti che questo devi
domandarlo ai ragazzi. Come se non te lo volessero dire, cosa
pensano. Vogliono dirti solo che i loro coetanei che vanno a
morire per uccidere gli invasori israeliani fanno bene. Muneer
non ha una ragazza, dice. Non si fa "dating", qui.
Quando ce l'avrà sarà speciale, sarà quella
che vorrà sposare. Ma come fate, che qui è pieno
di ragazze carine e sveglie, come fate a non innamoravi, a non
fidanzarvi, e poi lasciarvi, e poi fidanzarvi di nuovo? Come
fate a non uscire insieme, a non passeggiare per mano per le
vostre città? Come fate? Risposte: uscire dove, intanto,
che non ci sono quasi locali, non si esce la sera? C'è
una discoteca a Ramallah, ma andarci è praticamente impossibile.
E poi qui se esci con una ragazza lo sanno tutti, e tutti ne
parlano e non è una cosa buona che una ragazza esca con
qualcuno. E la nostra religione non lo vuole, e quindi noi nemmeno:
certo, si fanno amicizie, ma niente di più. Si resiste,
perché non è una cosa giusta. Intorno, risolini,
imbarazzi e lo sguardo saputo di chi in qualche modo qualcosa
avrà quagliato. Victor, uno dei ragazzi cristiani, è
il figo della scuola, e i compagni lo prendono in giro. Ha gli
occhiali americani, la polo Tacchini e il telefonino. Vorrebbe
partire, lui, andare via. I suoi parenti hanno un negozio di
souvenir a Betlemme, dove dalla ripresa dell'intifada il turismo
è crollato.
A metà pomeriggio Muneer
riprende la bici e se ne torna a casa. Altri controlli, altri
mitra. Prima di cena se ne va allo YMCA o al corso di judo. Qualche
volta vede degli amici ebrei, o europei che sono venuti a trovarlo.
Ogni tanto va a trovare il suo professore del liceo, che è
stato quindici anni in galera come appartenente al PFLP, quelli
che in questi giorni hanno ucciso il ministro Zeevi, poi ha lasciato
perdere e adesso ha una società di servizi giornalistici.
"È il miglior insegnante che abbia mai avuto",
dice. Il professore gli spiega che bisogna credere in un paese
unico in cui vivano in pace arabi ed ebrei. È un'utopia,
ma bisogna crederci, tutte le altre soluzioni falliranno. Muneer
non è convinto, ma va matto per tutte le cose che quest'uomo
sa: "Sentirlo parlare è come seguire quei dibattiti
sulla BBC". La sera vedrà gli amici in una casa,
ma non tutti: alcuni stanno a Betlemme e non possono venire a
Gerusalemme. Domani niente università, giovedì
e venerdì è festa.
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