Un giorno a Fregene
Luca Sofri

Musica, 29 gennaio 2004

Re: No Subject

Rock e altro

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Di Sanremo uno poi non si ricorda più niente. Ogni anno un’edizione, cinque serate lunghissime, decine di canzoni e cantanti e intermezzi volatili, che finiscono per fare notizia più delle esibizioni in gara. Chi ha vinto l’anno scorso? Boh. E l’anno prima? Gli ultimi vincitori di Sanremo che mi ricordo sono i Jalisse, Tiziana Rivale e Riccardo Fogli, per motivi sbilenchi. Ho solo due momenti indimenticabili in una vita di spettatore di Sanremo. Tre, se ci mettiamo anche quando Rudy Marra cantò “Gaetano”. Il più doloroso è quando Peter Gabriel venne a cantare Shock the Monkey tutto pittato in faccia e a un certo punto si attaccò a una presunta liana e andò lanciandosi sulle prime file appeso: al rientro prese male le misure e si sfranse sopra un altoparlante. Tememmo, noi fans, danni permanenti alla schiena: che non escludo, e non credo che lo stesso Gabriel ne avrebbe parlato. Il momento più riuscito nella storia delle esibizioni di Sanremo, quello dopo il quale cantare a Sanremo non potrà mai più essere la stessa cosa, è invece di soli due anni fa. Eravamo a casa di un’amica, il solito gruppo di ascolto, sempre più logorato, sempre più svogliato. Soglia di attenzione bassa, niente palette per i voti, sporadiche attenzioni alle mises delle signore in gara, distratti anche dal buffet servito dalla padrona di casa. Ma a un tratto qualcuno, una sentinella rimasta davanti al televisore, chiama a raccolta. Correte, dice. Corriamo, e c’è Daniele Silvestri. Ma non ce ne accorgiamo subito, perché è un po’ da una parte. Al centro del palcosecenico c’è un individuo con i rayban e i baffoni calato da non si sa dove che si sta esibendo in uno scatenato e imprevedibile balletto anni Settanta. Chi accidenti è? Siamo ammutoliti ed esilarati. Quell’uomo è un genio. E sta ballando sulla canzone di Silvestri.

Quell’uomo, Fabio Ferri, diventò il personaggio di culto di quel Sanremo e dei mesi successivi: attore di teatro serio e con un curriculum di tutto rispetto, si era buttato nello scherzo in combutta con il suo amico Daniele Silvestri. Che oggi è l’artista che ha saputo usare Sanremo nei modi più originali e proficui di tutti. Per tre volte.
Daniele Silvestri – sto pensando, mentre arrivo alla sua casa di Fregene per parlare del doppio cd live che esce in questi giorni – è la cosa più vicina a Robbie Williams che abbiamo in Italia. Capace di una creatività pop con pochi uguali di questi tempi, con tentazioni rock che balenano di quando in quando, ha ottenuto con Salirò una popolarità da superbotto, ed è carino abbastanza da avere un gran successo con le ragazze. Se togliamo che è molto di sinistra e non ha cominciato nei Take That – la prima canzone che ha scritto, a 14 anni, parlava della Roma – il paragone mi pare plausibile. La giornata è nerastra con squarci di sereno, il mare d’inverno è stupendo. Bisognerebbe scriverci una canzone. La casa di Daniele Silvestri sulla spiaggia è molto diversa dalla villa di Malibu di Robbie Williams. È una graziosa casetta del mare comprata per affetto nei confronti di un luogo caro alle precedenti generazioni Silvestri, dove Daniele e sua moglie Simona vivono da tre anni insieme ai due bambini piccoli. Che sono quelli che la possiedono concretamente. Delle reti temporanee proteggono la casa dalle dune di sabbia spinte indietro dal vento invernale. Ma dune di giochi, giocattoli, casette, sonaglini, passeggini, seggiolini, automobiline, pupazzi, trabiccoli, stanno inesorabilmente seppellendo la casetta e i suoi abitanti. Facendomi largo, accompagno Daniele fino alla spiaggia desolata dove si reca a tempi cadenzati per fumare una sigaretta. Ci sono delle barche in secca, fa freddo. Daniele ha un maglione oversize fatto a mano e dei calzoni sportivi in tessuto sintetico, molto larghi.

“Sanremo. Sanremo è una follia che non dovrebbe esistere, una cosa da pazzi di cui tu sei partecipe e correo”. Ma alla fine ti sei divertito o no? “Alla fine, hai detto bene”, e gli viene da ridere. Ne ha fatti tre: al primo, con “L’uomo col megafono”, arrivò decimo e cominciò a farsi notare. Al secondo andò con una canzone da incoscienti, per il festival: si chiamava “Aria”, aveva un arrangiamento minimale e lugubre, parlava di un detenuto suicida in carcere. Una grandissima canzone, arrivò nona su quattordici, era l’anno di Fabio Fazio. E poi due anni fa, tornò con la canzonetta pop perfetta, “Salirò”, una cosa che se solo i millantati giovani di qualità invitati quest’anno ne indovinano mezza così, sarà un miracolo. Il superbotto, un’estate di tormentone, alla radio si sentiva solo quella. Ma di che parlava? “Già. Di che parlava? Ogni tanto qualcuno cerca di spiegarmi cosa ne ha capito, e io gli dico che ha ragione. Ma in realtà fu una cosa anomala per me, una canzone fondata sul ritornello, con le parole che vanno dietro alla musica, al salire degli accordi. Potrei dirti che è una canzone sull’archetipo del toccare il fondo e risalire, ma è soprattutto un testo fatto di suoni”. Comunque, i festival sono tutti diversi, dice: “la prima volta, con Baudo, c’era una tensione terribile, tutti nervosissimi, fino all’ultimo tecnico. Con Fazio ridevano tutti come matti”. E ci tornerai? “Me lo chiedono ogni volta: la prima volta ho detto neanche morto. La seconda già dissi “non credo”. Adesso non lo escludo”. Torniamo dentro casa. Simona e i bambini sono usciti, suona un disco di Caparezza di cui Daniele è entusiasta. La preparazione del caffè contemporanea ai racconti su Sanremo si risolve nel seguente bilancio: una guarnizione bruciata per assenza d’acqua nella moka, un eccellente secondo tentativo con tanto di cremina. “Comunque, per dirti perché uno come me va a Sanremo, l’esempio perfetto è “Aria”: hai una canzone di cui sei molto orgoglioso, a cui tieni molto, e vuoi farla sentire a più gente possibile. Che probabilmente è la stessa cosa che pensa Al Bano”.

Dopo Sanremo andò in tournée fino alla fine dell’anno e si godette il successo di Salirò. “In realtà mi venne solo più voglia di rintanarmi quaggiù con Simona e i bambini: anzi, ti dirò che la sola cosa che mi è piaciuta davvero del successo di quel periodo è che venivano molti bambini ai concerti perché sapevano la canzone e si facevano portare dai genitori. E poi il miracolo fu che il mio vecchio pubblico, quello affezionato alle mie cose meno disimpegnate, quello di sinistra, rimase anche dopo il successo di Salirò”. Il pubblico di “Cohiba”. Dalla prima volta che vidi Silvestri suonare dal vivo, otto anni fa, penso che il momento in cui fa Cohiba sia una delle esperienze più eccitanti di tutto il panorama dei concerti rock: nel disco nuovo dura nove minuti e passa. Parla del Che, di Cuba e delle sue vicissutidini di vittima degli Stati Uniti: “venceremos, adelante, o victoria o muerte”. Gli chiedo se quella celebrazione oggi non suoni almeno come una reticenza rispetto alla dittatura di Castro, di cui i cubani sono altrettanto vittime. “Cohiba è un atto d’amore nei confronti del mito di Cuba, non della realtà. È un inno, anche ingenuo, astorico, sulla leggenda del Che. Racconto la fantasia, più che la realtà”. Sai che Filippo Gatti, che pure è assai vicino al movimento no global, ha appena scritto una canzone molto bella sugli “idioti con la sindone di Che Guevara”? “Certo, capita che sia usato a sproposito. Ma meglio avere il Che sulla maglietta che molte altre cose. Comunque Cohiba non è una canzone schierata: è una canzone bambina”.

Così, Silvestri è riuscito a far sentire Cohiba, e Aria, e Il mio nemico, al grande pubblico che veniva ai suoi concerti per canticchiare “salirò fino a quando sarò solamente un puntino”, e a tenersi lo zoccolo duro dei suoi vecchi fans. “Fino a tre giorni prima di Sanremo avrei fatto di tutto per cambiare canzone in gara, per paura di perdere il pubblico fedele, quello dei compagni, a cui sono affezionatissimo. Persone con cui è sempre piacevole parlare dopo i concerti, che non ti aspettano solo per un autografo sulla copertina del cd”. Poter dire cose inattese non solo a chi le vuole sentire è un grosso privilegio: “io vorrei che l’Unità ospitasse una pagina al giorno di opinioni diverse, uno “spazio del nemico””.
C’è una doppia anima, nelle cose di Silvestri: una parte più rock, di testi più impegnati, e una più pop, di racconti più leggeri e spiritosi, e spesso si mescolano. “Io non so scegliere, mai. Con la musica cerco di rimanere una spugna. Nell’ultimo disco c’era meno rock e più ballabilità, ma il disco che per me è il più riuscito, “Il dado”, aveva tutt’altre influenze, i Portishead, tutti quelli di Bristol, quelle cose là”. Poi a momenti compare sempre qualcosa dei Beatles: una volta Daniele si trovò davanti al programma di Papi, quello dove fanno i quiz sulle canzoni e si disse “questa la so, questa la so! È… è… è Lucy in the sky with diamonds”. Invece era “Tu non torni mai”, sua. Poi parliamo dell’epica del doppio live, piuttosto perduta con l’avvento del cd, del ruolo dei doppi live nella storia del rock. Sì, sì, dice Daniele, i doppi live, i miti rock… “io avevo in cassetta un doppio live di Buscaglione, e poi “Sciò” di Pino Daniele”.

Altro giro fuori, altra sigaretta, sta calando il sole. Scheletri di chiringuiti estivi. Rientriamo e la famiglia si è reimpossessata dei suoi spazi. Pablo sta applicando i suoi recenti studi sulla deambulazione bipede con delle vistose Adidas celesti. Santiago si limita a dondolare su un’altalena. E ride. Simona cerca di star loro dietro e farsi i fatti suoi: il solidale desiderio familiare di sbarazzarsi di me, l’estraneo, si esprime attraverso il rumoroso passaggio di alcune autovetture giocattolo in mezzo alla nostra conversazione, una delle quali munita di un’efficace sirena, e la sostituzione di Caparezza con un cd dello Zecchino d’Oro. Daniele parla e li guardo: sono tutti e quattro molto belli, bei visi, che brillano nela sera nera nera di nuvoloni. Stefano, che si occupa di Silvestri per la Sony, gli comunica adesso che il singolo “Kunta Kinte”, uno dei due inediti del doppio live, è già terzo nella programmazione delle radio. “Senza nessuna promozione: non ho ancora fatto niente, questa è la prima intervista. Quasi quasi continuo così, zitto zitto, rintanato”. Qualcosa mi dice che è il momento di andare. Il caffè era molto buono.