"Non è che perché ho la pelle scura pensate che abbia qualche autorità in fatto di Islam?"

Luca Sofri

Il Venerdì, 28 marzo 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il secondo libro. Il secondo libro, se il primo è stato un caso letterario, è sempre un problema (se il primo è stato ignorato, anche, ma è un problema diverso). Zadie Smith ha scritto il secondo libro, “L’uomo autografo”, che esce in questi giorni in Italia per Mondadori. Il primo era stato un caso letterario. “Denti bianchi”, storia di storie di giovani londinesi di mille razze e culture e religioni, aveva fatto il botto con i critici e i lettori. Recentemente, l’Independent ha indicato Zadie Smith come la più popolare scrittrice inglese assieme a Orwell. Lei è di padre inglese e madre giamaicana e il suo successo ha messo per iscritto definitivamente la trasformazione multiculturale di una parte dell’Occidente, per cui “la migliore letteratura inglese oggi viene da chi è inglese da una generazione”, come hanno scritto.
Il secondo libro è uscito tre anni dopo ed è ricco quanto il primo, forse di più: altre 470 pagine in cui si racconta la storia di Alex-Li, londinese di madre ebrea e padre cinese, e del suo rapporto con le sue radici e con il mondo, vissuto come sottofondo alla sua attività di trafficante di autografi e cimeli rari, e della sua ricerca del Graal: un autografo rarissimo e introvabile di una leggendaria ed elusiva attrice sparita dalle scene. Intorno, continui riferimenti alla cultura popolare dell’Occidente, molto cinema, molta musica, molti miti e personaggi, e la scrittura dell’autrice. Il secondo libro non è piaciuto ai critici angloamericani quanto il primo, ma contiene grandi idee e microstorie, e capacità descrittive a momenti geniali e spiazzanti. Qualcuno ha accusato la Smith di essersi “seduta”.
È cambiato molto in qualche anno, da “Denti Bianchi” in poi?
Beh, non è “qualche anno”. Avevo cominciato il libro che ne avevo venti e tra poco ne compio ventotto. Quindi sono cambiata io, come tutti. Un po’ meno ingenua e un po’ più preoccupata. Non vivo più con mia madre. Penso ad avere una famiglia mia. Metto meno tacchi, mi piace che la casa sia pulita, divento più conservatrice, queste cose. Come tutti.
Dove vive, adesso?
Per un anno vivrò a Cambridge, Massachussets. Ma stare lontano dall’Inghilterra mi dà nostalgia e panico. Non la sento come un caso, un posto dove sono nata e basta. Qui lavoro in una stanza di fronte a quella di Nabokov, quando era qui, e capisco solo adesso la sua sensazione di emigrante. Mi fanno impressione le persone che devono lasciare i loro posti e si tengono su con i ricordi. Il romanzo che sto scrivendo e il protagonista fa un viaggio in Inghilterra. E mentre ne scrivo, mi manca qualsiasi cosa, anche le strisce pedonali. L’altro giorno ho visto “Emma”, il film, e mi sono commossa sui panorami. Ho scritto un sacco del distacco da casa, dal proprio paese, e guarda come devo arrivare a capirlo.
E il successo, i privilegi, l’essere una scrittrice di best-seller?
Non avevo mai vissuto fuori dai sobborghi che ho raccontato in White Teeth. L’America è un cambiamento enorme. Ma non vado in giro pensando “sono una scrittrice di best-seller”, mi penso una studentessa, e altre cose che mi pensavo prima. Il privilegio è economico, ovvero il maggior privilegio si possa avere: ho potuto tornare a studiare, affittare un appartamento nel centro di Cambridge, ceno fuori invece che in cucina, non devo cercarmi un lavoro vero. E un altro privilegio è che i giornali mi chiedono di scrivere e dire la mia su questo e quello, anche se con me è un po’ sprecato, che non ho tutte quelle opinioni e neanche tanta voglia di esprimerle pubblicamente. Ho dei pensieri forti sulla guerra, come tutti, ma i miei il Guardian li ha pubblicati. Questo è un privilegio incredibile. Ma sì, è anche cambiato molto. Mangio cose più buone, direi. Non so spiegare. Mi sento sempre una studentessa, ma una molto ricca. Posso far venire qualcuno a pulire e ordinare la cena.
Chi sono le persone più interessanti con cui ha avuto a che fare, grazie al suo successo?
Altri scrittori. Martin Amis, Rushdie, McEwan e Julian Barnes. Per me sono stati incontri incredibili. Quello che temevo di più era David Foster Wallace. In realtà, non è che ci fai chissà quali conversazioni, ma hai la chance di dirgli quanto ami le loro cose, e vederli fare quelle smorfie imbarazzate. Sai benissimo che le faranno, eppure glielo devi dire. E quando gliel’hai detto, capisci che non c’è granché d’altro di cui parlare, quindi è meglio salutare e allontanarsi in cerca di una tartina.
In “L’uomo autografo” e nelle sue implicazioni sulla fama e il successo c’è qualcosa di questi cambiamenti?
Direi di no. L’ho scritto in un momento in cui pensavo che una persona della mia famiglia potesse morire. È molto dominato dalla morte, la morte dei padri, la morte spirituale, la morte di un’intera generazione. Dovevo essere molto infelice. Adesso sono così contenta che mi sembra che l’abbia scritto qualcun altro. Ma anche con “Denti bianchi” fu così: dopo ti sembrano lontani una vita. Che è la ragione per cui parlarne nelle interviste è così imbarazzante, non me ne importa più niente. Penso al prossimo.
Lei era stata spesso autocritica su “Denti bianchi”. Che rapporto ha con le sue cose concluse?
Mai riletto né l’uno né l’altro. Non credo che nessuno scrittore si metta lì e rilegga il suo libro. Quando lo scrivi, ogni giorno rileggi fino al punto dove sei arrivato. Ogni volta daccapo. Dopo un periodo così, non lo vuoi vedere mai più. Comunque, diciamo che un giorno quando sarò adeguatamente avanti con gli anni, spero di scrivere un libro di cui sarò orgogliosa. A “Denti bianchi” sono affezionata: parla di un posto che amo. Ma per essere soddisfatta aspetto i quaranta.
Che differenze ci sono, tra i due romanzi?
Mi è più facile dire in cosa si somigliano: parlano di religione e di amicizia.
Non è stata spaventata dalla ingombrante tradizione letteraria, nello scrivere di cose ebraiche?
Le dirò che mi pare strano che nessuno mi abbia chiesto se avessi qualche ansia a scrivere di cose musulmane in “Denti bianchi”: non è che perché ho la pelle scura pensate che abbia qualche autorità in fatto di Islam? Tutti mi chiedete come ho avuto il fegato di scrivere di ebraismo. Comunque, la risposta è che trovo il fegato di scrivere delle cose che mi interessano. Mi interessano le religioni, e l’ebraismo è una delle più belle e complesse culture che ci siano. Più ne sai, più ne vuoi sapere.
Ha letto “Ogni cosa è illuminata” di Jonathan Safran Foer, un altro giovane scrittore che ha cercato di parlare in modo nuovo di famiglia e tradizioni ebraiche?
È un grande libro. Ci scriviamo, credo che sia lo scrittore sotto i trenta che più ammiro. Riconosco la sua attenzione alla famiglia, anche se per me è l’amicizia a stare davanti a ogni cosa. Comunque, lui è un vero giovane talento, più di quanto lo sia mai stata io.
Che rapporti ha con Dave Eggers, un altro giovane romanziere che suscita reazioni controverse, e che ha ospitato alcune sue storie sulla rivista che dirige?
Se Dave scrive la lista della spesa, ha più energia e passione di molti dei romanzi che mi spediscono a casa.
In “L’uomo autografo” ci sono spesso riferimenti alla musica pop contemporanea…
C’è più cinema che musica, ma io vado matta per la musica. Sono cresciuta con le canzonette degli anni Cinquanta, e poi Dylan, Marley, Stevie Wonder. Oggi mi interessa soprattutto l’hip-hop. Ho seguito molto Eminem, agli inizi. Sono il tipo che i giornalisti musicali disprezzano: mi piace qualsiasi cosa abbia una buona melodia, e punto. Non si può essere “critici” sulla musica,: se ha del soul e si può ballare io la compro, anche se l’artista è un cretino e l’etichetta è di proprietà della Esso. Discuterne non ha senso. E quindi, ecco la mia lista da isola deserta:
1. Mozart’s Requiem
2. ‘Mo money, mo problems’ – The Notorious B.I.G
3. “Ramona” – Bob Dylan
4. “ Redemption Song” Bob Marley
5: “Mad at ya” – Tupac Shakur
6: “I could write a book” – Ella Fitzgerald
7: “No surprises” – Radiohead
Gesù, manca un sacco di roba. La lista da isola deserta è una cosa masochista.
Cos’è che l’ha più impressionata nel frequentare il mondo dei collezionisti di autografi?
Non ha niente di impressionante: conservano quello che noi buttiamo. Mi ha solo depresso il commercio di materiale nazista, e le ipocrisie usate per giustificarlo. Facciano pure, ma non pretendano che non ci sia qualcosa di perverso.
Alcuni critici inglesi è americani si sono detti un po’ delusi dalla sua “seconda prova”…
Io condivido sempre tutte le critiche. Sono d’accordo che “Denti bianchi” era lungo, autoindulgente e la trama mal costruita. E sono d’accordo che “L’uomo autografo” è strano e triste e meno divertente. Ma non voleva esserlo: ho scritto di un giovane sgradevole e volevo essere onesta. Ci sono interpretazioni che mi stupiscono, ma sono evidentemente colpa mia. È come a scuola: ti correggono e tu cerchi di fare di meglio.
Com’è andato il suo tour italiano, due anni fa?
L’Italia è l’unico paese che amo davvero, a parte il mio. Ho sempre pensato che sarebbe stato così, per via di Forster e quelle cose lì, e quando sono in Italia faccio molto la turista inglese. La Toscana, Venezia, Firenze, Mantova, anche se non so quanto questa sia l’Italia vera. Penso che gli italiani siano adulati continuamente, eppure devi sempre dirgli sì, che belle sono le vostre donne, e le chiese, i paesaggi, il cibo, la musica, l’arte migliore del mondo. Ma non lo sapete già?
Concludendo, cosa ha scritto sul Guardian a proposito della guerra?
Penso che la guerra sia immorale e illegale. Penso che il mio paese e l’America stiano sbagliando se pensano di combattere così il terrorismo. I terroristi sono a Londra, Francoforte e Detroit, e la loro radicalizzazione cresce di fronte a questa politica estera americana. Io ci sono cresciuta con questi ragazzi – afgani, iraniani, pakistani - e tutte le loro paure e il loro risentimento contro l’America vengono esaltati da questo intervento.