Il festival di sancoso

Luca Sofri

Vanity Fair, 11 marzo 2004

Il cosa? Il festival di che? Già una settimana dopo, il festival con le canzoni che fanno in quel posto in Liguria, quello con i fiori, come si chiama, già una settimana dopo, ti pare che sia passato un anno. Chi ha vinto? Boh. Ma se ci penso un momento, mi viene, eh… Nello slang dei giornalisti, che definisce “bollita” una notizia che suona vecchia e superata, la velocità di ebollizione di quel festival lì, quello che quest’anno c’era la Ventura insomma – dai che vi ricordate, fate uno sforzo - è supersonica. Da una parte dà il desolante senso – parlo del coso, il festival coso - della sua vanità e distanza da qualsiasi realtà sensata, ma dall’altra è anche rassicurante: significa che dall’impazzimento generale si può guarire rapidamente, che il mattino dopo ci si sveglia e tutto è tornato normale, e quel coso, sancoso, non esiste. Abbiamo sognato. È un giorno della marmotta che dura sei giorni durante i quali ci svegliamo ogni mattina ed è di nuovo lo stesso giorno di pazzia e sfinimento che era ieri, uguale uguale: ma poi all’improvviso, arriva il lunedì (la domenica è ancora postuma) e qualcosa rimette tutto a posto, l’amore per la vita prevale, la luce del giorno allontana i vampiri, e non riusciamo nemmeno a ricordarci chi fosse quel tipo col cappellino ridicolo che avevano messo a dirigere sancoso, quello che dicevano fosse mafioso (lo diceva quello là, quello coi baffi, che poi ha fatto l’altro festival a Cremona). Era Little Tony? Tony Dallara? Tony Santagata? Betty Curtis? Memo Remigi? Vai a sapere. Come lacrime nella pioggia.