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Dove diavolo sarà via Ucelli di Nemi? Potrei aprire una cartina di Milano, una con la periferia, per saperlo. Chi diavolo sarà questo Ucelli di Nemi, con una c sola? Potrei sfogliare un’enciclopedia, una buona, al volume Tau-Z, e dovrei trovarlo. L’enciclopedia che avevamo a casa, una Treccani, era formidabile. Sapevo a memoria tutti i nomi dei dodici tomi: A-Bacca, Bacce-Cas, Cat-Det, Deu-Forf, Forg-Ido, e poi? C’era un Liec-Mol, forse? O confondo con gli sportelli dell’anagrafe di Pisa? Erano cinque, l’ultimo Pistolesi-Zuzzolo. Pensa Zuzzolo, il suo nome iscritto perenne nella memoria mia e di chissà chi altro.
I nomi sono strani, guarda Ucelli di Nemi. Sto a Milano da quasi un anno e non so dove sia questa via Ucelli di Nemi, e non voglio saperlo. Eppure ci sono stato, dieci anni fa. Una mattina di dieci anni fa, nebbiosa, umida e grigia, una mattina di dicembre milanese schifoso. Una mattina milanese schifosa fatta a forma di mattina milanese schifosa come se la immaginano quelli che a Milano ci sono stati sì e no tre volte nella vita. Cioè io dodici anni fa.
Il processo Calabresi si aprì il 6 dicembre 1990 all’aula bunker di via Ucelli di Nemi, Milano. La città di Piazza Fontana e di Pinelli, nel 1969. La città dove il commissario Calabresi era stato ammazzato nel 1972. La città dove l’indagine era stata riaperta nel 1988 con la confessione di Leonardo Marino. Cazzo di città, Milano. Mio padre era stato rinviato a giudizio un anno prima. Ci spostammo a Milano come il cast di un film di serie C. Ci prestarono un appartamento in Corso di Porta Ticinese. Metà dei nostri amici milanesi abitavano nel raggio di quattro portoni. Era una casa nuda e trascurata al primo piano, il tram le attraversava le finestre a ogni ora, ci stavamo io, mio fratello e nostro padre. Tre maschi che si alzavano nelle buie mattine schifose dell’inverno milanese per andare a un processo, e la sera cercavano di stare alla larga da quel posto triste. Ogni giorno diventava più triste e trascurato. Eravamo una specie di dormitorio di extracomunitari, arredato di faldoni giudiziari e indumenti accatastati sulle valigie, pendolari in attesa di giudizio. In sei mesi, mai messo il naso oltre il triangolo Porta Ticinese-tribunale-cinema del Duomo. La sera alla trattoria toscana o nelle case vicine degli amici. A quel primo processo, guerreggiato, temuto, spaventoso e acerrimo - come smisero poco a poco di essere i seguenti, che divennero routinarie convention annuali - ai sei mesi di quel primo processo convennero amici e sostenitori accorati da ogni parte d’Italia. Si ammucchiavano anche loro nelle case degli amici, prenotavano gli alberghi, quelli arrivati da vicino ripartivano la sera. Ci sono stati giorni in cui quaranta-cinquanta persone si pigiavano nella parte dell’aula destinata al pubblico e poi si disperdevano, per non disturbare. La sera si affacciavano nell’una o nell’altra casa, e spesso si sommavano, uno o due per volta, alle squadre di Trivial Pursuit in piena partita. Mi ricordo scontri notturni a cui parteciparono una quindicina di persone per parte.
La sdrammatizzazione era la prima strategia di sopravvivenza per tutti. Il giorno prima della sentenza, che si attendeva a ore, lo passammo in una confusissima partita di pallone nei giardini di piazza Vetra, prima della cancellata. Prima che la mettessero. Qualcuno si fece pure male, ma ci divertimmo come dei matti. Decidemmo di ricordarli come “quei drammatici attimi prima della sentenza”.
Fu un inverno schifoso, se posso dirlo. Per sovrammercato, non riuscivo a farmi riprendere da una fidanzata che avevo maldestramente lasciato, e mi sentivo in colpa di esserne tormentato ancor più che dal processo. Con mio fratello passavamo il tempo fuori dal tribunale facendo fotocopie, sottolineando passaggi e andando al cinema. Una sera uscimmo con due ragazze che avevamo conosciuto, credo l’unica volta. Proposero di andare a un ciclo di film giamaicani in via Torino. Noi scegliemmo Arma Letale 2 al Duomo e la serata a quattro finì lì. Mio fratello però riuscì a trovarsi una fidanzata milanese, a un certo punto.
Una mattina, a pasqua, mentre ci preparavamo ad andare al tribunale e ci annodavamo delle sbilenche cravatte fuor d’acqua, suonarono alla porta ed era un parroco che voleva benedirci la casa. Questa fetecchia di casa polverosa e buia. Proviamo anche questa, disse mio padre, hai visto mai. Poi andò come andò. Dopo qualche settimana, il Napoli di Maradona vinse il campionato e ascoltammo auto festanti tutta la notte, che ci passavano sopra le lenzuola assieme ai tram, brutte lenzuola gialle a pallini bianchi acquistate all’uopo in un negozio all’angolo.
A via Ucelli di Nemi si tennero, grazie al cielo (umido nero e gonfio), poche udienze. La sventata cialtroneria che aveva destinato un processo per terrorismo fuori tempo massimo a un’aula bunker di periferia, fu corretta presto. Il processo vero e proprio cominciò che era già gennaio, nel tribunale di Milano. Non voglio sapere dove sia, via Ucelli di Nemi, ora che forse ci passo vicino senza saperlo. Ma il tribunale so dov’è, lo vedo spesso, è l’unica costruzione nel mondo che mi infonde un desiderio di crollo, errore nei calcoli strutturali, cedimento dovuto a pilastri demoliti per costruire un magazzino scantinato, scossa tellurica, cicca caduta a un archivista. Brucia, brucia: voglio essere lì, quella sera, arrivare in pigiama perché qualcuno mi ha telefonato ed ero già a letto e vedere il bagliore già dai navigli e star lì fino a mattina a guardar pompieri e troupes televisive con un cerimonioso sollievo nel cuore.
Ci alzavamo che era buio, ci alternavamo in bagno e con le cravatte, raccoglievamo sacchetti di carte e giravamo l’angolo fino alla fermata. Bucavamo i biglietti, tre ogni mattina e altri tre al pomeriggio. Scendevamo otto fermate dopo e arrivavamo al tribunale da dietro. Passavamo i metal detector, litigavamo con gli agenti sospettosi, entravamo nell’aula col mosaico di Sironi, un orrore che pretendeva di rappresentare la giustizia, esattamente ome la corte su cui incombeva. Mattine e pomeriggi, corridoi, scale, chilometri, bagni, il bar, documenti, e documenti, e documenti, la sala stampa, io e mio fratello conosciamo il tribunale di Milano e le sue allucinanti simmetrie meglio di un praticante legale di Rho. Brucia.