Sono seduto
Capitolo secondo e
capitolo terzo

 

 

 

 

 

 

 

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Il 28 luglio del 1988 ero a Bruxelles, con Laura. Laura aveva la patente, cosa non strana in effetti: ero io che non ce l’avevo. Guidare mi faceva un po’ paura; poi l’ho presa e mi sono divertito parecchio, ma ormai non potevo fare altrimenti perché Laura mi aveva lasciato. E questa è un’altra storia. Comunque, per due anni abbiamo fatto dei gran giri in Panda per mezza Europa con lei che guidava e io che per sentirmi utile le leggevo dei libri, anche se ora mi ricordo solo Cime tempestose e Il profumo di Süskind. Ci divertivamo come dei matti ed eravamo piuttosto scemi, anche se io avevo già ventitré anni. A ventitré anni ero: uno, piuttosto scemo, e due, fidanzato per la prima volta. Cosa avessi fatto fino ad allora sarebbero abbastanza fatti miei, ma in sostanza avevo giocato molto a pallone e fatto altre fesserie coi miei amici maschi. Laura aveva conosciuto mio padre abbastanza da subito, a me piace sempre presentare lui alle altre persone e le altre persone a lui, fidanzate comprese. Quasi sempre si piacciono e io sono piuttosto fiero dell’uno e degli altri.
A Bruxelles ci fermammo a vacanza inoltrata, perché mia zia abita lì e così potevamo dormire due notti in un letto decente e fare una lavatrice. Solo che una mattina chiamò mia madre per dirmi che avevano arrestato mio padre non si sapeva bene per cosa, che aveva a che fare con un commissario di polizia che era stato ammazzato nel 1972. E che stessi tranquillo, non c’era da preoccuparsi, né bisogno che tornassi. Aspettammo il telegiornale della Rai, che disse più o meno le stesse poche cose, salvo le raccomandazioni di non preoccuparsi, e decidemmo di partire il giorno dopo. La notte parlammo. Sono passati dodici anni e tutto è diverso. Adesso so tutte le risposte alle domande che mi facevo quella notte. So chi era il commissario Calabresi, so chi è Leonardo Marino, so com’è andato l’arresto di mio padre, so cos’è successo dopo e cos’era successo prima. Conosco bene Ovidio Bompressi, ho visto di nuovo, e molto, Giorgio Pietrostefani. So cos’è un processo d’appello, com’è fatta una giuria popolare, dove ha sede la corte di cassazione, cosa sono le motivazioni di una sentenza. So una montagna di cose di cui quella notte di dodici anni fa non avevo la minima idea.
La mattina dopo partimmo dopo aver comprato il Corriere della Sera. Lo lessi in macchina ad alta voce mentre attraversavamo la Germania. Era una storia assurda. Questo Leonardo Marino, “ex militante di Lotta Continua”, diceva di aver guidato l’auto con cui era stato compiuto l’omicidio di questo commissario Calabresi, sedici anni prima. Questo Ovidio Bompressi, a sentire Marino, aveva sparato al commissario, sotto casa, a Milano. Erano stati mandati da mio padre e da Giorgio Pietrostefani. Pietrostefani si chiamava Giorgio? Questa era l’unica notizia che mi pareva mi riguardasse, l’unico legame con qualcosa di familiare. Mi ricordavo di Pietro, e avevo sempre pensato che si chiamasse Stefani di cognome. Doveva essere abruzzese, e figlio di un questore o un prefetto, una cosa del genere. Un amico, piuttosto brusco, ma affettuoso con noi bambini. Fine dei ricordi. Niente degli articoli del Corriere evocava in me una minima familiarità.

Mio fratello Nicola ed io, con molti altri ragazzi, di solito più piccoli di noi (siamo nati che i nostri avevano ventidue anni, quasi tutti i loro amici hanno aspettato un po’ di più), siamo stati di Lotta Continua. Fino a undici anni, io, e dieci mio fratello.
Siamo stati davvero di Lotta Continua. Allora, come ho capito poi, per dire di essere di Lotta Continua bastava essere stati a una manifestazione, o aver letto il giornale - che si chiamava Lotta Continua - qualche volta. Era l’organizzazione meno organizzata del mondo. Il che la rendeva ulteriormente attraente a chi volesse dire di appartenere a qualcosa. Oggi vedo che dicono di essere stati di Lotta Continua certi che io e mio fratello non abbiamo mai visto né sentito nominare, con tutti i nomi e le facce che ci giravano intorno allora. Mi fa piacere, soprattutto coi tempi che corrono.
Ma noi sì che eravamo di Lotta Continua. Anche non volendo, sarebbe stato difficile. Da che avevamo tre e cinque anni, nostro padre divenne il “leader” di Lotta Continua. Non avevamo la minima idea di che diavolo volesse dire lìder, né sentivamo mai usare qualla parola in nessun altro caso. Le filosofie yuppie che incentivano i presunti “leaders” erano di là da venire. A sentire i telegiornali gli altri avevano presidenti, segretari, direttori, rappresentanti, cariche di qualche formalità. L’unico leader del mondo era nostro padre, a quanto pareva. Qualcuno lo chiamava “presidente” ogni tanto, ma si vedeva che era per prenderlo in giro, e altri lo chiamavano “il capo” e chiamavano noi – e qui veniva il bello - “i figli del capo”. I figli del capo, non era male per niente.
Sette anni da figli del capo, divisi tra un tentativo di normalità gestito da nostra madre nella nostra casa di Pisa, e un luna park di posti, persone, riunioni, gelati, manifestazioni, regali, bandiere, baby sitter improvvisate/i, trattorie, letti sconosciuti, comizi e lacrimogeni, dietro a nostro padre. Quando si sono separati? Per quel che mi ricordo io, non sono mai stati insieme. Non ho nessun ricordo di mio padre che vivesse con noi, e prendo per prove che questo sia successo le foto nella casa di Massa, dove sono nato e ho vissuto per due anni, del tutto cancellati alla mia memoria.
I figli del capo, era uno spasso ogni volta che eravamo in giro per l’Italia col capo. Ma a Pisa, nella vita normale, aveva le sue controindicazioni. Controindicazione numero uno: la domanda “che lavoro fa tuo padre?”. E te la facevano, oh, se te la facevano. “Professione del padre?”, dicevano. E chi lo sa? Era imbarazzante. Mamma, che lavoro fa il papà? Anche lei non ne veniva tanto a capo, in effetti. A un certo punto, da qualche ennesima volta che ponemmo la questione cercando di far capire ai nostri la gravità del problema, lui estrasse dal cappello la qualifica di “pubblicista”. Senza pormi il minimo quesito su cosa diavolo volesse dire, la adottai e tante grazie. Hai visto mai che ci ripensi.
Lotta Continua per noi significa dei ricordi bellissimi come quelli di quasi tutti quelli che c’erano, anche se del tutto diversi. A Pisa la sede era in via Palestro e aveva le pareti rosse, che quando poi una mia fidanzata per farmi una sorpresa mi verniciò di un rosso vivace l’ingresso del mio primo appartamento per poco la strangolo. A Roma, era in via Dandolo c’erano i due mastini napoletani che terrorizzavano tutti gli avventori, Cuba e Assassino, che era cresciuto con noi a Napoli. Anzi a Bagnoli, vicino all’Italsider, dove mio padre aveva abitato quando si faceva un giornale in via Stella 125. Mi ricordo i cancelli della Fiat a Torino sulle spalle di qualcuno, e tutti quei nomi. Tutta la nostra infanzia è gremita di nomi che potevano essere luoghi, persone, piatti tipici, movimenti, chi lo sa. I più misteriosi erano i nomi multipli. Mira Fiori, Pietro Stefani, Piccoli, Storti e Malfatti, Magneti Marelli, Carrero Blanco, Donat Cattin, Asor Rosa. Le manifestazioni per il Vietnam, e per la Grecia, e per il Cile. E persone e persone, e tutti erano buoni con noi e ci volevano bene. Tutto il repertorio, direte voi. No, voi non avete la minima idea. Nessuno ha la minima idea di quello che mi ricordo io. All’infuori di chi c’era e aveva la nostra età.
Ancora oggi, che sono passati venticinque anni e niente di tutto quel periodo esiste più, c’è qualcosa di intimo e di comune con i figli degli altri che c’erano. Sappiamo di cosa stiamo parlando. Facciamo cose diversissime, pensiamo cose diversissime, ma veniamo da lì. Forse parlano di questo quando dicono delle persone uscite dalla stessa scuola, o dalla stessa caserma, o dallo stesso giornale. Noi siamo ex di Lotta Continua: noi più di tutti, nel senso di quello che siamo oggi. Tutto il resto è venuto dopo.

Ci fermammo la sera a Stoccarda e ripartimmo il giorno dopo. In macchina leggevo i giornali a Laura e pensavo una cosa su tutte. Pensavo, è possibile? Pensavo, è una pazzia assoluta, ma può darsi che sia successo davvero? Mi sono vergognato un sacco di volte, dopo, di essermi anche solo azzardato a farmi questa domanda. Ma me la feci: che ne sapevo? In fondo nel ‘72 avevo sette anni. Appunto. Qui stava la risposta che a ogni curva mi rassicurava al mille per cento. Avevo sette anni. Nicola sei. Caso chiuso. Ditemi quello che volete, fatemi leggere tutti gli articoli del mondo, santificatemi i leonardimarini che volete e inventatevi tutte le prove che ci vogliono. Io avevo sette anni. Nicola sei. Caso chiuso.
Chissà cosa pensava Laura. Laura non era stata di Lotta Continua, come la maggior parte delle ragazze del mondo. Non sanno di cosa parlo. Alcune sono curiose, altre gelose di quel passato che non capiscono, altre temono di essere indiscrete o si sentono escluse. Laura ascoltava, con attenzione, con pazienza, con discrezione, affettuosamente. C’era. Ma non sapeva di cosa parlavo.

Fine della parte su quelli che c’erano. Che anche a leggerla, suscita la stessa reazione di cui parla. Alcuni la capiscono, gli altri la troveranno senz’altro noiosa e antipatica. La lobby dei figli di Lotta Continua. Lasciamo stare.
Adesso scrivo una cosa che non ho nessuna voglia. Non ho più nessuna voglia di scrivere la storia di questa storia. Ne farei volentieri a meno. Ma i miei amici che hanno letto queste cose dicono che non si capisce di cosa sto parlando e non posso pensare che le persone sappiano tutta la storia. Le persone non sanno niente, dicono. È normale.
Allora le cose andarono così, e chi vuole può saltare pari pari tutta questa parte, come farei io se dovessi leggere questo libro. Basta con questo cazzo di casosofri.
Le cose andarono così. Questo Leonardo Marino andò dai carabinieri del suo paese, tra la Toscana e la Liguria, e raccontò loro chi aveva ammazzato il commissario Calabresi. Lo fece il 26 luglio 1988. I carabinieri chiamarono un giudice e il giudice fece arrestare Ovidio Bompressi, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Dopo due mesi di carcere, il tribunale della libertà li mise agli arresti domiciliari, e dopo altri due furono di nuovo liberi. Lezione di diritto numero uno: ci sono tre motivi per cui un giudice può tenerti in galera, se non sei ancora stato condannato con sentenza definitiva: il rischio che tu scappi, il rischio che tu inquini le prove, il rischio che tu ripeta il reato. Il secondo motivo è abbastanza vago da essere abusato, quindi se un giudice vuol tenerti dentro a piacimento in genere lo fa sostenendo che altrimenti inquini le prove. Inquini, poi, non è male. Fino a che non arriva un altro giudice che dice che il rischio non c’è, e ti tira fuori. Lezione di diritto numero zero: il diritto lo fanno i giudici. Non ce n’è. È inutile che mi veniate a dire. Ed è stupido che vi offendiate perché i giudici non vanno attaccati. Il diritto lo fanno i giudici, e se sono giudici bravi lo fanno bene, sennò no. Rilevazione statistica numero uno: i giudici a volte sono bravi, a volte no.
Così, Sofri, Bompressi e Pietrostefani (vengono sempre indicati in quest’ordine: perché? Non in ordine di presunta importanza, altrimenti, essendo anche Pietrostefani ritenuto mandante dovrebbe andare prima. Allora forse è una questione di accento, una sola parola, Sofribompressiepietrostéfani, con un gradevole suono accentato sulla terzultima). L’autista della navetta Mondadori che ogni mattina va su e giù da Milano a Segrate, un giorno mi sentì rispondere “Sofri” al custode che all’ingresso chiedeva il mio nome: “Sofribompressiepietrostéfani”, esclamò, con comprensibile soddisfazione.
Così, Sofri, Bompressi e Pietrostefani, dicevo, vennero rinviati a giudizio per l’omicidio del commissario Calabresi. Vuol dire che qualcuno ha deciso che ce n’è abbastanza per farti un processo. Secondo quel che diceva Marino, ce n’era abbastanza. Il 17 maggio lui era andato sotto casa del commissario Calabresi in macchina e aveva atteso che Ovidio Bompressi, con cui aveva appuntamento, sparasse due colpi in testa al commissario Calabresi, per scappare con lui. Erano lì perché glielo avevano ordinato Sofri e Pietrostefani. Una settimana prima, alla fine di un comizio di Sofri a Pisa. Anzi, Marino aveva già ricevuto l’ordine da Pietrostefani, ordine che veniva dall’esecutivo nazionale di Lotta Continua, ma lui non si fidava e aveva voluto sentire Sofri direttamente. E Sofri, a Pisa, gli aveva detto andate e ammazzate il commissario Calabresi.
Ilcommissariocalabrési, somiglia a Sofribompressiepietrostéfani. Ha una sillaba in meno, ma è quella sillaba che non si sente, non mi ricordo come si dice. Ce lo avevano insegnato con la Divina Commedia, al liceo. Quella cosa per cui anche se fosse stato “Nel mezzo del cammin di nostro vìcolo”, andava bene lo stesso, malgrado la sillaba in più. Ilcommissariocalabrési è diventato in questi anni la stessa formula spersonalizzata, che con l’accavallarsi dei processi e degli intrighi ha perso qualsiasi significato. Anche per noi. Soprattutto per noi, che con quella persona non abbiamo niente a che fare e abbiamo sempre rifiutato che questo processo ci facesse avere a che fare. Io non voglio sapere niente del commissario Calabresi. Non mi riguarda, non ha a che fare con me, ho sempre pensato. Quasi sempre. Le sole tre persone intitolate a parlarmi del commissario Calabresi e a incuriosirmi su chi era e su cosa ne ricordano sono i tre ragazzi Calabresi. Le sole tre persone sedute su quella fottuta parte di banchi di tribunale con cui avrei bevuto una cosa a un bar, non fosse stato indiscreto (che in loro nome, avvocati ignobili e vigliacchi abbiano detto e scritto cose ignobili e vigliacche è una cosa che ho sempre voluto scacciare da qualsiasi riflessione).
Il commissario Calabresi si chiamava Luigi e faceva il commissario a Milano in un periodaccio. Condusse le indagini sulla strage di Piazza Fontana, una bomba che uccise sedici persone in una banca milanese, nel 1969. Fece interrogare alcuni sospetti che non c’entravano niente. Uno di loro, Giuseppepinelliferroviére, cadde da una finestra della questura di Milano e morì, durante un interrogatorio. Non credo che sia caduto da solo. Allora comunque, non ci credette nessuno, e la polizia fece carte false per farlo credere. Mezzo paese accusò Luigi Calabresi di essere responsabile della morte di Pinelli, che aveva una moglie e una figlia. Lotta Continua sostenne più di ogni altro quest’accusa, e perseguitò Luigi Calabresi col suo giornale. Calabresi denunciò Lotta Continua e si fece un processo che divenne un processo sulla morte di Pinelli. Il processo si concluse con una sentenza di ridicolo equilibrismo, che condannò la condotta grave e illecita della polizia durante l’interrogatorio di Pinelli e durante le indagini. Ma sancì che Pinelli era morto di una sorta di svenimento che lo aveva portato a catapultarsi involontariamente da solo fuori della finestra. Malore attivo, lo chiamarono. Il giudice si chiamava D’Ambrosio e divenne assai popolare molti anni dopo.
Intanto, però, Luigi Calabresi era morto: ammazzato sotto casa in un mattino di maggio del 1972. E questo sosteneva Leonardo Marino, che Lotta Continua aveva deciso di punire Calabresi per la morte di Pinelli, e al tempo stesso di lanciare un segnale forte a favore della lotta armata. Per decisione del suo “esecutivo nazionale”, di Sofri e Pietrostefani.
E adesso dovrei dire meglio cos’era Lotta Continua, cos’era l’Italia allora, cosa fu il Sessantotto, quando cominciò il terrorismo? Scordatevelo. Sono passati trent’anni, le nostre vite sono altrove e io sono stufo di queste storie che con l’oggi, dite quel che volete, hanno poco a che fare. Se non fosse per i vostri tentativi di tirarcele dentro, sempre. Il mondo è diverso, ma molto diverso. Cosa fosse Lotta Continua non ha ormai niente a che fare con questa storia. Questa è una storia dell’Italia di oggi.

3
Un giorno, dopo il primo processo, gettai un’occhiata alla placchetta dei citofoni, mentre entravo in casa. Uno non guarda mai il proprio citofono, e fa bene. Sul nostro c’erano cinque bottoni da una parte e cinque dall’altra, con i nomi stampati con gli stessi caratteri da mio nonno, che abitava nell’appartamento di fronte a noi. In alto, c’era uno spazio vuoto con al centro la vite che bloccava la placchetta al muro. In quello spazio, quel giorno, vidi un frego blu. Non era un frego, a ben vedere. Era una scritta un po’ sbilenca ma ben leggibile, due parole una sopra l’altra. La parola sopra era Sofri e la seconda era assassino. La prima cosa a cui pensai fu di cancellarla. Provai con il pollice ma si schiariva e basta. Allora lo bagnai di saliva e riuscii a farla diventare una patacca deforme e illeggibile, blu. L’importante era che non la vedesse mia madre, e soprattutto i miei nonni. Avevo una mano tutta impiastricciata, guardai meglio da lontano se la cosa era ormai criptata a sufficienza, e salii in casa.

Mia madre in effetti arrivò subito dopo, e suonò il campanello perché scendessi ad aiutarla a portar su la spesa. Giusto in tempo. Naturalmente aveva visto la patacca, ma controllai ancora: era indecifrabile.

-— Luca, sai chi è che ha scarabocchiato sul citofono? —

— No, ho visto —

— E poi ha fatto una porcata peggiore cercando di cancellare —

— Forse con l’alcool… —

Mi interruppi. Mia madre stava guardando la mia mano. Fu un attimo, poi con eleganza riprese a scaricare la spesa dalla macchina e cambiò argomento.

Da allora, oltre alle altre cose imbarazzanti sul mio conto che potrebbe raccontare a chiunque, si tiene per sé anche l’erronea convinzione che io facessi scarabocchi sul citofono, me ne pentissi, e poi rifiutassi di confessare. Il tutto a venticinque anni.

L’anno scorso, una sera, camminavo per Milano con una ragazza che si chiama Cristina. Eravamo in via Montebello e lei mi stava elencando dei nomi di pizzerie dove saremmo potuti andare. Io ero un po’ distratto, perché non mi piace la pizza, e guardavo in giro chiedendomi se dirglielo o no, della pizza. Non subito, dopo qualche decimo di secondo, mi si impressionò in testa una cosa che mi era appena passata davanti agli occhi. Come Vilcoyote quando si accorge di camminare nel vuoto solo dopo qualche passo. Mi era passata davanti agli occhi una scritta nera di spray su un muro giallino. Diceva

SOFRI KILLER

un po’ storta, ma fatta con cura e, pareva, di recente. L’autore aveva avuto il tempo di arrotondare bene la O e curare la simmetria della K. Intanto ci eravamo allontanati e Cristina mi stava parlando di acciughe, capperi e olive. Perché qualcuno scrive SOFRI KILLER su un muro del centro di Milano? Guardate che è strano. Uno non ci pensa, fino a che non è il suo cognome. Naturalmente è pieno di gente, in giro, convinta che Sofri sia un assassino. Ma solo alcuni di loro sentono anche il bisogno di esprimere questa convinzione, nei momenti liberi. Ed esiste una minoranza di deviati che va a fare le scritte sui muri. Ma che razza di individui possano appartenere a entrambe le categorie, non riesco a figurarmelo. L’onorevole Gasparri fa le scritte sui muri? Qualche ragazzotto scemo è così imbufalito nei confronti di mio padre perché pensa che abbia ucciso qualcuno trent’anni fa? Un pubblico ministero milanese ha delle bombolette che gli avanzano? Qualche studente di mio padre? Ma lui insegnava a Firenze, e non ha mai bocciato nessuno.

Lo so che non sono obiettivo, forse è una cosa normale, come leggere D’Alema boia o Terroni puzzoni (se vi pare normale). Ma a me pare strano davvero. Che razza di persona sei, come sei fatto? Perché non sei in un bar con i tuoi amici, o al cinema con una ragazza, o a casa a guardare la tv? No, tu sei fuori, in via Montebello, presumibilmente di notte, e stai scrivendo SOFRI KILLER su un muro giallino. E il giorno dopo, passando di lì, contempli con soddisfazione il lavoro fatto. E’ la prima volta? Fai anche altre scritte? E quali? Niente, non riesco a figurarmelo.

Mio padre non mi ha mai raccontato di aver fatto scritte sui muri, ma immagino prima o poi qualche fesseria l’abbia scitta pure lui. Con quelle che scriveva sul giornale, figuriamoci. Qualche anno fa ero in una biblioteca di Pisa per cercare delle cose per la tesi. Mi piace lì, ci vado da sempre, è accanto alla mia scuola: una di quelle biblioteche dove ti puoi fare abbastanza i fatti tuoi, muoverti tra gli scaffali, aprire i volumi, rimetterli a posto, fare fotocopie, senza dover riempire mille moduli o chiedere aiuto a commessi diffidenti. Quella volta mi ricordai di un racconto di mio padre che da ragazzo mi aveva reso molto orgoglioso, perché parlava di calcio, in un certo senso. La storia era questa: il Pisa va in serie A per la prima volta nella sua storia, campionato 1968-69. Mezza città aspetta l’appuntamento della giornata inaugurale, con la Roma ospite dell’Arena Garibaldi. L’altra mezza è coinvolta nelle contestazioni e i fermenti del Sessantotto pisano. Le due cose si saldano nella testa di qualcuno con più fantasia degli altri, chissà chi. Fattostà che il sabato notte della vigilia un gruppetto di cinque o sei giovani si intrufolano nello stadio con il progetto di una clamorosa azione pubblicitaria. Entrano in campo e raggiungono una delle porte, che ho sempre immaginato quella della curva nord. Mettono mano agli attrezzi e cominciano a lavorare. A segare i pali. Gli attrezzi sono poverelli e ci mettono un po’. Nel cuore della notte, stanchi e sudati, si imbattono nell’anima di ferro dei pali. Non si danno per vinti e cominciano a scavare attorno alle basi, per svellere la porta del terreno. Poi, una volta fatto, passeranno all’altra. Ma dopo un po’ raggiungono dei gran blocchi di cemento a cui sono ancorati i pali. Lo stesso, riescono a scavarli tutti e issare la porta fuori dalle fosse. È quasi l’alba. Trascinano la porta attraverso lo stadio e fuori dai cancelli e la scaraventano, sfiniti, in un fosso poco lontano. Una, basta. E se ne vanno a dormire.

Come ho detto, questa storia mi piaceva un sacco. Che mio padre avesse qualcosa a che fare con un evento calcistico mi pareva fantastico, malgrado un vincolo di segretezza che mi ero autoimposto e che mi impediva di vantarmi con i miei amici: ma era una cosa troppo ardita e rischiosa da poter essere spifferata in giro. E poi, cercavo di scongiuare il rischio di venire smentito: in un angolo della mia fede in mio padre si annidava il dubbio che fosse tutta una balla. Non potevo rischiare una delusione. Secondo il suo racconto, a causa della loro impresa la partita più attesa della storia di Pisa era cominciata con alcuni minuti di ritardo per consentire l’arrivo e l’installazione di una nuova porta. Così, quel giorno in biblioteca, pensai di andare a guardare nell’archivio della Nazione. Cerco un po’ nei microfilm. E lo trovo:


LA PORTA “RAPITA”
Il furto di una porta del campo sportivo dev’essere una cosa unica negli annali della criminologia: ma ieri è successo anche questo. Ignoti, penetrati di soppiatto nell’intervallo tra i due turni di operai che ancora lavorano alla curva sud dell’Arena Garibaldi, hanno tolto, pali, traversa e supporti di ferro, e hanno gettato il tutto nel fosso del Marmigliaio.
Tra l’una e mezzo e le quattro e mezzo di notte, quando non c’era nessun operaio, il gruppetto di persone (dovevano per forza essere più d’uno per effettuare il colpo) è penetrato nel campo sportivo, e si è subito diretto alla porta del lato nord, cominciando a segare alla base uno dei pali. Quest’operazione è stata interrotta quando la sega ha incontrato l’“anima” in ferro del palo. Allora i pali ed i supporti posteriori sono stati scavati fino alla base di cemento cui sono ancorati mediante grossi bulloni; la porta è stata sbullonata, portata via a braccia e gettata nel fosso del Marmigliaio.
Quando gli operai sono tornati al lavoro, non si sono accorti di niente (perché lavoravano dalla parte opposta). È stato il custode del campo, alle sette del mattino, ad accorgersi della sparizione. Sono stati raggiunti per telefono il presidente Donati, gli altri dirigenti, i quali sono subito accorsi. Dalla questura sono intervenuti funzionari ed agenti e poi anche i carabinieri. La porta è stata cercata dappertutto, finalmente, qualcuno ha visto qualcosa di bianco spuntare dal fosso del Marmigliaio: era la porta, che è stat ripescata. Gli operai hanno faticato parecchio a rimetter tutto a posto ( i lavori erano seguiti dall’assessore allo sport avvocato Supino) ma ce l’hanno fatta entro mezzogiorno, mentre sugli spalti cominciavano a prender posto i tifosi.
Restano adesso da spiegare i motivi del gesto. Si possono azzardare solo ipotesi, perché non esistono tracce. Si è subito parlato – ma, ripetiamo, senza che esista alcunché che possa giustificare l’attribuzione – del “Potere Operaio”. I giovani estremisti avrebbero fatto sparire la porta con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale, mediante il gesto clamoroso, sulla situazione economica della città. Gli operai non sarebbero stati, si diceva ancora, perché quelli della Marzotto avevano l’ingresso gratuito, e quelli della Saint Gobain il permesso di diffondere un volantino sulla loro situazione.
Qualcuno ha anche parlato di un possibile scherzo (di pessimo gusto, per la verità) di qualche sportivo livornese; ma la voce ha trovato scarso credito. La polizia comunque indaga, anche perché la società, con tutta probabilità, sporgerà querela contro ignoti per danneggiamento. Il commendator Donati ha espresso la propria indignazione per l’accaduto, definendo l’azione “inconcepibile”.

In testa all’articolo stava una foto di alcuni volonterosi che ricostruiscono la porta sotto lo sguardo attento di un signore distinto e pelato, forse l’assessore Supino, forse il povero e incredulo commendator Donati. A cui, in quel momento, in biblioteca, andò tutta la mia solidarietà: aveva anche concesso l’ingresso gratuito agli operai della Marzotto e veniva ripagato così.
Mio padre l'aveva un po' gonfiata: non c’era stato nessun ritardo nell’avvio della partita, né si era dovuto ricorrere all’acquisto di una nuova porta. Ma la storia della Nazione era ancora più bella, con l’accorrere di funzionari, dirigenti, agenti, carabinieri, assessori e la pista livornese. Per non parlare dell’immagine del custode che spiega per telefono al presidente quello che sta vedendo, magari stropicciandosi gli occhi nel torpore del mattino.