La donna che tradusse il giovane Holden
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Un libro le ha cambiato la vita. Chissà se i
libri cambiano davvero le vite, e figurarsi uno. Ma è
bello sentire qualcuno dirlo, fingere di crederci, chiedere quale
libro. Quale libro vi ha cambiato la vita? Ascoltare risposte
originali, titoli sconosciuti, racconti commossi. E libri noti,
quelli che se non cambiano la vita, ci passano almeno attraverso
quando la vita si fa, a venti, trent'anni. Siddharta, lo Zen
e la motocicletta, Grandi Speranze. E il Giovane Holden, per
forza. A lei, già, la vita l'ha cambiata il Giovane Holden,
come a molti altri. Solo che a lei l'ha cambiata davvero: non
l'ha letto, lo ha tradotto. Che, non fosse stato per Salinger,
forse nessuno l'avrebbe tolta dall'ufficio stampa della Società
Autostrade, e chissà che altra carriera, che altra vita,
che altra città che non questa Roma da cui sta traslocando.
È La donna che ha tradotto Il giovane Holden.
Adriana Motti, il nome sul frontespizio, ha settantacinque anni,
cinque meno di Salinger, ed è oggi una delle più
note traduttrici italiane. Note a chi? "Non si presta mai
nessuna attenzione al nome del traduttore: è un lavoro
aberrante e io mi sono tremendamente pentita di averlo fatto.
Nessuna soddisfazione, si guadagna pochissimo e si perde completamente
la propria identità. E si sta sempre soli, noi e il libro
e nient'altro". La signora ha tradotto Karen Blixen, Lawrence
Durrell, E.M. Forster, Wodehouse, Shikibu Murasaki, Catherine
Porter e Colette dal francese. E Ivy Compton Burnett e altri
ancora.
A ventitré anni, nel '47, le capitò la prima traduzione,
un Wodehouse: "me lo sono totalmente inventato 'sto mestiere
ed è stato molto divertente cominciare con Wodehouse".
Figlia di un avvocato romano, a quel tempo faceva la giornalista
all'Avanti, dove era entrata rispondendo con un suo articolo
a uno scritto di Benedetto Croce. Le traduzioni le fecero poi
perdere l'attitudine a scrivere, dice: "non finisco mai
niente, solo cose brevissime, fulminee, ma non si può
vivere di cose fulminee".
"A Roma in quegli anni capitava di conoscere tutti e io
avevo la smania degli scrittori. Mi sembravano esseri sublimi,
che poi non è affatto vero, ma allora ci credevo".
In America negli stessi anni usciva "Questo mio folle cuore",
un film con Dana Andrews e Susan Hayward liberamente tratto dal
racconto di Salinger "Lo zio Wiggily nel Connecticut".
Deluso dal risultato, lo scrittore andò poi dicendo che
se a Hollywood avessero tratto un film da "Un giorno ideale
per i pescibanana" avrebbero dato a Edward G. Robinson la
parte della bambina Sybil. E così Holden racconterà
per tutto il romanzo il suo odio per il cinema e i film e i dubbi
sul fratello scrittore che è andato a Hollywood.
Alcuni anni dopo la signora Motti fu contattata da Einaudi e
fece un'impressione eccellente. "Le traduzioni sono opere
affini agli originali, Croce le chiamava "le belle infedeli".
La libertà che è lasciata al traduttore e che il
traduttore deve prendersi è grandissima. E ognuno se ne
prende di diverse: Faulkner fu tradotto sia da Vittorini che
da Pavese. Vittorini quasi parola per parola, con rigoroso rispetto
della cadenza. Pavese in un suo stile. A me piaceva più
il primo. Pavese era troppo Pavese e Faulkner diventava un po'
uno delle Langhe". Il primo lavoro per Einaudi fu Diario
d'amore di Maude Hutchins, "che non ebbe nessunissimo
successo".
Poi Einaudi ebbe delle difficoltà e Adriana Motti andò
a lavorare per tre anni all'ufficio stampa della società
Autostrade, "sempre per campare, ovviamente". Quando
Einaudi si "rimpannucciò", nel 1961, le affidarono
The catcher in the rye, e lei si dimise dalle Autostrade
("la più grande cretinata della mia vita").
In America il libro aveva già venduto un milione e duecentomila
copie. "Sembrerà un'eresia: sono diventata celebre
col Giovane Holden che io non ho preso sul serio per niente.
Mi è piaciuto, molto acuto, molto profondo, ma non gli
ho dato quest'importanza: divenne un dogma, un catechismo che
non capisco tutt'ora. È un libro individualista, la crisi
esistenziale di un ragazzo americano. Per dei ragazzi di sinistra
italiani, Salinger avrebbe dovuto essere il tipico americano
altoborghese e radical chic, non vedevo che rapporto ci fosse
con dei giovani marxisti. Lo dissi anche a tre di loro che vennero
a parlarmi per fare un pezzo sul giornale di Lotta Continua,
e si fecero prestare delle lettere. Più rivisti, né
loro né le lettere".
In Italia di Salinger allora si sapeva meno di oggi,
malgrado il successo del libro in patria: "la gente crede
che quando uno fa il traduttore si mette in comunicazione con
l'autore: forse la Pivano lo fa, perché aveva la possibilità
di conoscere Hemingway, di andare in America. Ma io che lo facevo
per mestiere, dalla mattina alla sera, se avessi dovuto prepararmi,
conoscere l'autore, non traducevo più. Campavo d'aria?"
Spesso si sente dire però che una buona traduzione nasce
da una profonda conoscenza dell'autore e del suo testo: leggerlo
e rileggerlo, prima di mettersi all'opera. "Macché,
se lo leggo prima, non lo traduco: mi viene la nausea e diventa
una barba terribile".
Esausta dal lavoro precedente, tradusse tutto Holden sdraiata
nel suo letto, accatastando parole in un quadernetto a quadretti,
come ha sempre fatto, il testo sulle pagine di destra e le correzioni
su quelle di sinistra, impiegandoci alcuni mesi, "sono sempre
in ritardo, alla fine".
Con la morte di Giacomo Debenedetti, che era stato suo compagno
per ventitré anni, venne un periodo molto brutto. "Tutte
le volte che avevo un dubbio Giacomo mi consigliava e adesso
pensavo di non poter far niente da sola. Durò a lungo.
Poi, quando ebbi tradotto la Blixen senza di lui, pensai di aver
superato l'esame".
Torniamo a Holden. Adriana Motti non ha letto gli altri libri
di Salinger e apprende divertita che tre anni fa Baricco e Veronesi
proposero a Einaudi di rifare la sua traduzione. La proposta
si perse lì, com'era giusto. Il giovane Holden italiano
è scritto in maniera formidabile proprio perché
lo ha scritto lei, ed è una traduzione che spesso brilla
di luce propria, costretta a emanciparsi continuamente dall'originale.
A momenti si potrebbe pensare addirittura che la Motti si sia
prese troppe libertà. Ma Holden come lo conosciamo noi
oggi non potrebbe scrollarsi di dosso i suoi "e tutto quanto",
"e compagnia bella", "eccetera eccetera",
"e quel che segue", "e via discorrendo",
che traducono sempre e soltanto l'espressione "and all"
dell'originale, che come tutte le opere in inglese non ha il
nostro fastidio per le ripetizioni. Né chi ha letto Holden
in italiano potrebbe pensarlo denudato di tutto il suo slang
fatto di "una cosa da lasciarti secco", "marpione
sfessato", "infanzia schifa", e compagnia bella.
"Allora i ragazzi parlavano così. Mi son dovuta adeguare,
e chiedere ai miei nipoti: in americano poteva essere più
sobrio, aveva lo stile di Salinger che lo sosteneva, in italiano
io dovevo reinventarmelo".
"Non si faccia venire un esaurimento nervoso", le scrisse
una volta Calvino: "se non ci darà il libro in maggio,
ce lo darà in giugno, se non in giugno in luglio, se in
luglio non ce l'ha ancora dato mandiamo un sicario a ucciderla,
ma lei deve lavorare tranquilla, come in un letto di rose".
Quando riascolta le parole che infilò dentro Il giovane
Holden le viene da ridere, "Salinger usava espressioni
che non potevo tradurre e cercavo di compensare, per rendere
il suo stile. E chiedendo ai miei nipoti. Una cosa sola me la
sono inventata io, perché nessuno mi sapeva dire niente:
che lui se l'era stantuffata sui sedili dietro della macchina.
Chiedevo a tutti come si diceva e tutti mi dicevano le stesse
cose che sapevo anch'io!"
"Una volta in Wodehouse c'era un personaggio che parlava
in uno slang americano vistoso, e come lo rendevo? Ci ho messo
un linguaggio grossolano, e qualche cacchio (mi pareva che tutto
sommato un piccolo cacchio ogni tanto): mi hanno fatto una rimenata
sul Catholic Digest, chiamandomi "signorina maleducata",
e con nome e cognome, che non mettevano mai se dovevano fare
un complimento. Mi sono proprio arrabbiata".
"Comunque la traduzione del Giovane Holden fu abbastanza
stroncata, a cominciare dal titolo". Una celebre nota in
apertura dell'edizione italiana del romanzo spiega l'intraducibilità
del titolo originale: "la scrisse Calvino".
Adesso la signora Motti legge poco ("ho letto
tanto in vita mia, che adesso ci vedo poco"), i libri "moderni"
non le piacciono e piuttosto rilegge Tolstoj e Dostoevskij: "Kafka
mi aveva troppo sconvolta. Giacomo mi portò Il messaggio
dell'imperatore appena uscito e io lo scaraventai contro
il muro, dicendo che non doveva farmi leggere quelle cose, in
un mondo come il nostro. Ero tutta permeata di realismo socialista
e quello mi porta Kafka. Poi mi ci appassionai"." Dei
suoi libri ama soprattutto quelli di Karen Blixen e ha
riletto solo Passaggio in India. "Li so a memoria".
"È un lavoro atrocemente sottopagato (e io ero arcipagata),
io capisco che i traduttori possano tradurre male: conviene tradurre
i gialli, ci metti meno". E che i ragazzi, anche in questo
momento, leggano espressioni che si è inventata lei, non
le fa un po' piacere? "Mi meraviglia moltissimo di accorgermi
ora di avere una fama perché la gente non legge mai il
nome di un traduttore. Poi mi dicono, ma lei è quella
che ha tradotto Il giovane Holden? tutti, sempre, e mi
fa ridere, io ho tradotto quaranta libri e si ricordano solo
quello. E la Blixen?" (affinità: "Chiamerei
volentieri Isak Dinesen", dice Holden, innamorato de La
mia Africa).
Adriana Motti ha messo parole italiane nelle bocche di Jeeves
e Holden Caulfield, di Adela Quest e del principe Genji, e decine
di migliaia di persone le hanno lette e se ne sono innamorate
(l'anno passato Il giovane Holden ha venduto in Italia
altre ventimila copie). Lei ha smesso di tradurre da qualche
anno, con un libro di David Garnett. Si alza dalla poltrona e
va a cercarlo nella libreria, lamentandosi della poca memoria
e della sua schiena, "vecchiaia schifa", dice.
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