Sulla tortura

di Adriano Sofri

Repubblica, 25 settembre 2006

Discutevo con un amico delle cose di cui si discute a ferragosto, Israele, l'Iran, la tortura. Secondo lui, per rispondere ad Angelo Panebianco, che si era spinto a giustificare la tortura in un frangente d'eccezione, bisogna confutare l'esistenza dello stato di guerra universale che fa da sfondo al suo argomento. Io invece ammetto l'esistenza, se non della guerra universale -bisogna infatti far economia delle parole- di una rapida cristallizzazione delle sue premesse: dunque penso che la giustificazione della tortura vada confutata per sè. Oltretutto, è grottesco che certi principii vengano proclamati inderogabili, salva la deroga contraria. La Convenzione di New York (1984) dichiara che “nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d'instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può esser invocata in giustificazione della tortura". La deroga fa assomigliare il bando della tortura al Comma 22: "Chiunque sia pazzo può chiedere di essere esonerato. Chi chiede di essere esonerato non è pazzo".

Il progresso è la liberazione da certi tabù, e la fissazione di altri. L'incesto -è il primo che si cita - è un tabù in vigore: vuol dire che magari succede ancora, ma non lo si può rivendicare. Si fa ma non si dice: espressione che può contrassegnare, oltre che l'ipocrisia, una conquista. Qualcosa viene messa al bando dalla coscienza comune e diventa causa di vergogna. Picchiare le donne non è un tabù, se non qua e là. I maestri della dottrina islamica hanno il compito di interpretare la parola di Dio rivelata al suo profeta. Lo fanno attraverso una minuziosa casistica. Un eminente sheick risponde così alla domanda se si debbano picchiare le mogli: "Allah ha permesso di picchiare piano le mogli quando superino i limiti imposti da Dio per tutelare i diritti dei mariti, ma non ha mai permesso di picchiare duro. Siccome Dio ha fatto gli uomini superiori, e sono gli uomini a pagare di tasca loro, essi sono responsabili delle loro mogli. Se si tema che rifiutino di obbedire, per prima cosa bisogna ammonirle, poi non dividere più il letto con loro, infine picchiarle - ma piano. L'Islam proibisce però di picchiare la moglie in qualunque momento e per qualunque ragione". Si capisce che una così scrupolosa regolazione sarebbe superflua se si fosse riconosciuta la parità di diritti fra uomini e donne, e se picchiare la moglie fosse diventato un tabù, se si dicesse semplicemente: "E' vietato alzare le mani sulla propria moglie". (Intendiamoci, anche da noi ci ha messo un bel po' a diventare quasi un tabù, e universale è la massima secondo cui se torni a casa e picchi tua moglie, lei saprà sempre perchè). Caratteristico del tabù mi sembra appunto questo: che "non si dice", cioè che l'azione messa al bando diventa innominabile e indiscutibile. Non è più sottomessa alla domanda: "Perchè?" Perchè no. Rimettere in discussione un tabù vuol dire farlo a pezzi. Vale per l'atomica, che stava per farcela a diventare un tabù, ed è ritornata alla casella di partenza, anzi più indietro, perchè lo spavento di Hiroshima non è più così prossimo e schiacciante. Vale per la pena di morte: dove è stata rifiutata, si ha paura e vergogna di rimetterla in discussione. Questo rende così stridente la discussione fra cittadini di paesi in cui la pena di morte è stata espulsa dalla coscienza comune e cittadini di paesi in cui è in vigore. I primi sentono di scendere a un compromesso con se stessi, avanzando le loro ragioni: perchè non solo della ragione si tratta, ma di un gradino da superare nel fondo della propria coscienza. Qualcosa, che è stato accettato senz'altro ed è diventato un'abitudine ormai inavvertita per tanto tempo, improvvisamente ripugna, al punto che non si capisce più come fosse possibile, che cecità ci abbia impedito di vedere: eppure era così chiaro. E' un bene che negli Stati Uniti si dimostri l'inefficacia deterrente della pena di morte, o la percentuale terribile di errori giudiziari.: tuttavia non sarà questo a far superare il gradino. Ci sarà qualcosa, avrà a che fare con la coscienza e con la pancia insieme, sarà come per il cannibalismo: un giorno il boccone andrà per traverso. La mano del boia si fermerà, e lui stesso non saprà spiegarsi come abbia potuto, fino al giorno prima, stringere quel cappio, premere quel pulsante.

La tortura è un tabù. Non importa che obiettiate che viene praticata in decine di Stati, come documenta Amnesty; e anche da noi, denunciata qualche volta, taciuta per lo più. E' un tabù: anche ammesso che la si faccia, non si può dirla. Non poter dirla non è un'ipocrisia, è la moralità della legge. Ma non dirla vuol dire anche non discuterla. Il tabù preferisce, e vorrei dire pretende, di essere comunicato e introiettato "perchè sì" e "perchè no". Non appena una voce riconoscibile, riconosciuta, rimetta in discussione la cosa, il tabù va in frantumi. Allora la discussione non dev'essere tenuta nella mezza misura degli aggiustamenti e delle reciproche concessioni, nello sforzo di salvare il salvabile. Bisogna discuterne come se fosse la prima volta. Senza testi sacri nè codici vigenti. Tutto daccapo. Un editoriale sul Corriere della Sera può bastare a provocare questo ritorno alla casella di partenza. Bisogna accettare di tornarci, e spingere chi ha rotto il gioco a tornarci anche lui, e a non illudersi di potersi fermare alla sua mezza strada. Partenza falsa, si torna ai blocchi. Non si rimprovererà all'autore del ripensamento di aver detto quello che ripensa: piuttosto, di essersene troppo presto ritratto, e di far passare una simile sfida per poco più che uno scherzo, o un espediente retorico. Così ha fatto Panebianco, che ha scritto di aver solo sollevato "un'ipotesi di scuola, utilizzata per fare scandalo". No: bisogna accettare un prezzo più salato. E, tanto per cominciare, rispondere alla domanda: potrei essere il torturato? E alla domanda: potrei essere il torturatore? E' sorprendente la tranquillità con cui la gente si dichiara contraria o favorevole alla pena di morte come se potesse capitarle solo di condannare qualcuno a morte, o no: e mai di essere condannata lei. Eppure è un'esperienza cui dovrebbe pensare, dal momento che successe anche a Gesù Cristo. (Stento a dire che si può resistere alla tortura: è probabile che abbiamo ciascuno una soglia. Molti fra i più coraggiosi, per non cedere, si ammazzarono). La tortura, che ottenga o no la confessione o la delazione cui dice di mirare, ottiene comunque sempre di rendere il suo autore un torturatore, cioè una specie infame di cittadino, e di macchiarne l'intera comunità che l'ha delegato. Questo può sembrare un argomento secondario, o laterale, solo a chi non sappia davvero mettersi nei panni altrui, e dunque accettare di conoscere se stesso. L'esperienza delle persecuzioni, dei pogrom, dei linciaggi, dei collaborazionismi mostra quanto valga questo lato della questione, come si possa perdersi nella sfrenatezza del possesso dei corpi nemici.

Dunque bisogna lasciare da parte le dichiarazioni di principii e le proclamazioni di diritti e le interdizioni. E' tutto scritto, tutto in vigore -ma non vale più. Sospeso, fino a nuovo ordine. Beninteso, non è un articolo, e nemmeno tre articoli, di Panebianco a provocare questa retrocessione. La cosa è nell'aria, la tortura is in the air, ev'rywhere I look around. Dalla prima "provocazione" di Alan Dershowitz alle ammissioni di Bush sulle carceri segrete, se ne è fatta di strada. "Il mio vero argomento -si corresse poi Panebianco- riguardava lo 'stato d'eccezione' ". Viviamo in uno stato d'eccezione permanente -cambia solo il grado dell'allarme. Dobbiamo definire la tortura, e intanto separarla dal caso che chiamiamo legittima difesa o stato di necessità -ne ha scritto qui Zagrebelsky. Gli esempi che ipotizzano una situazione in cui sai con certezza che la confessione di un prigioniero nelle tue mani salverà delle vite sono troppo comodi. Da una parte, toccano la legittima difesa. Dall'altra, chiamano in causa un male minore, cui puoi sottometterti, assumendotene la responsabilità personale, compreso il prezzo da pagare in termini morali e penali. L'esempio è così singolare da impedire di costruirci su un sistema. Oltretutto, questo genere di esempi trascura un punto essenziale per la definizione della tortura: cioè la larga parte, e spesso la sola, che vi prende la gratuità, come ad Abu Ghreib. Si dispone del corpo altrui e lo si tormenta per il piacere di farlo.

Prendiamo la più autorevole definizione giuridica disponibile di tortura. "Qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze, fisiche o mentali, con l'intenzione di ottenere dalla persona stessa o da un terzo una confessione o un'informazione, di punirla per un atto che lei o un'altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorire o costringere la persona o un terzo, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi altra forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenza siano inflitte da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito". (Onu, 1984). Scrupolosa com'è, la formulazione conserva una inevitabile vaghezza. "Dolore o sofferenze, fisiche o mentali": ma quale grado di dolore, quale intensità delle sofferenze? Le manette ai polsi, la reclusione in una camera di sicurezza, o in galera, provocano dolore e sofferenza, fisica e mentale, e tuttavia non sono -tecnicamente almeno- tortura. Dov'è il discrimine fra non-tortura e tortura? La logica si è sempre cimentata con la difficoltà, se non l'impossibilità, di fissare un limite esatto e riconoscibile entro eventi caratterizzati dalla continuità e dalla vaghezza. Dov'è che un colore sfuma in un altro colore? Dove finisce la notte e comincia il giorno? Questione di vita e di morte, appunto: dove finisce la vita, e avviene la morte? (O, ancora più drammaticamente, dove comincia la vita?) A interrogativi come questi la logica e la matematica offrono tanti tentativi di risposta. La pratica risponde invece con una misura di arbitrio: si fissa per convenzione una soglia. Si dà un taglio. La convenzione arriva di norma attraverso la casistica, che immagina la scomposizione della continuità nel maggior numero di variazioni possibili. La proposta di introduzione del reato di tortura nel codice italiano (2001: tuttora inattuata) argomenta così: "È difficile esplicitare esaustivamente il contenuto del reato di tortura. Proprio per evitare operazioni ermeneutiche che ne ridimensionino la portata, è necessario procedere ad una elencazione casistica, seppur non omnicomprensiva, delle fattispecie...". Antonio Cassese, già presidente del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti" (titolo così lungo da segnalare la complicazione) con un battagliero ottimismo scrive: "È stato facile stabilire un primo punto fermo: cosa debba intendersi per tortura. Su questo punto ci soccorrevano la storia, gli scritti dei grandi illuministi (Verri, Beccaria, Voltaire, Manzoni), le letture recenti (ad esempio, 'La Question' di Henri Alleg, o 'La confessione' di Arthur London); ci sono state di grande aiuto anche le sentenze della Corte europea sui diritti dell'uomo (ad esempio quelle sulle cosiddette tecniche di aiuto all'interrogatorio, usate dagli inglesi nell'Irlanda del Nord), o il rapporto della Commissione europea sui diritti dell'uomo nella Grecia dei colonnelli...". In realtà la partita è difficile. L'ostinato e spietato tentativo dell'Amministrazione Bush di garantirsi mano libera nel trattamento dei prigionieri gira attorno al massaggio della definizione di tortura. "La tesi di Washington non è che i prigionieri /in Iraq, o in Afghanistan, o a Guantanamo/ non siano stati e non siano tuttora maltrattati, ma che questi abusi non si possano definire torture. La definizione di questi maltrattamenti è, in realtà, molto ampia: comprende la deprivazione sensoriale, il legare i prigionieri e appenderli in posizioni estreme, e infine il cosiddetto waterboarding. La testa del prigioniero viene ripetutamente immersa nell'acqua e tenuta così fino a un istante prima dell'annegamento... L'amministrazione Bush ha scelto due argomenti, uno giuridico e l'altro utilitaristico. Il primo è che secondo la definizione della Convenzione internazionale sulla tortura, si può chiamare tale solo un trattamento che ha per esito la morte o lesioni permanenti e invalidanti. Quindi il waterboarding, o pratiche anche peggiori, sono solo 'trattamenti crudeli, disumani e degradanti'..." (David Rieff, 2005)
"Donald Rumsfeld ha presentato una lista di 24 tecniche di interrogatori, poi ridotte a cinque. Sono queste: beni di conforto usati come incentivi per parlare; esposizione a temperature estreme, privazione della luce e stimolazione dell'udito; alterazione dell'ambiente attraverso il cambiamento della temperatura e la diffusione di cattivo odore; cambiamento dei cicli di sonno dalla notte al giorno (ma non privando del sonno); isolamento dal gruppo. Secondo l'Onu queste tecniche si qualificano come tortura perché intenzionali, compiute da ufficiali governativi su detenuti senza potere e finalizzate a ottenere informazioni". (Nel sunto di Christian Rocca, Il Foglio, febbr.2006). Bush ha appena ridetto che le tecniche di interrogatorio della Cia, nelle sue prigioni segrete, sono "dure, ma non sono torture".

Dunque il mio amico dice: se entri nella casistica, non ne esci più. Quello che va negato, dice, è l'esistenza della guerra. Tesi che ha due punti deboli, credo. Il primo, che quando comunque alla guerra, allo stato d'eccezione si arrivasse, non ci sarebbe più argine all'arbitrio, e la tortura, e qualunque altro crimine contro l'umanità diventerebbe lecito. Ma non abbiamo proprio per questo coniato la fattispecie dei crimini di guerra? Il secondo, che non si può regalare per intero la casistica all'arbitrio, cioè al relativismo assoluto, per così dire. C'è un punto, dico, in cui il dolore inflitto diventa tortura. Il mio amico esclama: "Ma è il paradosso del sorite!" Sono andato a ripassarlo. Il paradosso del sorite (da soros, mucchio, l'autore si chiamava Eubulide) ha due versioni. La prima è quella del mucchio di sabbia. Un granello di sabbia non è un mucchio. Due granelli, nemmeno. Tre granelli, nemmeno. E così via. Aggiungendo un granello alla volta, non si arriverà mai ad avere un mucchio di sabbia. Oppure, alla rovescia: se togliete un granello a un mucchio di sabbia, resta un mucchio, due granelli eccetera. Anche quando sarà rimasto un solo granello, sarà sempre un mucchio. La seconda versione è più interessante, ed è quella che il mio amico aveva in mente: il paradosso del calvo. Se togliete un capello dalla folta chioma di qualcuno, non diventa calvo. Un secondo capello, e nemmeno. Un terzo, e neanche. Potete togliergli, uno alla volta, fino all'ultimo capello, e non sarà mai calvo. I logici propongono soluzioni diverse, a volte più ingegnose ancora del paradosso. I problemi logici hanno un rapporto piuttosto indiretto con la pratica. Nella pratica, Achille sorpassa la tartaruga con un solo balzo: è seccante ammetterlo, ma è così. Per la logica -disciplina cui Bush e Rumsfeld sono a loro modo devoti, a proposito degli interrogatori ai prigionieri- il dolore e la sofferenza del prigioniero o dell'interrogato non diventano mai tortura, basta aggiungerne un granello alla volta. Ma è proprio il paradosso del sorite sulla calvizie a mostrare la soluzione. Basta accomodarsi dalla parte del torto, cioè di quello che le busca. In questo caso, dalla parte di uno cui vengano, in un apposito scantinato con la luce puntata negli occhi, strappati i capelli. Il sorite non pensava certo alla tortura: ma il suo esempio la descrive. Più precisamente, diventa tortura a un certo punto. Non importa che io abbia difficoltà a fissare teoricamente quel punto, a calcolare il numero di capelli oltre il quale siamo nel territorio vietato della tortura. Praticamente, lo so con certezza, ed è un punto piuttosto vicino all'inizio. Non vi dirò quando sono diventato calvo, ma che vengo torturato sì. Molto prima di perdere l'intero scalpo. (Viene in mente l'espressione: "Non torcere nemmeno un capello). Prendendo su me l'arbitrio di dare un taglio nella continuità e nella vaghezza della sottrazione capello per capello, dirò che strappare i capelli a un prigioniero è tortura. Vi sembra un'illazione troppo arbitraria? Provate! Siamo abituati a usare l'espressione, spogliata di ogni legame con la situazione materiale originaria: "Ma è una tortura!" Questa anestesia non ci impedirà affatto, una volta che tocchi a noi, di sapere, di sentire con sicurezza che cosa è tortura. Questa chiarezza appartiene tanto al torturato quanto al torturatore. Sto parlando di un uomo nudo, inerme, legato, mentre gli immergono la testa nell'acqua, o gli strappano i capelli dalla testa, o gli fanno mordere i testicoli da un povero cane incattivito.

Qualche anno fa, in un articolo sull' "Italia di don Abbondio", scrivevo: "Si torna sempre alla 'zona grigia': formula chiamata prima a descrivere una complicità ripugnante con gli aguzzini, passata poi arbitrariamente a designare la vita comune e renitente alle invadenti coscrizioni della storia e via via aggiustata fino a capovolgersi - troppa grazia - in una categoria positiva, a preferenza delle scelte di aperta resistenza". Direi a Panebianco che della sua sortita sulla tortura, non mi ha colpito tanto la "provocazione" sulla guerra non riconosciuta, quanto la conferma di un'affezione per la "zona grigia". La quale è il vero cuore dello stato d'eccezione, dello stato di guerra. Il genio di Primo Levi, e la sua esperienza della tortura, la tortura non come metodo di interrogatorio, ma come sistema sociale, hanno permesso questa scoperta. "I sommersi e i salvati" è un memorabile trattato sulla zona grigia. A suo modo, è anche questo un paradosso: che una forma di vita ambigua, opaca, "turpe e patetica", alligni dentro la condizione estrema. Ora, non me ne voglia Panebianco, io sospetto una affinità fra la zona grigia e il "terzismo". La zona grigia sta alla guerra e al lager come il terzismo sta al confortevole tempo di pace. Il trasparente bersaglio di Panebianco era il legalitarismo dei magistrati che indagano sul rapimento di Abu Omar da parte della Cia e del servizio italiano. Mi pare difficile sostenere che non si sia trattato di un sequestro di persona. Diffido anch'io di quello che Panebianco chiama il feticismo della legalità: per intenderci, la trasformazione della legalità, da condizione necessaria della convivenza civile, in surrogato della politica e non di rado della stessa umanità. Vedo anch'io che la caduta di un'identità costruita sull'invenzione del Nemico si traduce a volte nella negazione dell'esistenza del nemico in carne e ossa. Ma l'approdo di Panebianco è questo: "...Quando è in gioco la sopravvivenza della comunità... deve essere ammessa l'esistenza di una 'zona grigia', a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi". In un secondo intervento, Panebianco ha ribadito la sua idea sulla "zona grigia". Che, nella sua accezione, è diventata il territorio in cui, esonerati dalle regole dello Stato di diritto, i protettori della sicurezza comune agiscano spregiudicatamente e arditamente. Non si capisce perchè, se questa sia la situazione, lo Stato di diritto non possa riconoscerla e regolarla. Succede anche, tortuosamente, negli Stati Uniti. Non si capisce perchè andare all'assalto del prezioso e fragile tabù della tortura, per dichiarare di fronte alle prime obiezioni che non c'entrava, e che era solo per fare scandalo. Nè perchè promuovere comportamenti e sentimenti da tempo di guerra, quando la guerra è, per fortuna nostra più che per merito, ancora lontana dalle nostre tavole. E quando le misure d'eccezione che dobbiamo essere capaci di prendere non hanno ancora il fine di farci più adatti alla guerra, ma di prevenirla.