Reykjavik sui cubi
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Dove accidenti sono finito, in un video di George
Michael? Un deejay con la frangetta scomposta cerca di fare il
suo lavoro divincolandosi dalla stretta di una ragazza molto
bionda che gli si è appesa al collo e che sbanda pericolosamente
contro la gran bolla di vetro viola che sorge dalla consolle.
Un tipo a cui mancano le ante e i cassetti si agita come un matto
sopra un cubo scandinavo, una ragazza giapponese con un cappello
da cowboy mi invita a salire sopra un banco assieme a lei e ad
altri tre esaltati, una bionda con gli occhiali da Charlie's
Angels e una canottiera bianca balla con le mani piantate contro
il banco del bar, cantando a squarciagola verso il barman nero
che sta lanciando una bottiglia di birra a una mora sui trampoli
in mezzo alla sala.
Sono in un fottuto video di George Michael, e mi sto divertendo
parecchio.
Quando vai a Reykjavik ti dicono due cose. La prima è
che è la città più cara del mondo. E tu
dici, vabbè, sarà come Londra, o come la Norvegia.
Non ci siamo capiti. Reykjavik è la città
più cara del mondo. Dieci minuti di taxi costano trentamila
lire, un hamburger quindicimila, una rivista ventimila. Tutto
o quasi è importato, e questo è il risultato. La
seconda cosa che ti dicono è che a Reykjavik c'è
la vita notturna più vita notturna del mondo. Reykjavik
nightlife, dicono le guide. Reykjavik nightlife, dicono le riviste.
Reykjavik nightlife, dicono quelli che ci sono stati. E tu dici,
vabbè, sarà come Parigi, o Siviglia, o Tallinn.
Non ci siamo capiti.
Quando scendi dall'aereo e sali sul taxi, il tipo ti squadra
e domanda "Sei venuto per la nightlife?". È
un tassista antropologo, "O venite per la wildlife o per
la nightlife, e lei non ha le scarpe da trekking e non ha lo
zaino". La compagnia aerea locale ha delle tariffe che
si portano fin qui pacchi di giovani americani, ma anche inglesi
e tedeschi, che si fanno un weekend di montagne, o uno di locali,
o l'uno e l'altro, e dopo possono anche partecipare alle olimpiadi.
A un certo punto dello scorso decennio, non si sa come, Reykjavik
si convinse di essere una città dalla vita notturna scatenata.
Le cose, se ci credi, succedono (Altobelli, che era una schiappa
formidabile, si convinse di essere fortissimo e diventò
fortissimo) e presto cominciarono a sbarcare rockstars, modelle,
set fotografici. Tutto fu pompato ben bene, Bjork e le luminose
notti estive aiutarono, e così nacque la Reykjavik nightlife.
Ma se la guardi la mattina, Reykjavik ti frega. Nella capitale
dell'Islanda ci stanno 170 mila persone, come a Livorno (l'Islanda
in tutto ha 260 mila abitanti, meno della provincia di Livorno).
Una cittadina dolcemente distesa su lievi declivi davanti alla
sua baia, con i suoi sobborghi, più estesa di Livorno
perché qui una casa di tre piani è considerata
alta. Non granché bella, se non fosse per mari e montagne
tutto intorno e una manciata di casette pittoresche e colorate
in centro. E il laghetto centrale ghiacciato fino ad aprile,
dove starnazzano ininterrottamente centinaia di cigni e anatre,
alla faccia del freddo e di quelle vigliacche di Central Park
(e forse sono le stesse, il che spiegherebbe molte cose, altroché).
Un corso principale con tutte le vetrine, un centro commerciale
più in periferia. Tempo variabile, continuamente: "se
non ti piace il tempo, aspetta cinque minuti", dice una
logora battuta locale. La gente cammina su e giù per il
corso - suono di sottofondo, ruote chiodate sull'asfalto - e
tutto sa di isolamento vero (l'Islanda è il paese più
isolato dell'Occidente) ma senza complessi: siamo in capo al
mondo e ce la caviamo benone, grazie. Sa anche di posto di donne:
anche se il presidente della repubblica ora è di nuovo
un uomo, la sensazione è che quelle che comandano siano
loro, a vederle in giro, saranno anche le facce adulte e forti:
gli uomini sembrano ospiti con le pattine. In Islanda una percentuale
pazzesca di bambini (quasi il 70%) nasce senza che i genitori
siano sposati, ma il tasso di natalità è bassissimo.
Sarà, allora devono aver cambiato abitudini nei mesi scorsi:
in un giorno conto quarantasette passeggini, di cui uno matrimoniale.
Ma qui i bambini se li portano fuori tutto il tempo, alla faccia
del freddo: a Reykjavik non esiste l'inquinamento atmosferico.
E la città è piena di locali decisamente hip (si
dice così, pare che "trendy" sia passato di
moda). Prendi un caffè e pensi che ti vedrai su Wallpaper
del mese dopo. A volte li scambi per saloni di parrucchieri
e spesso lo sono, c'è pure una scuola in cima alla salita
- quieti, spogli, luminosi, minimali, covano. Covano. Perché
tu non lo sai ancora, ma il venerdì pomeriggio, a Reykjavik,
sta per succedere qualcosa.
Cominci a bere verso le sei: gli islandesi si portano avanti
a casa loro, o da amici, con quello che costa una birra è
meglio organizzarsi (e fino a dodici anni fa c'era il proibizionismo).
Dalle nove in poi sul corso si srotolano colonne di auto e pedoni
che cominciano il giro, ma il runtur vero e proprio (il
pub crawling, lo chiamano gli inglesi) parte tra le dieci
e le undici. I quieti locali del pomeriggio sono gremiti, la
gente parla e ride così forte che la musica non si sente.
Bar, caffè, birrerie, discoteche, sono praticamente tutti
nel giro di cento metri intorno al corso, una buona ventina,
e le strade sono affollate da giovani andature in progressiva
trasformazione. Quando saranno le quattro, sarà difficile
vederne uno che cammina dritto, anche perché dovrà
scansare i cocci di vetro disseminati su tutti i marciapiedi.
La prima vittima, giovane assai, la incontro prima di mezzanotte:
sta appoggiato al muro fuori dal Gaukur à Stöng e
i suoi amici cercano di spiegargli chi è. Dentro già
ballano, mentre all'Astro lì dietro stanno
appena aprendo le porte alla fila in attesa. C'è un distributore
automatico di gomme americane, profilattici, lecca lecca, macchine
fotografiche usa e getta e dentiere da vampiro fosforescenti.
Al Kaffibarin un ragazzo indiano ubriaco mi spiega che non c'è
abbastanza gin nel mio gin tonic e se lo porta via per andare
a discutere con la ragazza del bar: meglio, grazie a lui starò
in piedi una mezz'ora in più. L'avrò letta sei
volte questa stronzata che un socio di questa bettola era Damon
Albarn dei Blur, e alla fine ci avrei anche creduto se non fosse
stato per Luca Rastello il mio consulente di cose islandesi
- che mi ha spiegato che è una balla inventata dal proprietario
d'accordo con Damon Albarn, che ogni tanto ci capita. Metà
di quelli che sono pigiati qui dentro parla inglese, e vengono
da qualsiasi posto. Gli islandesi parlano inglese anche loro
come se niente fosse. Il deejay si ostina a mettere dischi malgrado
il posto sia grande in tutto sei metri per sei, banco, tavoli
e una trentina di persone compreso lui. Per dargli respiro, mollo
l'indiano e me ne esco. E me li faccio tutti, uno per uno. Al
Vegamót una ragazza con grossi problemi di stabilità
e di alito mi parla di suo marito: se ne è andato dicendo
di non sopportarla quando è ubriaca. Lei non è
ubriaca, naturalmente, e infatti mi racconta tutta la trama della
Febbre del sabato sera. Quando sta attaccando con Grease, decido
di cambiare locale. Per strada una dozzina di ragazzi sono ancora
sobri abbastanza da giocare una vera partita di pallone con una
bottiglia di plastica. Passano due in una Golf con le casse montate
sopra il tettuccio e gridano qualcosa, ma la musica è
così forte che nessuno se li fila. Sono quasi le due quando
arrivo all'Astro, progettato dal designer inglese Michael Young,
dove si fa salotto in due grandi sale una sopra l'altra e si
balla in una terza. Eccome se si balla, e il genere è
quanta-bella-gente. Come in un fottuto video di George Michael.
Alle tre passate giro l'isolato ed entro al Thomsen, meno affollato.
"È un po' presto, la gente qui viene dopo le quattro".
Per strada, è ancora pieno di viandanti come se fosse
capodanno. Ci dovrebbero fare una storia di Asterix, a Reykjavik
- "Asterix e l'Islanda" con Obelix che si guarda
in giro mentre tutti ballano sui cubi di ghiaccio e dice "sono
pazzi questi islandesi". Non fosse che qui, ai tempi di
Asterix, non c'era anima viva. Mi passa davanti una limousine
lunga come un peschereccio dai cui finestrini si sbraccia una
bionda che avevo già visto al Rex, seguita da una telecamera.
La limo è targata R-O-Y-A-L, roba che neanche Puff Daddy.
È il paese dei balocchi, e io ho esagerato con i gin tonic.
Così mi siedo su un gradino a guardare quelli che sono
saliti sul tetto accanto all'Astro, tre tizi in maniche di camicia
alle cinque del mattino di un inverno islandese. Se loro sono
sul tetto, allora io posso costeggiare il lago senza finirci
dentro e arrivare in albergo. Domani sarà sabato sera,
e ho appuntamento con la cowboy giapponese all'Astro, verso le
tre. |