Metà dell'opera

Luca Sofri
Micromega, maggio 2008

 

Perse. P-E-R-S-E. Il partito Democratico le elezioni le ha perse. Questo è un dato difficilmente discutibile, no? Possiamo allora mettere a verbale ciò che è avvenuto e cominciare ad analizzare ciò che è, e cio che avverrà.
Se un giovane studente di un paese straniero volesse capire il quadro politico italiano, senza saperne niente, oggi la prima cosa che noterebbe è una bizzarria a destra, non a sinistra. L'Italia, penserebbe lo studente Alex, pare a prima vista funzionare intorno a un sistema bipolare, con i tre quarti dei voti spartiti tra due grandi partiti, uno di sinistra e uno di destra. Ma mentre a sinistra un solo grande partito rappresenta gli elettori in parlamento, a destra il bipolarismo appare incompleto. Accanto al PdL ci sono una rappresentanza cospicua come quella della Lega e un piccolo partito di centrodestra come l'UDC (alleato fino a ieri del PdL). Dopo averne letto programmi e promesse, allo studente Alex verrebbe da definire di destra anche il partito che si chiama Italia dei Valori (guidato da un uomo che fu a suo tempo corteggiato dal partito di Berlusconi, scopre Alex), ma resta un po' spaesato dalla sua alleanza con il PD. Quello che Alex conclude è che a destra tre o quattro partiti si dividono la rappresentanza in parlamento; a sinistra gli elettori si sono associati in un grande partito del genere di quelli delle maggiori democrazie occidentali. E quello che conclude Alex deve essere chiaro anche a noialtri quaggiù.
Questa metà dell'opera è una grande vittoria per i bipolaristi e un grande smacco per la destra: è andata a finire che i primi a costruire un polo in tutto e per tutto simile a quello che è protagonista per esempio della politica americana - tanto ammirata dai bipolaristi - e persino con lo stesso nome, sono stati quelli di sinistra. A destra, un partito Repubblicano ancora non c'è.
Molti hanno criticato - con atteggiamenti che spesso sono suonati ipocriti o coccodrilleschi - il risultato che esclude la “sinistra antagonista”, o come la vogliamo chiamare, dalla rappresentanza parlamentare. È una grande sconfitta per la democrazia eccetera. Ma sono legittimati a questo rammarico solo coloro che si dicono da sempre proporzionalisti, e non sono sembrati molti in questi anni. Non si può certo aderire a un progetto che vuole limitare cespugli, poteri di ricatto, ostacoli alla governabilità, attraverso la formazione di grandi partiti all'europea e leggi elettorali conseguenti - con sbarramenti richiesti a furor di popolo - e poi rammaricarsi se questo progetto va in porto e gli sbarramenti ottengono il loro risultato. Ciò che ha escluso la Sinistra Arcobaleno dal parlamento è il non aver ottenuto voti sufficienti a entrarci, non altro: e questo è piuttosto democratico, non antidemocratico. A meno di non essere per il proporzionale assoluto, ma forse bisognava dirlo prima.
Ho sentito in queste settimane girare la domanda “come ricostruire la sinistra, dopo il voto?”. La risposta è che la domanda è sbagliata: la risposta è che la sinistra del futuro è stata costruita esattamente il 13 aprile, finalmente, dopo anni di “sinistre”. Quello che abbiamo oggi a sinistra è un partito - e un leader - che ha convinto il 33% degli elettori a sostenerlo e votarlo: si è trattato di un vero e proprio referendum a sinistra sulla creazione di un'unica forza politica o no. Hanno votato contro il 3 e mezzo per cento e una manciata di astenuti: si prenda atto rispettosamente del loro dissenso, ma la loro mozione è dichiarata sconfitta. Da lunedì 14 aprile, la sinistra italiana ha deciso a maggioranza schiacciante di avere un solo grande partito, ed è il Partito Democratico.
Adesso, come non vi sfuggirà, questo non risolve le cose. C'è quel dettaglio di aver perso le elezioni, e di essere quindi, nel paese, minoranza. Perché un partito capace di attrarre quasi tutti gli elettori di sinistra ne abbia guadagnati all'apparenza pochissimi o nessuno da fuori della sinistra è materia su cui si sono esercitati in molti. Per quanto la formula inclini sgradevolmente verso il capro espiatorio, è senz'altro vero che i due anni di governo Prodi sono equivalsi alla casella del gioco dell'oca che dice “torna indietro di venti caselle”. E il capro se l'è un po' andata a cercare. Con un meccanismo psicologico occhettiano e comprensibile Prodi continua a esibire rivendicazioni di orgoglio, ma di certo la formula per cui lui avrebbe “battuto due volte Berlusconi” si rovescia in un significato opposto a quello preteso. Quello che è successo è che per due volte il voto seguito a un governo Prodi ha premiato Berlusconi: quello che è successo è che malgrado cinque anni di catastrofica maggioranza berlusconiana, Prodi è riuscito a vincere per il rotto della cuffia; mentre sono bastati due anni di governo Prodi per far stravincere Berlusconi. Naturalmente non è solo di Prodi che si parla (malgrado l'incanaglita antipatia che si è conquistato a destra sia straordinaria e simmetrica a quella guadagnata da Berlusconi a sinistra), ma di quello che i due anni di quella maggioranza hanno costituito in termini di caselle da recuperare. Considerato questo quadro, è ancora più apprezzabile il risultato di un partito nuovo che veniva costruito controcorrente mentre tutti scappavano dalla sala il giorno dell'inaugurazione.
Ma le venti caselle punitive non devono diventare un alibi. Né deve diventarlo la fedeltà ai valori della sinistra che impedisce di andare a sottrarre elettori alla destra con gli stessi argomenti della destra. Proprio su questa strada da lui stesso giustamente rivendicata (“meglio perdere che perdersi”) Veltroni ha rischiato qualche volta di deragliare. Ancora pochi giorni prima delle elezioni, per fare un esempio, ha annunciato la sua opposizione all'abolizione dell'ergastolo, in un impeto di giustizialismo benpensante (bisognerebbe ricordargli che l'ergastolo è palesemente in contrasto con la funzione rieducativa della pena, e il principio del diritto al reinserimento nella società). E qualche settimana prima Veltroni aveva richiesto l'applicazione della custodia cautelare per un reo confesso di un delitto particolarmente spaventoso, ma in assenza di ogni ragione giuridica per la custodia cautelare e in spregio all'idea che ognuno sia da ritenersi non colpevole prima di un regolare processo. Ancora più sono sembrate inutilmente demagogiche simili estemporanee prese di posizione data l'alleanza con l'Italia dei valori a cui poteva essere appaltata l'esclusiva carcerario-giustizialista dell'alleanza.
E se è lecito maramaldeggiare un po' col senno di poi, l'alleanza con l'Italia dei valori ha finito per risolversi in una vistosa smentita alla dichiarazione eccezionale che il PD si sarebbe presentato da solo, e in un'imbarazzante conflitto di comunicazione: con Veltroni che prometteva il gruppo unico parlamentare e Di Pietro che lo negava. In cambio di niente: Veltroni ha corso questi rischi scommettendo sul ritorno in vittoria elettorale, ma gli è andata male e adesso è legittimo chiedergliene conto.
Ma la colpa più grave di Veltroni risale a più di due anni fa, ed è di essersi chiamato fuori dalla scelta per il candidato leader del centrosinistra alla fine del mandato Berlusconi, lasciando agli elettori l'unica scelta di Prodi, ovvero quanto c'era di più lontano dall'idea di un rinnovamento politico e umano che sarebbe stata poco dopo alla base della nascita del Partito Democratico. DS e Ulivo vollero tirare la corda della pazienza degli italiani ben oltre il punto di rottura: consegnarono agli elettori la candidatura di un leader quasi settantenne e che era lo stesso di dieci anni prima. Col ribollire della richiesta di rinnovamento pronta a esplodere nell'anno della “casta”, pensarono di poter pigramente rifilare agli italiani di sinistra la stessa classe dirigente di sempre e gli stessi conflitti interni e disastri di immagine e comunicazione. E Veltroni consentì tutto questo, sottraendosi e annunciando la sua Africa, che sia stato per scarso coraggio o per calcolo. Ma tutto questo gli si è ritorto contro per sua stessa responsabilità, ed è una responsabilità pesantissima per tutta la classe dirigente di DS e Margherita: non aver fatto due anni fa quello che le loro menti scellerate e non lungimiranti rimandarono a quando i buoi erano già al check-in con le valigie e la carta d'imbarco. Non aver fatto il Partito Democratico quando avrebbe salvato capra e cavoli (due anni dopo ci siamo giocati i cavoli).
Certo, poi le cose non sono mai così semplici. Sarebbe bello pensare che tutti i voti guadagnati da Veltroni si devono alla sua iniziativa rinnovatrice, modernista, propositiva, visionaria, e quelli persi alle sacche di resistenza apparatistiche e agli sventati passi indietro come la candidatura Calearo o le indulgenze nei confronti dei bigottismi à la Binetti (il cui ritorno elettorale, che ne sarebbe stato una povera legittimazione, si è rivelato nullo). Ma non è così. Il PD è ancora forte e ha vinto in Toscana, in Emilia, dove gli spazi di cambiamento erano stati minori. Le cose sono complicate.
Quello che è chiaro, alla fine, è che in un solo match il PD ha conquistato il titolo di sfidante e ha perso il titolo mondiale. Adesso ha davanti cinque anni per prepararsi meglio a vincere il prossimo, di titolo mondiale. Meglio come?
Veltroni sembra avere due debolezze di fronte alla sconfitta. Una è che non si è creato dei complici, e se vincere da solo è più eroico e spettacolare, perdere da solo è rischiosissimo. Può darsi che questa volta la qualità del risultato e l'inesistenza di una vera opposizione alternativa lo proteggano da attacchi e rese di conti. Ma non succederà al prossimo inciampo. Il leader del PD deve forzare le sue abitudini e costruire intorno a sé una nuova classe dirigente capace e fedele, investendo su spessori e capacità maggiori di quelle che hanno mostrato finora i giovani che ha portato in parlamento. Se è lecito - ma non inevitabile - pensare che Veltroni possa essere ancora il candidato del PD tra cinque anni, è impensabile che gli altri maggiori esponenti del partito siano ancora i vecchi dirigenti di DS e Margherita. L'altra debolezza del Veltroni sconfitto è che non lo sa fare, lo sconfitto. La disinvoltura con cui ha interpretato il ruolo entusiasta e vincente della campagna elettorale è sembrata svanire nei giorni dopo il voto: è stato prima assente, e poi in cerca di piccole minacce di rivalsa o auspici di sventura per gli avversari vittoriosi. E allora è proprio il ruolo che sa interpretare meglio quello in cui deve rientrare immediatamente: avviando subito la campagna elettorale del 2013. Andando a lavorare dove il PD ha perso, continuando ad annunciare e proporre per il futuro quello che avrebbe voluto costruire da oggi. Recuperi al PD le capacità e le duttilità rese orfane dalla fine della Sinistra Arcobaleno, come quelle di Nichi Vendola. Vada due mesi nel Veneto, quattro a Milano, stia in Sicilia, a Napoli. Disegni soluzioni e proposte alle domande di sicurezza economica e sociale che siano più solide delle promesse estemporanee delle ultime settimane, lasci a Franceschini la guida dell'opposizione parlamentare, e faccia dell'Italia la sua Africa. Per i prossimi cinque anni lo slogan è “non si può fare altrimenti”.