Dove è finito Manute
Bol?
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Manute Bol. Alzi la mano chi
se lo ricorda. Beh, intanto anche così con la mano alzata,
voi quattro non gli arrivate alle spalle, a Manute Bol. E poi
se siete di Forlì non vale. Manute Bol a Forlì
ci ha passato solo qualche settimana nel 1996, ma se lo ricordano
tutti. E il magazziniere della squadra di basket romagnola, Enrico
Ricci si chiede, "dove sarà finito adesso Manute
Bol?".
Quando Manute Bol esordì
nell'NBA, era il giocatore più alto della storia del maggior
campionato di basket mondiale. Due metri e trentadue, così
magro che Woody Allen grande fan di basket diceva
che "quando giocano in trasferta, per risparmiare lo spediscono
via fax". Veniva dal Sudan dove era cresciuto, molto cresciuto,
guardando un gregge. A quindici anni uccise un leone, raccontano
le sue biografie. E la leggenda vuole che la prima volta che
schiacciò un pallone a canestro si ruppe un dente contro
l'anello di ferro. Fu scoperto da un osservatore di un college
americano e portato negli Stati Uniti. Arrivò che non
sapeva né leggere né scrivere, ma alla sua prima
stagione nell'NBA, nel 1985, stabilì un record che dura
ancora oggi stoppando 397 tiri diretti a canestro. Stava lì
davanti lungo lungo e non faceva passsare un pallone. Divenne
un personaggio: la storia, la figura, la dote fisica che ne faceva
un arma impropria per la difesa della sua squadra (in attacco
era più scarso, invece). Quando si ritirò nel 1995
aveva giocato con i Washington Bullets, i Golden State Warriors,
i Miami Heat e i Philadelphia 76ers. Tornò in Sudan, a
casa sua, ma un anno dopo l'allenatore di Forlì, Massimo
Mangano, lo volle in squadra. "Era un suo pallino",
spiega Mario Santarelli, allora vice di Mangano (morto di un
ictus pochi anni fa) e oggi ancora vice allenatore della squadra
romagnola in serie B. "Ci furono dei guai con l'immigrazione,
prima fu fermato in Egitto e quando arrivò a Fiumicino
io e Mangano dovemmo andare a prenderlo il giorno di ferragosto.
Non lo lasciarono passare fino a che non riuscimmo a far venire
apposta un funzionario del Ministero degli Esteri". Dopo
un primo periodo di grande entusiasmo e persino una sfilata con
la stilista Chiara Boni "arrivavano i telegiornali,
tutti parlavano di noi, lo notavano ovunque andasse, lo sponsor
era contento", racconta Santarelli la stanchezza del
giocatore emerse rapidamente. Era sempre forte nelle stoppate,
ma era diventato più lento, e gli attaccanti avversari
impararono a stargli alla larga. "Fu tagliato dopo due partite
e 11 punti e ripartì per il Sudan, non particolarmente
deluso: se lo aspettava", ricorda Santarelli. A Forlì
era venuto da solo, senza la moglie americana da cui si era separato
e senza i quattro bambini. Stava con i compagni e con il magazziniere
Ricci, che lo accompagnava al supermercato e in giro, o andava
a riparargli la lavatrice nella casa vicino all'aeroporto. La
squadra poi andò male, l'altro americano forte, Gerrod
Abram, si ruppe un ginocchio, e venne la retrocessione. Sono
passati sei anni, quella squadra non c'è più, ed
Enrico Ricci si chiede, "dove sarà finito adesso
Manute Bol?".
Al Cairo, Egitto. Manute Bol
è finito al Cairo. Di nuovo bloccato al Cairo a sperare
che il Dipartimento per l'immigrazione degli Stati Uniti lo faccia
tornare in America dai suoi figli. Ha 39 anni, stando ai documenti,
anche se la sua data di nascita non è mai stata certa.
Quando abbandonò Forlì e il basket, se ne tornò
in Sudan ricco e popolare. Con i 76ers aveva avuto un contratto
da un milione e mezzo di dollari e compensi pubblicitari miliardari
da Nike, Kodak e Toyota. Ma in Sudan le cose cominciarono ad
andar male. Bol distribuì denaro a tutti i suoi parenti
vicini e lontanissimi della tribù Dinka: centinaia di
persone molte delle quali bisognose d'aiuto. Pagava l'acquisto
di vacche, di greggi, pagava funerali, pagava affitti. E pagava
l'Esercito popolare per la liberazione del Sudan, impegnato in
una guerra civile con il governo di Khartoum che dura da diciotto
anni e ha fatto due milioni di morti. Il Sudan è diviso
tra una parte settentrionale di arabi musulmani e una meridionale
di neri cristiani e di altre fedi locali, perseguitati. I musulmani
al potere tollerano e sostengono le persecuzioni massacri,
schiavismo, allontanamento dai villaggi - nei confronti della
gente del sud e sono combattuti da gruppi ribelli, tra cui quello
a cui appartengono i Dinka. Ancora la settimana scorsa i ribelli
hanno attaccato un convoglio militare uccidendo un numero imprecisato
di soldati, all'indomani di una missione diplomatica dell'incaricato
americano, l'ex senatore Danforth. Bol aveva cercato di ottenere
sostegno alla loro causa in America, aprendo un ufficio dell'Esercito
popolare di liberazione a Washington. Una volta tornato in Sudan
continuò a sovvenzionare i ribelli, dando loro più
di 3 milioni di dollari. Ma quando nel 1997 appoggiò un
piano di pace offerto dal governo e rifiutato dall'Esercito popolare,
i suoi leader lo accusarono di aver tradito la causa. Rimase
presto senza soldi e con gli ideali esausti. La scorsa primavera
un giornalista del New York Times l'ha scovato in un appartamento
in affitto a Khartoum, qualche letto e nient'altro, con due mogli,
un bambino e quattordici parenti. Ha perso tutto quello che aveva,
gli investimenti americani sono andati male. "Voglio tornare
in America, rivedere i miei figli", ha detto. E lo scorso
luglio è riuscito a cogliere di sorpresa le autorità
sudanesi che lo controllavano e a salire su un aereo diretto
in Egitto insieme alla sorella piccola, alla moglie Ajok e al
bambino di due anni. Da lì sperava di raggiungere gli
Stati Uniti. Tra qualche anno potrebbe ottenere la pensione dell'NBA.
Ma l'ufficio di immigrazione americano è rigido: malgrado
l'insistenza sul Dipartimento di alcuni vecchi amici del Connecticut
e settimane di visite al consolato, non c'è stato niente
da fare. Fino a che non è arrivato l'11 settembre e le
cose sono addirittura peggiorate. Ora entrare in America per
quattro stranieri sudanesi senza un lavoro e senza una green
card è praticamente impossibile. Quindi Bol e i suoi sono
ancora al Cairo. "Sta diventando tutto un casino",
ha detto scorato ai giornalisti. Come se non bastasse, all'arrivo
al Cairo la sua valigia è andata persa, e trovare qualcosa
che gli andasse bene è stata un'impresa. A Forlì
i vestiti glieli faceva fare Chiara Boni.
Ecco dov'è Manute Bol,
ora che non serve più a nessuno. "Ma pensa",
sospira Ricci: "era un bravo ragazzo, una persona piacevole.
Mangiava sempre cosce di pollo e pomodori".
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