AI che scrive di Taylor Swift come se fossi io

Qualche settimana fa una mia amica quarantenne, madre di due figli, manager di un’azienda seria, mi ha spiegato con la serietà di un analista geopolitico perché dovevo assolutamente ascoltare l’ultimo album di Taylor Swift. Non per il piacere estetico, sia chiaro, ma perché “è un documento storico della nostra generazione”. Mentre parlava aveva gli occhi lucidi, come se stesse raccontando di un lutto o di una rivelazione mistica. Quello stesso sguardo che ho visto nelle facce delle dodicenni fuori dai concerti, e dei critici musicali che si affannano a spiegare perché Swift è in realtà la voce del nostro tempo.È da lì che ho capito che Taylor Swift non è un fenomeno musicale: è un’operazione industriale di produzione di nostalgia in tempo reale. Il primo esperimento riuscito di fabbricazione su scala globale di ricordi condivisi per persone che non hanno più l’età per inventarseli da sole.Facciamo un passo indietro. C’è stato un tempo in cui la nostalgia era una cosa seria: riguardava eventi che erano davvero successi, persone che avevi davvero conosciuto, luoghi in cui eri davvero stato. Era un sentimento privato che diventava collettivo quando abbastanza persone avevano vissuto la stessa esperienza. Le canzoni che “ci riportavano indietro” erano quelle che avevano accompagnato momenti veri: il primo amore, la maturità, l’università, il primo lavoro. La colonna sonora arrivava dopo la vita, non prima.Taylor Swift ha invertito il processo: prima ti vende la colonna sonora, poi tu ci costruisci sopra i ricordi. Ti dice cosa dovresti provare, quando dovresti provarlo, e soprattutto: che quello che stai provando è importante, autentico, condivisibile. Le sue canzoni non raccontano esperienze universali, raccontano esperienze che diventano universali perché le ha raccontate lei. È la differenza tra fotografare un tramonto e costruire un tramonto da fotografare.Il genio del sistema Swift (chiamiamolo così, perché di sistema si tratta) sta nell’aver capito che viviamo nell’epoca dell’esperienza in tempo reale: non abbiamo più il lusso di aspettare che i ricordi sedimentino, che acquistino quella patina di nostalgia che li rende preziosi. Tutto deve essere significativo subito, tutto deve essere memorabile nell’istante in cui accade. E se la vita vera è troppo lenta a produrre momenti memorabili, ci pensiamo noi.Ecco perché le “Swifties” non sono fan nel senso tradizionale del termine: sono consumatori di un prodotto emozionale pre-confezionato. Il prodotto non è la musica (che tecnicamente è discreta ma non eccezionale), è il sentimento di appartenenza a qualcosa di più grande, la sensazione di vivere un momento storico, l’illusione di partecipare a una narrazione collettiva. Taylor Swift ha industrializzato quello che prima succedeva per caso: il senso di comunità attraverso le canzoni.E come ogni buona operazione industriale, funziona perché risponde a un bisogno reale. Il bisogno è quello di una generazione cresciuta nell’individualismo che ora scopre la solitudine, cresciuta nella competizione che ora cerca comunità, cresciuta nella frammentazione che ora vuole appartenenza. Una generazione che ha avuto tutto tranne quello che più le serviva: rituali collettivi condivisi, momenti di aggregazione non mediati dal mercato, esperienze comuni che non fossero prodotti da comprare.Il sistema Swift riempie questo vuoto con un prodotto che simula perfettamente quello che manca: ti fa sentire parte di qualcosa, ti dà un linguaggio comune con milioni di altre persone, ti offre momenti di estasi collettiva (i concerti), ti fornisce una mitologia personale (le ere, gli album, le “versioni di Taylor”). È nostalgia artificiale per persone che non hanno avuto il tempo di sviluppare nostalgia naturale.Ma qui sta il problema: come tutte le simulazioni, funziona finché non te ne accorgi. Il momento in cui realizzi che quello che provi non è autentico ma indotto, che quello che ricordi non è vissuto ma costruito, che quello che condividi non è esperienza ma consumo, il meccanismo si inceppa. E ti ritrovi quarantenne a piangere per le canzoni di una che non conosci, per ricordi che non hai, per un passato che non hai vissuto.La cosa più inquietante del fenomeno Swift non è il suo successo commerciale (quello è legittimo: se c’è domanda di nostalgia artificiale, qualcuno la produrrà). È che ha creato una generazione di persone convinte di aver vissuto esperienze profonde quando in realtà hanno solo consumato prodotti emotivi. Come quelli che pensano di essere viaggiatori perché hanno fatto molti viaggi organizzati, o di essere colti perché hanno letto molti riassunti.E non è solo un problema estetico o culturale: è un problema politico. Perché una società abituata a consumare emozioni preconfezionate è una società che non sa più produrre cultura dal basso, non sa più distinguere tra esperienza autentica e simulazione, non sa più riconoscere quando qualcuno sta vendendo loro qualcosa spacciandolo per spontaneità.È lo stesso meccanismo che fa funzionare i populismi: ti vendono l’illusione di partecipare a qualcosa di epico (il cambiamento, la rivoluzione, il ritorno alle origini) quando in realtà stai solo comprando un prodotto politico preconfezionato. Ti fanno sentire protagonista di una storia che hanno scritto altri, per obiettivi che non sono i tuoi.Taylor Swift non è pericolosa perché fa musica commerciale (la musica commerciale esiste da quando esiste la musica). È pericolosa perché ha perfezionato la tecnica di produzione industriale dell’autenticità, dimostrando che si può vendere qualunque cosa purché la si presenti come esperienza personale e unica. Ha trasformato il consumo in identità, l’acquisto in appartenenza, il marketing in mitologia personale.E il fatto che milioni di persone intelligenti, colte, consapevoli, ci caschino comunque dimostra quanto sia raffinata la tecnica. Non stai comprando un disco, stai “vivendo un’era”. Non stai andando a un concerto, stai “partecipando a un momento storico”. Non stai seguendo una pop star, stai “crescendo insieme a un’artista”. Il linguaggio stesso è stato hackerato per farci credere che stiamo facendo qualcosa di più nobile di quello che stiamo realmente facendo.L’ironia finale è che questo sistema funziona anche con chi se ne accorge. Anche se capisci che è tutto costruito, anche se realizzi che le tue emozioni sono indotte, anche se vedi i meccanismi industriali dietro la spontaneità apparente, continui a partecipare. Perché l’alternativa è la solitudine, e la nostalgia artificiale è sempre meglio di nessuna nostalgia.Ma forse – e dico forse – il primo passo per uscirne è accorgersi che ci siamo dentro. Che quello che stiamo vivendo non è un fenomeno culturale ma un esperimento commerciale. Che le nostre emozioni sono diventate materia prima per un’industria che le trasforma in prodotti e ce li rivende come esperienze autentiche.Non sto dicendo di smettere di ascoltare Taylor Swift (ognuno si diverte come vuole). Sto dicendo di smettere di confondere il divertimento con la profondità, il consumo con l’esperienza, il marketing con la cultura.E magari, ogni tanto, di provare a costruirci qualche ricordo vero. Senza colonna sonora preconfezionata.