L'uomo che voleva essere
Kennedy
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"Si candiderà alla
presidenza?", chiese il conduttore di "60 minutes"
Morley Safer al suo giovane ospite. L'ospite nel 1971 era
la prima volta che glielo chiedevano rispose di no, "in
questo momento mi pare una domanda assurda". "In questo
momento mi pare una domanda prematura", risponde John Kerry
a chi gli fa ancora la stessa domanda, trent'anni dopo. Gliel'hanno
fatta spesso e adesso gliela fanno continuamente. Nessuno ormai,
nemmeno lui, finge di non sapere che del pugno di possibili candidati
democratici alle elezioni del 2004, ad avere un vantaggio sugli
altri sono l'ex vicepresidente sconfitto ai punti e che
punti Al Gore, e lui.
Aveva neanche 28 anni, Kerry,
quando finì in televisione a "60 minutes". Per
capire come c'era finito dovreste vedere questa foto. Fu scattata
il 23 aprile 1971: in primo piano, con le mani intrecciate su
una scrivania e un po' ingobbito verso il microfono che gli sta
davanti, sta un giovanotto in una divisa poco ordinata ma striata
di decorazioni militari. Un ciuffo di capelli gli cade sulla
fronte, sopra due occhi spenti dalle sopracciglia spioventi.
Pare un meccanico spaventato a un'esame di scuola serale, più
che un eroe militare e un prossimo leader politico davanti a
una commissione del Senato. Dietro di lui un pubblico in giacca
e cravatta nelle prime file, e in vesti più giovanili
sullo sfondo, è tutto in piedi ad applaudire. John Kerry,
ha appena concluso la sua deposizione in rappresentanza dell'associazione
dei veterani del Vietnam, parafrasando Kennedy e chiedendo "Come
potete domandare a un uomo di essere l'ultimo a morire per il
Vietnam? Come potete domandargli di essere l'ultimo a morire
per uno sbaglio?". In Vietnam, John Kerry ci è andato
volontario nel 1966, dopo essersi laureato a Yale: prima su una
nave nel Golfo del Tonchino e poi in piena zona di guerra al
comando di un unità da pattugliamento fluviale, con la
quale a 25 anni ha compiuto azioni di grande eroismo. È
tornato con un carico di medaglie e una nuova convinzione: la
guerra in Vietnam è sbagliata. "Laggiù abbiamo
aperto gli occhi". È diventato un simbolo della contestazione
pacifista e la sua audizione da parte della commissione del Senato
è affollatissima di militanti e giornalisti. I repubblicani
lo vedono come fumo negli occhi e il senatore Fullbright a un
certo punto lo interrompe: "mister Kerry, sposti il microfono,
per favore". La tensione sale e tutti pensano che la commissione
voglia interromperlo, ma Fullbright prosegue: "Quante medaglie
ha, mister Kerry? Sono una stella d'argento, e una medaglia di
bronzo, e tre Cuori purpurei, quelli che mi pare di vedere dietro
il microfono?". Quel giorno, in quella foto, John Kerry
l'eroe diventa John Kerry il politico. Va in televisione, tiene
discorsi, viene intervistato. Garry B. Trudeau, il più
grande cartoonist politico americano, lo ritrae per tre giorni
di seguito in una striscia, deridendo il suo presenzialismo e
la sua capacità di vendere se stesso, che gli vengono
rinfacciati ancora oggi. In una delle strisce, due studenti vengono
avvicinati da un giovane attivista piuttosto eccitato che li
invita caldamente ad andare a sentire questo John Kerry, che
è bravissimo, eccetera. Quando se ne va, uno dei due studenti
chiede all'altro chi fosse: "era John Kerry", risponde
l'altro. Ma l'efficacia retorica di Kerry è straordinaria:
"La nostra ultima missione di soldati è quella di
distruggere le vestigia di questa guerra barbarica, di pacificare
i nostri cuori, vincere l'odio e la paura che hanno guidato questo
paese negli ultimi dieci anni, in modo che quando tra trent'anni
i nostri fratelli cammineranno per strada senza una gamba, senza
un braccio, o la faccia, e i bambini chiederanno loro perché,
noi potremo rispondere "Vietnam" senza che questo significhi
una memoria oscena di cui si vergognarsi, ma invece un luogo
dove l'America finalmente capì e dove soldati come noi
l'aiutarono a capire".
Di ricca famiglia bostoniana,
Kerry era nato nel 1943 a Denver, dove suo padre, pilota dell'aviazione,
si era ammalato di tubercolosi. Sua madre Rosemary apparteneva
a una facoltosa stirpe di proprietari di terre a Cape Cod. Dopo
la guerra la famiglia seguì il padre Richard in una carriera
diplomatica in Europa e John andò a scuola in Svizzera
prima di tornare in America e iscriversi a Yale, due anni prima
di George W. Bush. Dopo una prima sconfitta elettorale, sotto
l'ala di Ted Kennedy la sua carriera crebbe e crebbe. Vicegovernatore,
senatore, senatore, ancora senatore: un'attività legislativa
battagliera e instancabile, assidua sull'ambientalismo, l'energia
e i diritti civili, e con alcuni successi roboanti. L'ultimo,
due settimane fa, quando è riuscito a bloccare in Senato,
per il momento, il progetto di trivellare la riserva artica dell'Alaska
tanto caro al piano energetico di Bush. Prima, Kerry aveva messo
la sua faccia a suggello delle indagini sui prigionieri di guerra
in Estremo Oriente, su Noriega e sull'affare Iran-Contras, e
soprattutto era andato a fondo dello scandalo della Banca per
il Commercio e Credito Internazionale, il clamoroso caso di truffa
e corruzione che aveva coinvolto il suo stesso partito e il suo
esponente di rilievo Clark Clifford, vicenda che da allora gli
ha alienato molte simpatie a Washington. Gli avversari non gli
perdonano i successi mediatici e retorici, ma Kerry sembra imbattibile
a mostrare di fare tutto quello che è giusto fare. Il
giorno dell'assoluzione degli agenti picchiatori di Rodney King,
ha preso ed è andato a messa nella chiesa battista della
comunità nera di Boston, "perché era la cosa
giusta da fare, per mostrare il mio rispetto e la mia solidarietà".
Un liberal: pro aborto, contro la pena di morte, appassionato
sulla scuola e l'educazione, ma convinto delle spese militari
e degli interventi di difesa e conservatore sulle tasse. Preparato,
colto, in un'intervista di qualche anno fa raccontò del
suo interesse per le religioni: "Ho impiegato molto tempo
a cercare di capire le differenze tra le diverse fedi, per afferrare
le scelte politiche che ne conseguono. Molti dei conflitti che
tormentano il pianeta sono radicati nelle religioni e nei sistemi
che nutrono, nei fondamentalismi".
"Make a difference"
è il kenedyano slogan che Kerry ripete a ogni intervista.
Dice le cose retoriche che quando le dice un americano sembra
che ci creda davvero, e la gente si commuove, e i cinici si imbarazzano,
come accadde a chi ascoltò il discorso di Bush al Congresso
dopo l'11 settembre. Crede di poter fare qualcosa, il cattolico
Kerry, glielo ha insegnato il suo Sessantotto, di cui non rinnega
niente, anzi: "quando ero al college il presidente Kennedy
ci insegnò un senso di impegno e responsabilità
e la convinzione che ognuno di noi potesse cambiare qualcosa.
Sono cresciuto con i movimenti dei diritti civili, con le prime
contestazioni della guerra, con l'ambientalismo e il femminismo.
Questi movimenti essere coinvolti, cambiare le cose, dedicarsi
a qualcosa che non fosse solo te stesso sono stati l'esperienza
formativa che ha investito la mia generazione. Forse non per
tutti, ma per molti di noi. E queste sono cose che rimangono".
La gente parla sempre degli anni Sessanta, dice Kerry, qualcuno
ne ride, qualcuno è stanco di sentirne parlare, "ma
è stato un periodo si transizione straordinario nella
storia del nostro paese". Ma a quel tempo non risalgono
solo la gloria e la passione di Kerry, ma anche l'episodio che
più gli viene rinfacciato e che potrebbe diventare il
ritornello della campagna del 2004: il giorno che partecipò
a una clamorosa protesta dei veterani del Vietnam che gettarono
le loro onorificenze sul prato del Campidoglio per protestare
contro la guerra. Kerry gettò i suoi nastri e delle medaglie,
che poi si seppe non erano le sue. Le sue le tenne. "Io
credo in quelle medaglie, e non le avrei mai gettate via. Quelle
che lanciai mi erano state affidate da alcuni soldati invalidi
che non potevano farlo: io gettai i mie nastri, altri le loro
targhette o i loro congedi, persino delle stampelle, la manifestazione
fu straordinaria per il suo valore simbolico", spiega tranquillamente
Kerry. Un imbroglione, scrissero alcuni commentatori.
Quest'anno, John Kerry è
impegnato nella campagna per il suo quarto mandato senatoriale
(per cui nessun avversario è stato ancora trovato), e
non vuole parlare di presidenza, ma intanto mette i mattoni uno
sull'altro. La parete più solida, tra una vittoria legislativa
e un discorso pubblico, è già costruita, ed è
quella del finanziamento. A oggi le sue casse sono le più
ricche tra quelle degli altri possibili candidati, e il bello
deve ancora venire. E se per ora non ne ha fatto uso, Kerry gode
di una discreta ricchezza familiare sua e di una straordinaria
ricchezza della sua seconda moglie Teresa, che molti giudicano
il bene più proficuo del candidato Kerry, e non solo da
punto di vista economico. Teresa Heinz sposò John Kerry
nel 1995, dopo essere rimasta vedova del senatore repubblicano
della Pennsylvania John Heinz III, titolare di un impero alimentare
che ha lasciato a Teresa un patrimonio valutato in 860 milioni
di dollari. Nata e cresciuta in Mozambico, Teresa Heinz
che continua a dirsi repubblicana porta con sé anche
un ruolo di primo piano in attività di assistenza e lobbysmo
a scopo benefico e una competenza politica e pubblica riconosciute
da tutti. E potrebbe portare anche i voti della Pennsylvania,
uno degli stati più delicati per la raccolta di seggi
presidenziali, assieme a Michigan, Ohio e Florida. John e Teresa
vivono in un palazzo in pietra di sei piani nella elegante Louisburg
Square, a Beacon Hill, Boston. A vederli, sono la coppia presidenziale
dei film: due coniugi Clinton, più charmant. Lui, malgrado
lo sguardo tuttora spiovente, è diventato il tipico bell'uomo
ricco e sportivo del New England, chioma kennedyana imbiancata,
magro ed elegante. Lei è la moglie di un uomo simile,
bella signora bostoniana dall'espressione che la sa lunga. Quando
si corteggiavano, lei gli regalò un abbonamento a una
rivista di windsurf. Prima di incontrarla e dopo una tormentata
separazione dalla prima moglie da cui ha avuto due figlie ormai
trentenni, Kerry frequentò diverse ragazze, e aspettatevi
di conoscerne curriculum e taglia nel giro di due anni, se tutto
va come molti si aspettano.
Di correre da presidente se ne parlava sempre più seriamente
da una decina d'anni, e pareva che Kerry potesse essere alternativo
a Gore, o suo vice, ma non se ne è fatto niente, forse
per paura che fosse più efficace ed attivo del suo numero
uno. Kerry è un entusiasta iperattivo e nelle interviste
si dice felice e fortunato ogni giorno di quello che fa. Tifoso
di baseball i Boston Red Sox e appassionato di windsurf,
ogni volta che può esce a cercare vento e onde con il
campione olimpionico Mike Gebhardt. "Somiglia alla politica,
hai l'impressione di tenere tutto nelle tue mani, ma ci sono
forze che comunque non puoi controllare". Uno dei suoi migliori
alleati è diventato John McCain, il popolare senatore
repubblicano a cui Bush ha soffiato la candidatura alla presidenza,
pluridecorato di guerra dopo essere rimasto per cinque anni e
mezzo prigioniero ad Hanoi. Le loro critiche ai modi dell'azione
militare in Afghanistan, condivisa da entrambi, sono state spesso
affini, provenienti dalle stesse esperienze di guerra e dalla
stessa ragionevolezza. Insieme hanno cercato di introdurre nuovi
standard di efficienza per i carburanti per auto, e sono stati
battuti dalle lobby automobilistiche, tracciando però
un solco che tornerà fertile in futuro. "John è
tenace, e io lo ammiro per questo. Ha coraggio e fa quello che
pensa sia giusto. Uno che lavora sodo e sa di cosa parla. Se
si candiderà, non mollerà per un attimo e andrà
sino in fondo come un mastino", dice McCain.
Ultimamente le sue contestazioni
al "falso patriottismo" dietro cui Bush nasconderebbe
i suoi errori si sono intensificate, chiede conto di ogni cosa,
ha capito chi è il suo avversario e batte il tasto del
caso Enron, della mancata cattura di Bin Laden, della dipendenza
energetica dagli arabi e dalle lobby petrolifere e dei tagli
alla previdenza sociale. "Noi democratici crediamo che questa
nazione sia più che palazzi splendenti ed élites
sorvegliate con le loro piscine e i giardini ben curati. Non
vediamo l'America come un prodotto finito, una regno in cima
alla collina. Per noi l'America è ancora un divenire,
un sogno non realizzato, una promessa non ancora mantenuta".
Correrà per la Casa Bianca? Sarà lui l'uomo capace
di colmare il distacco tra gli stati blu e quelli rossi? Malgrado
la sua campagna elettorale e i suoi discorsi suonino sempre più
presidenziali e riscuotano lodi trasversali, Kerry continua a
non rispondere. Riferendosi al ruolo di Katharine Harris, la
donna le cui decisioni sospinsero la vittoria di Bush due anni
fa, la settimana scorsa ha iniziato un discorso così:
"Molti mi chiedono se mi candiderò alla carica di
maggior potere nel mondo. Bene, lasciate che vi dica che no,
non ho alcuna intenzione di diventare il Segretario di Stato
della Florida". Sa che appena si dichiarerà gli rinfacceranno
di tutto, a cominciare dall'essere un altro liberal del New England
come il perdente Michael Dukakis di cui fu vice governatore.
Gli altri possibili candidati democratici per il 2004, a parte
Gore e il leader alla Camera Dick Gephardt, sono tutti senatori:
John Edwards del North Carolina, Tom Daschle del South Dakota
e Chris Dodd e Joe Liebermann del Connecticut. Nella storia degli
Stati Uniti 14 presidenti erano stati vicepresidenti e solo due
venivano direttamente dal senato, Warren Harding e John Fitzgerald
Kennedy. La storia della famiglia Kennedy - che ha frequentato
fin da ragazzo potrebbe accompagnare ancora la carriera
di John Kerry. John Forbes Kerry, a dirla tutta, e le iniziali
sui tovaglioli non dovrebbero essere un problema, alla Casa Bianca.
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