A proposito di Henry

Luca Sofri
Musica, 25 settembre 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

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“Quello non fu un disco riuscito”, mi spiega Joe Henry, che è a Milano a presentare “Tiny voices” e sta andando con la chitarra nella custodia a suonarne un po’ a Radio Popolare. “Quello” di cui parla è “Kindness of the world”, il suo cd di dieci anni fa esatti. “Quello” è il suo ultimo disco interamente ancorato al periodo country-rock: quando Joe Henry non faceva ancora dischi straordinari ma soltanto dischi molto belli. “Quello”, tra l’altro, è il disco che io ascoltai di più quell’anno – il 1993 – e per cui andai una sera a Finale Emilia che non avevo mai nemmeno sentito nominare, per vedere un concerto di Joe Henry in una specie di discoteca di paese con appesa al soffitto la palla con gli specchietti: saremmo stati in cinquanta, quella sera.
E adesso ho qui davanti l’autore, e mi sta dicendo “Quello non fu un disco riuscito”, e mi sento come altri mille cliché di fan a cui la vecchiaia cerca di smontare le emozioni giovanili. Ma me la sono cercata. Ho chiesto io a Joe Henry cosa è cambiato. Gli ho chiesto io cosa lo abbia fatto cambiare musica. Gli ho chiesto io cosa sia successo a farlo passare da cantautore “alt-country” – come dicevano allora le etichette sugli scaffali dei negozi – con un discreto seguito, a raffinato poeta, incensato dai critici, di un genere raro che è difficile definire se non riferendolo per similitudini: un po’ Tom Waits dei primi tempi, un po’ jazz con la collaborazione di nomi illustri di quel genere. Gliel’ho chiesto io.

“Allora facevo musica più semplice, più rudimentale. Mi sentivo stretto dentro quel vocabolario musicale, mi mancava qualcosa. Quando ho finito il tour di “Kindness of the world” ho cominciato a provare nuovi strumenti e nuovi musicisti”. Questi tentativi si sono evoluti in successivi dischi di transizione, fino a “Scar”, di due anni fa. Un disco bellissimo, di musiche e arrangiamenti dolcissimi, di racconti, della voce carezzevole di Joe Henry. E con gli aggettivi enfatici abbiamo chiuso, per oggi. Un disco che aveva tra i suoi titoli invenzioni come “Richard Pryor addresses a tearful nation”, e tra le sue trovate una rilettura stravolgente di “Stop”, fino ad allora cantata da sua cognata, Madonna (“Don’t tell me”).

“Tiny voices” esce in questi giorni e prosegue “Scar”. Gli dico che mi sembra ancor più spinto verso il lavoro sugli strumenti, sull’improvvisazione, sul racconto in musica. “Siamo andati in studio e lo abbiamo registrato, senza provare. Le cose perdono di spontaneità e di creatività se le fai avendole già preparate. E rispetto a “Scar” ho imparato di più a usare lo studio come uno strumento musicale, a gestirne il suono. Prima lo ignoravo”. Il risultato è ancora più “jazzy”: “non direi di certo che faccio musica jazz, ma la mia musica usa delle libertà e delle sensibilità che sono tipiche del jazz”.
Joe Henry è del North Carolina, poi ha girato l’America e abita a Los Angeles da 14 anni, e ci si è affezionato “perché i miei figli sono nati lì”, ma spiega di preferirla per ragioni pratiche, di lavoro e di vita: “costa molto meno di New York”. Gli chiedo di Madonna: “è la sorella di mia moglie, ed eravamo tutti e tre allo stesso liceo, nel Michigan. Anche se suona banale, lei oggi è la stessa persona che ho conosciuto allora, aveva già questa personalità: oggi ha solo scarpe più eleganti”. E non scriverai qualcos’altro per lei? “Ci stiamo lavorando, quando troviamo il tempo. Anch’io ho scarpe più eleganti, adesso”. Gli guardo le scarpe, dubbioso. Poi penso a quelle di Madonna.

Gli chiedo del disco nuovo, dell’uso che fa di una parola fuori moda come “rivoluzione” in due delle canzoni.“In Tiny Voices si parla molto di tradimento: i personaggi non vogliono sapere la verità, perché ne diverrebbero responsabili. Delle rivoluzioni parlo per mostrare la differenza tra le rivoluzioni vere che le persone fanno con le loro vite quotidiane, e quelle di cui parlano i governi e i leader, di cui poi la gente subisce le conseguenze peggiori”. In una canzone si parla di Cuba. “Ma non mi interessa l’aspetto politico: ho sentito discussioni su Castro e sulla rivoluzione da quando andavo a scuola. Mi interessa mostrare come le vite restino le stesse, come per la gente la rivoluzione abbia lasciato le stesse miserie, le stesse oscurità”.
Non so come, stimolato dalla possibilità che Joe Henry sia un raro caso di artista senza niente da dire sulla politica, gli chiedo se le cose che mi dice non riguardino anche le rivoluzioni annunciate dal governo del suo paese di questi tempi. E Joe Henry non è un raro caso: “Eccome se parlo di questo. Oggi il mondo pensa che gli americani siano l’amministrazione che li governa, ma non è così. Questa è gente che pretende di imporre al mondo il proprio modo di pensare, questa è gente che ha deciso la guerra in Iraq”. Per capire la dimensione del suo dissenso, gli domando se creda che ci sia una buona fede dietro gli errori del suo presidente: “A Bush posso concedere la buona fede nel senso che può essere così stupido da non sapere quello che fa; ma non a chi gli sta intorno. Quelli lo sanno benissimo. Il loro problema è che pensano di essere al centro del mondo, che quel che capita a loro sia importante per tutti quanti. C’è gente al mondo che l’11 settembre ha pensato “ora sapete cosa si prova”, e se l’hanno pensato ci sono delle ragioni”.

Parliamo ancora della guerra, ascolto argomenti familiari: “Perché non anche alla Corea? Perché non anche all’Iran? Perché non anche all’Arabia Saudita?”. Corro il rischio, gli chiedo della liberazione di Sarajevo: “non dovevamo andare neanche là”.
“Kindness of the world” era molto bello. “Tiny voices” è molto bello.