Una splendida giornata
Donna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Re: No Subject

Rock e altro

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Marzo 2005

Moltheni
Splendore terrore
Intervistato sul suo nuovo disco, alla domanda “Perché Splendore terrore?”, Moltheni rispondeva “Boh, suona bene”. Già questo dovrebbe bastare a renderlo ammirevole al confronto di un novantanove per cento di gente che tende a prendersi piuttosto sul serio, nella musica e non. Si chiama Umberto Giardini, ha trentasette anni, è marchigiano e a un certo punto è passato anche per Sanremo, nell'indifferenza reciproca. Questo disco è serio serio, notturno, bello.

James Blunt
Back to Bedlam
Non mi mandate a quel paese, ma questo potrebbe essere quello che furono rispettivamente David Gray e Damien Rice negli anni scorsi. Certo, quei dischi erano praticamente perfetti e a questo qualcosa ancora gli manca, ma non sarebbe da meravigliarsi se il fenomeno si ripetesse. Anche lui ha la sua storia strana di accesso al cantautorato, con tanto di arruolamento del contingente NATO in Kosovo. Vediamo come va: nel peggiore dei casi vi avrò consigliato un buon disco che sappiamo solo noi. O nel migliore.

Rufus Wainwright
Want two
Questo disco è il seguito, con copertina identica, di quello dell'anno scorso, che guardacaso si chiamava Want One. Volevamo riprodurre la recensione di quello ma l'abbiamo fatto il mese scorso con Maximilian Hecker e potreste essere indotti a sospettare una certa pigrizia da parte del recensore (come se fosse facile andare a ritrovare quella recensione, controllare che non ci fossero fesserie, copiare e incollare). Comunque lui è uno stimatissimo cantautore gay, dagli arrangiamenti barocchi e sofferti ma capace di languide e pompose melodie. Si chiama Rufus, mica Kurt.

Bright Eyes
I'm wide awake it's morning
La prima volta che mi occupai di Conor Oberst non aveva ancora vent'anni e già scriveva canzoni fantastiche. Venne a Milano a fare da supporter di un concerto da duecento persone ed era un soldo di cacio che li scatenò tutti, dal primo al duecentesimo, con sole tre canzoni. Il mese scorso ha parlato di lui tutta la grande stampa americana, è diventato “il nuovo Bob Dylan”, è sempre un soldo di cacio e scrive ancora canzoni fantastiche.

Febbraio 2005

Trash Can Sinatras
Weightlifting
Scozzesi, rock melodico, c'erano molto tempo prima che arrivassero i Coldplay. C'è una ballata che parla di quello che le donne fanno agli uomini, che non dovete sentire se siete in un momentaccio. Come gli scozzesi Blue Nile di cui si parlò nello scorso numero di Donna, non facevano un disco da otto anni, e come i Blue Nile gli è venuto particolarmente bene. Probabilmente erano tutti assieme da qualche parte a bersi roba buona.

Robert Downey jr.
The futurist
Un attore che azzecca un disco di canzoni capita una volta ogni dieci anni. Adesso è capitato due volte in un mese. Prima con William Shatner - il capitano Kirk, per capirsi - e ora con l'eterno figliol prodigo Robert Downey jr., mille volte in guai di droga e mille volte recuperato per i capelli. Ha fatto un disco pop ben arrangiato, non banale, con molte invenzioni e anche una cover degli Yes con tanto di leader degli Yes a fare il coro.

George Winston
Montana: A love story
Vent'anni fa George Winston era la musica new age, prima che questa si sputtanasse in canti di delfini e scempiaggini simili. Pianista americano folk, di melodie dolcissime e svenevoli che evocavano nevicate, sere davanti al camino, foglie portate dal vento, cose così. Un killer sentimentale. È passato un sacco di tempo, e niente sembra cambiato: anche se due anni fa ha fatto un cd di cover dei Doors e in questo c'è una grande versione del classico soul “You send me”.

Maximilian Hecker
Ladybird
Se tu sei tedesco, ventiquattrenne, e fai un cd di pianoforte, elettronica e falsetti, con canzoni che si intitolano “Kate Moss” e “My love for you is insane”, tutto molto anni Ottanta nei suoni e nelle parole, struggente e sdolcinato che a momenti pare quasi l'arrangiamento del Tempo delle mele, i casi sono due. Caso uno - novantanove per cento delle probabilità - viene una roba svenevole tra l'imbarazzante e il ridicolo, che solo i tedeschi si possono ancora bere. Caso due, per un colpo di bacchetta magica che nessuna logica e raziocinio sono in grado di spiegare, viene molto bello. Salacabùla megicabùla bibbidi bobbidi bù. (È la recensione del precedente disco di Hecker, ma perché riscriverla?)

Dustin O'Halloran
Piano solos
Diciamo che quaggiù presentarsi con un pianoforte equivale più o meno a presentarsi con una busta gonfia nella Milano degli anni Ottanta. Una corsia preferenziale, diciamo. O'Halloran è californiano, e di solito fa la metà di una band rock che si chiama Devics. Poi si è preso casa in Italia e ci ha inciso questo cd convincendosi di essere Satie. Con buoni risultati.

Madeleine Peyroux
Careless love
Madeleine Peyroux non è Norah Jones e non è Michael Bublé. Madeleine Peyroux è una cantante jazz vera, con una voce che assomiglia in maniera impressionante a quella di Billie Holyday, e un disco invidiabile e moderno. Si è presa dei rischi con una cover di Elliott Smith, e ha saputo il fatto suo.

Dicembre 2004

Leonard Cohen
Dear Heather
Dentro questo disco ci sono: uno dei più grandi cantautori della storia del rock (più di Dylan? Vedete voi); una poesia di Lord Byron, una dedica alle donne “che per via di alcune canzoni che ho scritto su di loro, sono state straordinariamente gentili con la mia vecchiaia”; una canzone breve sull'11 settembre, netta, brutale, inequivoca (“Ditemi una cosa: voi siete diventati matti o invece vi siete arruolati, il giorno che hanno ferito New York?”); una foto dell'autore senza i capelli e una foto dell'autore con il cappello.

Twilight Singers
She loves you
Dentro questo disco ci sono: un messaggio in segreteria di “Valeria”; Greg Dulli, rocker di culto della scena underground americana da anni e anni, da Cincinnati, Ohio (alcune ciambelle, in Ohio, riescono col buco); undici cover molto reinterpretate; nessuna cover di “She loves you” dei Beatles e nemmeno di “Imagine” (però di Imagine ce n'è in giro una particolare assai di una band che si chiama “A perfect circle”); qualcosa di notturno, di rauco, di urbano, qualcosa che sarebbe stato bene nella colonna sonora di “Collateral”; una cover di “A love supreme” di John Coltrane.

William Shatner
Has been
Dentro questo disco c'è il capitano Kirk - “quel” capitano Kirk - che ha 73 anni e già in passato gli era venuto il ghirirbizzo di canticchiare, ma questa volta si è fatto produrre e aiutare da Ben Folds, bravissimo cantautore pop americano, e hanno messo insieme un disco un po' per scherzo, assai discontinuo, dove a meomenti ci si diverte e a momenti si sente della buona musica. Per dire, dentro questo disco ci hanno messo le mani Joe Jackson, Nick Hornby e Henry Rollins. Dentro questo disco c'è una canzone molto bella, “It hasn't happened yet”. Fuori da questo disco c'è una copertina molto elegante.

Feist
Let it die
Dentro questo disco quel che c'è c'è, ma c'è da un pezzo. Nel senso che questo disco era stato inciso a Parigi l'anno scorso, ma il cd ha avuto successivi rilanci e ripubblicazioni man mano che il suo successo aumentava. Nei negozi francesi è ancora negi scaffali più in vista. Lei è canadese, e ha collaborato con molte band negli ultimi anni. Dentro questo disco c'è un'ottima cover di “Inside and out” dei Bee Gees. Dentro questo disco, come direbbero quelli, c'è del soul.

Novembre 2004

Blue Nile
High
“Le canzoni di High, il quarto album dei Blue Nile, non lasciano intuire in niente che ci siano voluti otto anni per inciderle. Così squisite da essere quasi trasparenti, suonano come il frutto di qualche rapida pennellata. Ma tra il nuovo disco e il precedente sono passati proprio otto anni. E il precedente era venuto sette anni dopo Hats. E tra Hats e A Walk Across the Rooftops, con cui avevano debuttato, erano passati sei anni. In vent’anni hanno prodotto 33 canzoni. Ma il loro impatto supera di gran lunga quello di molte bands più proficue, e con tale parsimonia si sono creati un seguito devoto”. Richard Williams, The Guardian

Hayden
Elk-Lake Serenade
“Anche se attinge al passato – soprattutto ai cantautori degli anni Sessanta e Settanta – Hayden suona del tutto naturale. Ha ascoltato quella musica per anni e sa apprezzare l’arte di una canzone ben scritta. Canta con una voce lamentosa, appassita, e si racconta come uno che ha avuto i suoi guai, ha scoperto che la vita fa schifo e ha deciso di andare avanti. Il suo contemporaneo più simile è Bill Callahan degli Smog; tutti e due fanno una grande musica da notte. “Home by saturday” suona come un lato b da un vecchio disco di Elliott Smith, e “Killbear” ricorda l’intimità di Nick Drake. Mentre “Hollywood ending” fa venire in mente le migliori cose di Cat Stevens”. David Franklin, Filter

Piers Faccini
Leave no trace
“Suona la chitarra da quando aveva 13 anni (ne ha 34) e dipinge. Prima del suo manifesto Leave no trace, Piers Faccini (padre italiano, madre e passaporto britannici) si era fatto le ossa folk-hop sulla scena londinese con la poetessa Francesca Beard e altre collaborazioni. Ma Piers lo sconosciuto ci è in realtà familiare, con la sua discendenza da Jack Johnson, Vincent Gallo, Donovan, Murat, Perry Blake… Frequentati dal blues folk, da Pessoa, o dalla canzone napoletana, i suoi testi sonnambuli non risparmiano nessuna confessione. Il ritmo di crociera della piccola dozzina pop folk offerta da Faccini è “piano””. Bruno Bayon, Libération

Raphael Saadiq
As Ray Ray
“Meglio noto come leader dei Tony! Toni! Tone!, Raphael Saadiq è emerso in questi anni come solista di rilievo e come produttore di artisti soul da hit-parade. Il suo secondo disco da solo lo trova in uno spirito allegro e intento all’invenzione di una serie di citazioni dal funk degli anni Settanta. Mentre molto soul odierno appare studiato e serio, Saadiq rimette un po’ di divertimento nel funk”. Ken Capobianco, Boston Globe

Ottobre 2004

Paul Weller
Studio 150
Paul Weller è uno che è andato dietro alla sua età: rockettaro quasipunk da ragazzo, con i Jam, poi convertito al pop raffinato e modaiolo degli anni Ottanta con gli Style Council, e infine messosi in proprio verso una carriera con aspirazioni tra il bacharachiano e il crooner. Le seconde gli vengono meglio, che da autore è da un pezzo che non lascia cose memorabili, malgrado la popolarità in patria. Adesso invece ha fatto un disco di cover dove c’è di tutto, e anche Dylan, le Sister Sledge e Neil Young. Se avete sempre avuto l’età di Paul Weller, dovrebbe piacervi.

Elliott Smith
From a basement on the hill
A ventisette anni Elliott Smith salì sul palco degli Oscar a Hollywood per suonare la canzone di “Good Will Hunting”. Suonò due minuti e undici secondi, infilato in un abito bianco che non riusciva a togliergli di dosso quell’aria del tutto anonima e passeggera, persa nel luccichio lasciato dalla precedente esibizione di Celine Dion: “fu abbastanza buffo, nessuno di tutti quelli che si trovavano lì era venuto per me”.
Era modesto e bravissimo. Stava lavorando a questo disco quando lo trovarono morto, per una coltellata ancora misteriosa, un anno fa.

Elvis Costello
The delivery man
Ha deciso di rimettersi a fare un po’ di baccano dopo le superbe sonnolenze del disco dell’anno scorso, uno dei migliori del 2003. Costello che fa baccano ha una sua cifra e una sua identità, ma anche una certa eterna ripetitività. Voi direte: perché Costello che mormora languide ballate, no? Certo, ma vorreste passare l’eternità tra languide ballate o in mezzo al baccano? Qui per fortuna ci sono tutte e due, bosco e riviera.

Modest Mouse
Good news for people who love bad news
Lo so cosa pensate, che finora le recensioni di questo mese potevate trovarle anche su Sorrisi e canzoni, e magari scritte meglio. È un mese mainstream, ottobre. Per sparigliare un po’ (ma sempre di major discografica si parla), e stare allegri, c’è il cd dei Modest Mouse, band che viene dalle parti di Seattle e ha ormai una discreta carriera alle spalle, ma al Festivalbar non capitano spesso. Strano, perchè sono allegri, orecchiabili e originali. Originali, già.

Settembre 2004

Jay Farrar
Stone, steel & bright lights
“Like a hurricane” è un capolavoro di canzone. Una grandissima canzone rock e melodica assieme, di quelle che ti vengonon una volta nella vita, a meno che tu non sia Neil Young. Molti la conoscono, molti no. È quindi cosa buona e giusta e degna di rispetto che una cover di “Like a hurricane” stia a conclusione di questo bel disco di Jay Farrar, che un tempo fece ottime cose con una band che si chiamava Uncle Tupelo, e ora fa ottime cose da solo. Trattasi di rock.

The Polyphonic Spree
Together we’re heavy
Qui già ne parlammo, che in America l’anno scorso furono un piccolo caso. Coro di mattarelli che danno concerti in gran tuniche bianche e con bislacchi coinvolgimenti del pubblico. La musica è una via di mezzo tra l’Antoniano e i Beach Boys, con una predilezione per i loop interminabili. Come il precedente, il disco nuovo è allegro, particolare, e mette di buonumore.

Kings of Convenience
Riot on an empty street
L’estensore delle presenti pagine si compiace di distinguersi dai comuni recensori di dischi. Questo vezzo già lo accomunerebbe a tutti gli altri recensori di dischi, ma lasciamo perdere. Per esempio: ogni recensore di dischi ha le sue fisse. A ogni uscita dei suoi beniamini griderà al capolavoro. A ogni uscita di quelli che lui ritiene “sopravvalutati” – in sua vece, evidentemente – ne dirà peste e corna. Beh, qui si fa oggi una cosa rivoluzionaria. Lo scorso numero ci si disse annoiati della produzione di questo duo norvegese, parlando bene del disco da solo di uno dei duo. A questo giro si segnala come molto bello il loro disco nuovo. Si invecchia un po’ tutti.

The album leaf
In a safe place
Così va il mondo. Sono stato a San Francisco e in un negozio ho sentito questo disco. Mi hanno detto che la band è di uno che si chiama Jimmy Lavalle, di San Diego. Il disco mi sembrava evocasse molto dei Sigur Ros, la band islandese che è stato un caso discografico e culturale negli ultimi anni, e anche dei Mùm, islandesi pure loro. Tornato a casa ho scoperto che Lavalle ha registrato in Islanda, negli studi dei Sigur Ros, con la loro collaborazione. Così va il mondo. Il disco è bello.

Luglio 2004

Tears for fears
Everybody loves a happy ending
Questo disco non esiste. Cioè, esiste, ma nessuno l’ha visto e tutti fanno finta che non esista. Da qualche parte, nei depositi della Arista ce ne saranno decine di migliaia, accatastati ad ammuffire. Il ritorno dei Tears for Fears era stato annunciato per la fine dell’anno scorso e poi spostato tre volte. A maggio sono persino stati mandati i promo alle radio e ai giornali, e sono uscite le recensioni. Ma nei negozi, niente. Non si capisce bene, ma è nato qualche contenzioso tra la band, il management, e l’etichetta. Le ultime notizie dicono che il disco potrebbe uscire ad autunno con la Universal. Vedremo.

Steve Kuhn
Promises Kept
Questo disco esiste eccome. È una delle più belle uscite della ECM degli ultimi tempi, e negli ultimi tempi la ECM ne ha fatte delle belle. Steve Kuhn è un attempato signore che suona il piano da quando era bambino e lo suonò con John Coltrane e Stan Getz, così per dirne due. Poi ne fece parecchie altre, e diverse. In questo cd si porta un bassista e una sezione d’archi, e crea la colonna sonora struggente e perfetta per un film che non esiste.

Bright Eyes, Neva Di Nova
One Jug Of Wine, Two Vessels
Questo disco esisticchia. Nel senso che non è che sia facile accorgersi della sua esistenza, se non state attenti attenti. La discografia mondiale è troppo occupata a dare la giusta pubblicità a Norah Jones per potersi occupare anche d’altro. Dei Bright Eyes – ovvero del ragazzo Conor Oberst – questa rubrica aveva già scritto assai, unendosi al coro di lodi per le sue grandezze di cantautore. Qui ci sono sei canzoni, una io e una voi, con i Neva Di Nova, che nella disattenzione del mondo esistono da una decina d’anni. Disco breve, carino, da stare allegri e viaggiare.

Erlend Øye
Dj Kicks
Questo disco esiste da un paio di mesi, non è che vi stia indicando chissà quale anteprima. Erlend Oye ci ha sfranto i testaroli per un po’ con un il suo duo “new folk” Kings of convenience, norvegese lui norvegese il suo socio. Poi dev’essere sceso dal fiordo in città, e in certe lunghe notti di Oslo ha scoperto il gusto di fare il deejay. Ha preso una dozzina di canzoni che gli piacevano (dagli Smiths a Jamiroquai), ci ha lavorato sopra, le ha ricanticchiate, ed è venuta fuori una compilation “mixata”, come si diceva una volta, di tutto rispetto e sollazzo. Trattenetelo in città, a colpi di stoccafisso.

Giugno 2004

Howe Gelb
Ogle some piano
Se cerchi “Howe Gelb” su Google trovi 13500 risultati, di cui 654 in italiano. Il primo è il sito della sua band, i Giant Sand. Se cerchi sotto “immagini” ne trovi 281, ma lui c’è solo in alcune. In quelle, ha sempre i baffoni. Questo disco è, ineditamente, tutto strumentale. No, a un certo punto lui dice “Ogle”, tre volte. La copertina è molto brutta. Ad aprile del 2003 scrissi qui del suo cd precedente, paragonandolo a Spike, il fratello di Snoopy. Il fratello di Linus, si chiama Ripresa.

Wilco
A ghost is born
Se cerchi Wilco su Google, trovi 501 mila risultati. Ma ce ne sono un sacco che con la band non c’entrano niente. Se ti ricordi male e cerchi Philco, scopri che la Philco, quella dei televisori, fallì nel 1962, e la Ford se ne comprò i resti, per poi cederli alla Philips. Questo disco è bello. Quello prima fu rifiutato da una grossa etichetta e pubblicato da una piccola: dopodiché ebbe un gran successo di critica e un discreto successo di pubblico. Il leader della band si chiama Jeff Tweedy: su Google ci sono 262 immagini sotto Jeff Tweedy. Quello di mi-è-semblato-di-aver-visto-un-gatto si chiama Tweety.

Magnetic Fields
I
Se cerchi Magnetic Fields su Google strovi un milione e mezzo di risultati. Siccome significa Campi magnetici, non c’è da meravigliarsi. Se cerchi Gravitational Orbits, che significa Orbite gravitazionali, trovi 362 risultati. I Gravitational Orbits però non sono una band. I Magnetic Fields sono la band di Stephin Merritt, anzi praticamente sono Stephin Merritt. Il suo ultimo disco era uscito cinque anni fa, era triplo, c’erano 69 canzoni e una sembrava “La bella tartaruga”. In questo ci sono 14 canzoni e i titoli cominciano tutti per “i”. I critici ne vanno matti, e dicono che è uno dei più grandi scrittori di canzoni viventi. Su Google, la ricerca di "canzoni morenti" non ha prodotto risultati in nessun documento.

Arto Lindsay
Salt
Se cerchi Arto Lindsey su Google trovi 36500 risultati. E sono quasi tutti roba sua, dell’Arto Lindsay mezzo americano e mezzo brasiliano che ha suonato con i Lounge Lizards e con Brian Eno ma anche con tutti i miti della musica brasiliana. Su Google ci sono 333 immagini sotto Arto Lindsay: in alcune sembra un professore universitario, in altre un addetto alle pulizie. In certe tutti e due. Se lo si cita nelle conversazioni, fa piuttosto figo e snob, non come certi nometti che vanno di moda ora. Non bisogna sbagliarlo con Arlo Guthrie o con Harpo Marx. La copertina è bruttina, ma non quanto quella di Howe Gelb. La sua mail è mail@artolindsay.com.

Maggio 2004

Scissor Sisters
Scissor Sisters
Un po’ d’allegria, che diamine. Che non si dica che l’estensore della presente pagina sia un quasi quarantenne che – musicalmente – ne ha fatte abbastanza (dal ballare sui cubi al cercare di comprendere il senso dei tasti neri, all’essere sorcino, al prendere lezioni di tip-tap) da aver voglia di sentire solo cose prive di suoni percussivi. Esiste sempre l’autoradio, infatti, per dare un senso all’ascolto di musica vivace e ritmata. Che nella fattispecie si materializza in una bislacca band newyorkese capace di reinventare una roba pop-dance anni Ottanta, e di metterci dentro l’ormai nota cover di “Comfortably numb” dei Pink Floyd.

The real Tuesday Weld
I, Lucifer
E questo che disco è? Va a capire. Mi sono sempre chiesto che accidenti significasse esattamente l’espressione “vaudeville”, ma sento che può avere a che fare con questo. E poi, complice la copertina, mi ricorda “Mulholland drive”. Lui si chiama Stephen Coates ed è di Londra: ha messo in musica il romanzo di un tal Glen Duncan, con una discontinuità tra ritmi enfatici o teatrali e ballate melodiose, che ha qualcosa di Tom Waits. Risultato: non sai se metterlo a casa, la sera, o nell’autoradio. Ma complimenti per l’originalità.

David Byrne
Grown Backwards
I critici si sono accaniti contro il tentativo di questo brav’uomo (uno scozzese di cinquantadue anni che si inventò i Talking Heads, per i bignamisti) di canticchiare un paio d’arie di Bizet e Verdi. Di quest’ultimo, si tratta di “un dì felice etera mi balenaste innante”, nientemeno: con tanto di vissi d’ignoto amor e croce e delizia. A dire dell’estensore, qui, si sono compiuti misfatti peggiori nell’abuso delle lingue non proprie. In un disco vario, piacevole, completo (il-disco-della-maturità), le due canzonette non guastano: tanto le arie d’opera sono incomprensibili e mispronunciate da sempre, anche quando le canta Pavarotti.

Divine Comedy
Absent friends
I Divine Comedy sono una di quelle band che stanno tutte nella testa di un uomo, e qull’uomo in questo caso si chiama Neil Hannon. Di loro si può dire una cosa inaudita di questi tempi, e cioè che non hanno uguali. “Sono un gruppo unico nel panorama musicale” come direbbe un ufficio stampa. Si sono inventati un suono pop guarnito di orchestrazioni da gran varietà, con archi e fiati e nessuna simpatia per il minimalismo; una via di mezzo tra Micael Nyman e l’orchestra del teatro Ariston. E su tutto questo, canzonette.

Aprile 2004

Keren Ann
Not going anywhere
La canzone omonima, dicevano quelli che facevano le hit-parade. O la-canzone-che-dà-il-titolo-al-disco. Parla di un semaforo, o di una ragazza. Dice che le cose passano, cambiano, succedono, vanno e vengono, “ma io non vado da nessuna parte”. Del semaforo si sa poco; la ragazza è israeliana, di genitori che vengono dalla Russia e da Giava, e vive a Parigi. Anche le altre canzoni sono languide e soporifere, come le avesse scritte Carla Bruni. Salirà la marea, e io non andrò da nessuna parte.


Coco Rosie
La maison de mon rêve
Dura poco più di un minuto, e non è la sola bella canzone del disco, forse non è nemmeno la più bella, è troppo breve. Parla di cavarsela da soli, o di mandare a quel paese chi ti sfrutta, o ti tratta con sufficienza, forse. Forse parla solo di prendere un taxi, o di un appartamento in vendita all’angolo della strada. Dice “You can leave me on the corner where you found me, I’m not for sale anymore”. Basta, non dice nient’altro.

The Mountain Goats
We shall all be healed
“Sono venuto a trovarti qui, in terapia intensiva. Ti avevano legato al letto. C’erano tubicini che entravano e uscivano. E bende bianche intorno alla tua testa”. Siete di quelli che la-musica-deve-mettermi-buonumore? Lasciate perdere. Ma se ce la fate, l’istante in cui la strofa diventa ritornello – se una parola che finisce in -ello può essere associata a questi versi – e il tono e il ritmo cambiano, e lui dice “sono una talpa, che sbuca la testa sulla superficie della terra”, quell’istante lì, è una cosa bellissima, in questo disco.

Amy Winehouse
Frank
“Pumps”, per gli inglesi sono i decolleté, le scarpe. Delle cui versioni le inglesi spesso abusano, come si sa. “Fuck me pumps” si potrebbe tradurre come “scarpe da scopata”, con rispetto parlando, ed è un’espressione usata per indicare un abbigliamento agguerrito, benintenzionato. Amy Winehouse, che è giovane, spiccia e londinese, sfotte le ragazze un po’ agées che pretendono di andare ancora a caccia di uomini in giro nei bar, sperando di sposarsi un calciatore e scegliendo ogni sera come vestirsi da un repertorio convenzionale e omologato: “non puoi sederti bene perché hai i jeans troppo stretti, ma almeno le tue tette costano più di quelle della tua vicina”.

Marzo 2004

Howie Day
Stop all the world now
Se frugate bene nell’armadio, qualcosa potreste ancora trovare. Ma a scanso del ridicolo, meglio se andate in uno di quei negozi casual-giovanili (senza esagerare: non uno da skateboarders) e vi comprate un maglione colorato un po’ oversize, o dei calzoni larghi con le tasche. Delle Nike, anche. Insomma qualcosa che senza farvi ridere dietro vi faccia sentire come quando eravate giovani e le giornate di primavera si potevano buttare via stando in giro tutto il giorno, e ascoltando gli U2 nell’autoradio, o nel walkman. Ora gli U2 si sono fatti vecchiotti, ma Howie Day – 23 anni, del Massachussets, il posto dove i gay possono sposarsi – riesce a somigliargli e a sembrare nuovo assieme. Mi raccomando gli occhiali da sole.

Ani DiFranco
Educated Guess
L’abbigliamento più consono all’ascolto di Ani DiFranco è un pigiama di flanella, preferibilmente a quadri, un po’ consumato. Anzi, per corrispondere più adeguatamente al suo stile indipendente fatto-in-casa-e-tutto-da-sola, meglio se vi siete cuciti un paio di toppe sul suddetto pigiama. Per carità, non commettete lo sgradevole errore di confondervi con un pigiama di cotone elastico.
Ani DiFranco ha trent’anni ed è una riverita cantautrice impegnato-folk assai di sinistra, americana. Il pigiama è adatto per ascoltare il disco, quasi solo chitarra e voce, la mattina, per un risveglio soft. Naturalmente non va bene se siete di quelli che si svegliano e cominciano a correre. L’ascoltatore tipo – eterno adolescente post-campus – si sveglia dopo le nove e si trascina per casa con una tazza in mano prima di cominciare a combinare qualcosa.


Gianna Nannini
Perle
Non c’è niente di più rassicurante di vestirsi bene senza motivo. Senza impegni. Senza appuntamenti. Senza serate. Senza dover fare bella figura. Bisogna mettersi le cuffie nelle orecchie, una bella giacca da aperitivo (non una robona da sera, uè), delle scarpe da signore/a, e una sciarpa morbida. E andare passeggiando per Trastevere ascoltando Gianna Nannini che rifà le sue canzoni in tutt’altro modo, beato, con pianoforti, archi e orchestre. Persi e sognanti abbastanza da non chiedersi di nuovo che accidenti vuol dire “i maschi disegnati sui metrò confondono le linee di Mirò. Che ve lo dico affa’: evitate il profumo.

Lambchop
Aw C'Mon / No You C'Mon
Dipende un po’ dai climi, ma per ascoltare i Lambchop meno si è vestiti e meglio è. Dipende anche un po’ dall’aspetto e dall’intimità con gli eventuali presenti, naturalmente. Comunque, per non sbagliare, un paio di jeans consumati e una t-shirt grigia vanno bene senz’altro. Tanto per godersi queste canzoni notturne, cantate profonde, sonnifere, è meglio mettersi belli svaccati su una poltrona e guardare fuori. Qualcosa da bere aiuta. Loro sono di Nashville, e lui ha una voce sensazionale, che chissà dove l’ha vinta. È un disco da vecchi sentimentali, sappiatelo. E state scalzi, comunque.

Gennaio - Febbraio 2004

John Martyn
Classics
La verità è che quaggiù John Martyn non lo conosce quasi nessuno. Lui fa dischi da trentacinque anni. Anche Dylan, certo: ma John Martyn li fa diversi tra loro. È scozzese. È stato alcoolista per metà della sua vita. È stato cantato da Nick Drake, Françoise Hardy, Beck ed Eric Clapton. Ha lavorato con The Band, Phil Collins, David Gilmour e Talvin Singh. È partito dal blues, è passato al folk, al soul, al rock, all’elettronica, e anche tutti assieme, e ha sempre avuto una voce formidabile. Poi ha cominciato a cantare lui le canzoni degli altri, da Ben Harper ai Portishead. È Van Morrison, ma da vivo. La canzone che poi gli cantò Eric Clapton faceva così: “Possa tu mai posare il capo senza che una mano lo accolga, possa tu mai dover dormire fuori al freddo”

Okkervil River
Down The River Of Golden Dreams
“Così hanno trovato un luogotenente che aveva sterminato un villaggio di ragazzini. Quando ebbe finito con le donne, pulì il coltello, e se ne andò”. La canzone più bella e struggente di questo disco parla di un criminale di guerra alla sbarra, della banalità del male, e del nostro desiderio, a vederlo in tv, che lui sia un mostro, che sia diverso da noi, “di un altro tempo, uscito da chissà quale buco”. Poi ne hanno trovato uno davvero in un buco.
Loro sono texani, al terzo disco, e grandi raccontatori. Come Conor Oberst dei Bright Eyes, sono quel genere di scrittori che non ama il ritmo strofa-ritornello. “con tutto quello che ho da dire, ci manca pure che perda tempo a ripetere gli stessi versi”, spiegò Oberst.

High Llamas
Beet, Maize and Corn
Adesso, con rispetto parlando, saranno stati più importanti i Beatles o i Beach Boys? Con rispetto parlando, avranno indovinato più canzoni i Beatles o i Beach Boys? Hanno lasciato più tracce di sé i Beatles o i Beach Boys? E allora, perché ogni mese pare nascere una nuova band che “ricorda i Beach Boys”, a dire dei critici, e mai nessuno che pare i Beatles, salvo il compianto Elliott Smith? Comunque, degli High Lllamas che parevano i Beach Boys lo dissero già alcuni dischi fa. Adesso li paiono ancora, un po’, ma si fanno anche molto i fatti loro. Strumenti acustici, coretti, archi qua e là e – Dio li benedica – percussioni e batterie che bisogna cercarli con il lanternino. Un disco da essere in spiaggia, da qualche parte in Bretagna, cinquant’anni fa: e a un certo punto arriva Brigitte Bardot, da piccola.

Paolo Benvegnù
Certi fragilissimi film
“Lascio che le cose passino e mi sfiorino” non è esattamente un concetto rivoluzionario né un verso mozzafiato. In questo senso, “Lascio che le cose mi portino altrove” di Morgan, oltre a denotare un’attenzione comune ai migliori cantautori italiani per ciò che le cose debbano fare di loro, era un po’ più originale e costruttiva (per giunta, più in là c’è: “Ho visto i platani parlare con le antenne”. E Morgan invece: “Vedo gli alberi camminare“). Ma è il ritornello della prima canzone – molto bella - del disco di Benvegnù, già negli Scisma: band ignota ai più, ma con parecchie onorificenze della critica all’occhiello. Il disco è malinconico e cupo, e bello. A essere bello bello gli manca di limare qualche verso (“io e te siamo quei venti che cambiano i deserti”, “noi siamo fiamme di immagini che volano”), ma c’è tempo.

Dicembre 2003

Filippo Gatti
Tutto sta per cambiare
A parte che finora in questa rubrica era comparso un solo disco italiano (e uno greco, e uno portoghese, e uno francese, e uno tedesco, e uno portoghese, e uno islandese), e questo dovrebbe bastare a dare il segno di una certa anglofilia altezzosa difficile da scalfire. Ma forse mi azzarderei persino a dire che questo sia uno dei due migliori dischi dell’anno – assieme a quello di Damien Rice, irlandese – dopo aver verificato che il contatore degli ascolti del mio iMac indica per Kaya (la prima canzone del disco) il numero 44, superiore persino a Still di Elvis Costello (39). A voler essere insolenti, si potrebbe dire che questo è il disco che Ivano Fossati o Mauro Pagani avrebbero fatto se fossero stati più giovani.


Edwin Moses
Love turns you upside down
Facciamo un patto: io vi confesso che Edwin Moses non è un dimenticato campione del soul di Chicago, amico e collaboratore di Curtis Mayfield, Isaac Hayes e di mezza Motown, e che questo non è un suo capolavoro dimenticato recuperato dagli archivi, e voi lo ascoltate senza pregiudizi, d’accordo? Ok, tutta la storia se la sono inventata due spagnoli di Gijón di qualche fama in patria, e con questo terzo cd hanno messo in giro il miglior disco soul dell’anno. Però avete promesso, eh?

Duncan Sheik
Daylight
Qui si pratichi un esperimento: si prenda un lettore della presente rubrica e gli si consigli il nuovo disco di Duncan Sheik dopo aver verificato che non abbia mai ascoltato il suo meraviglioso cd di tre anni fa, Phantom Moon, composto insieme al poeta e drammaturgo Steve Sater. Il risultato dell’esperimento potrà essere uno dei seguenti: a) “bah, gradevole poppetto, ma niente di speciale”; b) “bello, bella voce, rimane in testa e alcune canzoni sono davvero molto belle”; c) “meraviglioso, lui ha una voce formidabile e il disco è commovente: ma anche se in Italia è appena stato distribuito, in America era uscito l’anno scorso”. Si redarguisca con severità la cavia “c”, che ha mentito sul non essere un fan di Phantom Moon.

Twilight Singers
Blackberry Belle
Questo è un disco lugubre e malinconico, ma con del ritmo. Un po’ l’invenzione che aveva fatto la fortuna dei Portishead, con la differenza che i Portishead ci sono già stati e i Massive Attack pure. Ma la scelta – annunciata dai primi versi: “Black out the windows/It's party time” – funziona lo stesso. I Twilight Singers se li è inventati il leader di una band alternativa americana di culto, gli Afgan Whigs, cooptando musicisti da altre bands alternative americane di culto, e persino Apollonia Kotero, già vocalist di Prince. Non è un disco da canticchiare sotto la doccia, bisogna aver tempo da perdere per ascoltare tutti gli strumenti e i suoni, e può aiutare una finestra da cui guardare fuori. Non è un disco qualsiasi.

Novembre 2003

Mojave 3
Spoon and rafter
In realtà c’erano altri due cd di cui avrei dovuto scrivere, per avere il meglio in circolazione: quello di Damien Rice e quello di Elvis Costello. Solo che il primo l’ho già recensito il mese scorso, e vabbè che è bello assai, ma non bisogna esagerare. E del secondo avete letto un po’ ovunque, e a quest’ora avrete anche visto i concerti italiani, forse. Quindi vengo al terzo cd in ordine di bellezza che trovate nel settore novità dei negozi: una versione moderna dei vecchi Pink Floyd che arriva dalla Cornovaglia. Forse questo non vi dirà granché, ma mettiamola così: è un disco di canzoni diverso dagli altri.

Randy Newman
The Randy Newman songbook vol. 1
Quest’uomo è grandissimo. Punto. I casi sono due: o già lo sapevate, oppure no. Se già lo sapevate, è inutile che stiamo qui a peder tempo. Se invece no, dovrei scrivervene un quattro cartelle almeno (cosa che peraltro ho già fatto, una volta). Così, in poche parole, non sono capace. La cosa migliore è che compriate questa raccolta di suoi pezzi vecchi e molto vecchi reincisi per l’occasione per soli pianoforte e voce, e lo capiate da soli. Beati voi.

Josh Rouse
1972
Josh Rouse è nato nel Nebraska, nel 1972, e ha inciso questo disco a Nashville, Tennessee. Lo ha fatto a forma di quell’anno là, con una grafica tipo Austin Powers e delle canzoni hippy da sentire nella due cavalli, andando verso il mare, o verso un altro qualsiasi orizzzonte. Step out into the sun and spread the love vibration.

Rufus Wainwright
Want one
Apprezzato cantautore pop, figlio d’arte, gay e americano, dà alle stampe disco con copertina kitsch che neanche i Roxy Music (e apre il disco, restando nel kitsch, con una citazione del Bolero di Ravel), e di cui si potrebbe dire in sintesi, con sprezzo del pericolo che: è una via di mezzo tra Billy Joel e i Radiohead. Lo riscrivo, che sennò pensate a un lapsus: è una via di mezzo tra Billy Joel e i Radiohead. Baracconata di pop orchestrale, e lo stesso vi dirò: non è niente male.

Ottobre 2003

Damien Rice
O
Manuale di conversazione su Damien Rice:
“lui è irlandese, della contea di Kildare”
“sai che quattro anni fa, ha girato per l’Europa suonano per strada? Per un po’ è stato anche in Toscana”
“che titolo strano per un disco, no? Però ho letto che è il quinto disco che si chiama così nella storia del rock”
“mah: è un po’ David Gray, ma più folk; un po’ Ryan Adams, o Jeff Buckley, anche”
“in Irlanda “O” era uscito a febbraio dell’anno scorso e ha stravenduto, così ora lo stanno ripubblicando in tutto il mondo”
“In Italia non si trova ancora, ma io l’ho ordinato su Amazon: c’è una confezione lussuosa con un vero libretto di testi, foto, disegni”;
“in America il disco era appena uscito e sono subito esauriti i biglietti per i concerti di New York, Philadelphia, Boston, Pittsburgh e Toronto”
“beh, anche a Portland, San Francisco e Los Angeles, dove deve ancora suonare: e poi continua il tour in Inghilterra e anche lì è tutto esaurito”
“è uno dei più bei cd di quest’anno, dai retta”
“cioè, dell’anno scorso”

Seal
IV
Manuale di conversazione su Seal:
“lui è inglese, si chiama Samuel Sealhenry, ma i suoi svengono dalla Nigeria e dal Brasile: per quello è nero”
“ed è laureato in architettura”
“la cicatrice in faccia gliel’ha lasciata il lupus, una malattia del sistema immunitario che ha avuto da piccolo”
“il disco si chiama IV perché è il suo quarto disco”
“ma va’?”
“il primo disco era bello; anche il secondo, abbastanza; il terzo deboluccio”
“il primo l’aveva prodotto Trevor Horn, quello dei Buggles; quello dei Frankie Goes to Hollywood”
“il secondo ha venduto bene perché c’era una canzone nel seguito di Batman”
“ci ha vinto un sacco di Grammys”
“IV è un po’ uguale a tutte le cose di Seal: canzonette leggerine, ma carine. Bella voce”
“e in radio andrà fortissimo”

Elbow
A cast of thousands
Manuale di conversazione sugli Elbow:
“sono cinque, dei dintorni di Manchester”
“a momenti sembrano i Radiohead; a momenti Peter Gabriel”
“questo è il loro secondo cd”
“in una canzone hanno messo anche il pubblico del festival di Glastonbury che canta”
“ti ricordi i cori da stadio dei Pink Floyd”
“ai critici inglesi il disco è piaciuto moltissimo”

Joe Henry
Tiny Voices
“ha pubblicato un sacco di dischi, ma prima faceva country-rock”
“poi si è stufato e ha cominciato a sperimentare: ha coinvolto un sacco di musicisti jazz e ora fa canzoni strane, notturna, molto jazzate”
“ha sposato la sorella di madonna”
“don’t tell me di madonna l’ha scritta lui”
“l’anno scorso ha prodotto il disco di Solomon Burke”
“abita a Los Angeles”
“lui odia George Bush”
“questo disco è bello, ma quello prima, Scar, era meglio ancora”

Settembre 2003

Ocean Colour Scene
North atlantic drift
Com’è bello quando esce un disco nuovo di qualcuno che sapete voi. Non i piezz’e novanta, quelli che vanno sulle copertine e che pare che il mondo debba essere rivoltato come un guanto perché loro hanno fatto un disco. Il nuovo di Eminem, il nuovo degli U2, il nuovo dei Radiohead, il nuovo di Madonna. Pare che debba cambiare tutto, dopo. No, io parlo di quei dischi che dopo cambieranno solo certi vostri pomeriggi. Quelli che avete l’impressione di conoscerli solo voi e quattro alti disgraziati, e vi ci affezionate. Vi faccio un esempio: gli Ocean Colour Scene sono al loro settimo disco. Ma pensa. Io li scoprii al loro secondo, che era bellissimo: una specie di Oasis, più bravi e più vari, capaci di grande pop inglese a cui sfuggiva spesso la mano sul rock vero. Dopo hanno continuato a fare dischi, appunto, molto simili. Compreso questo. Non è un capolavoro, ma oggi è un piacevole pomeriggio.

Gillian Welch
Soul Journey
Oppure, Gillian Welch. Sapete la storia della colonna sonora country-cajun di “Fratello dove sei?”, che senza nessuna promozione vendette uno sproposito in America, unico disco di qualità nei primi dieci venduti l’anno scorso? Quelle storie che fanno sperare in un pomeriggio migliore. Beh, dentro c’era anche lei. Faccio un esempio: io avevo sentito una sua canzone che si chiama “Time the revelator”. È una canzone bellissima: la potrei ascoltare a ripetizione per ore e ore e rintontirmi di qualsiasi panorama abbia davanti. Anche un muro di mattoni. Se potete, procuratevela (senza fare peccato mortale di download illecito da internet, che poi diventate ciechi). Adesso lei ha fatto un disco nuovo, molto bello. Gli anni volano, diceva quello, sono certi pomeriggi che non passano mai.

Mogwai
Happy songs for happy people
Oppure, i Mogwai. Uno che si chiama John Parish, e che di queste cose se ne intende perché fa e produce musica da un bel po’, spiegò una volta che quello che sulle riviste viene chiamato post-rock è nato quando si è capito che il rock può anche fare poco uso delle voci e molto delle canzoni strumentali. Che poi è l’idea su cui hanno fatto il botto i Radiohead, a un certo punto. Insomma, per fare un esempio: io ascoltai un vecchio disco dei Mogwai di musica bellissima e dolce pur essendo tosta e rocchettara. Questo nuovo è bello uguale.

Super Furry Animals
Phantom power
Siccome poi dite che scrivo sempre le stesse cose, non vi farò l’esempio degli Steely Dan, che hanno fatto un disco molto bello che suona come tutti i vecchi dischi degli Steely Dan. Ai Super Furry Animals non ero affezionato, non avevo nessun loro disco, ho letto che usciva il nuovo e non me ne è fregato niente. Oplà, sorpresa: è una pacchia. Canzonette. E siccome poi dite che dico sempre che un disco è bello, copio da Mojo, che è l’ultima rivista inglese di musica un po’ decente: “Chiariamo subito: Phantom Power è un disco favoloso, un album gioioso, toccante, buffo, totalmente seducente in cui potete perdervi per un’ora, un giorno, una settimana”. Pomeriggi, insomma.

Luglio-Agosto 2003

Nitin Sawhney
Human
Non è che si nasce imparati. Magari ci sono anche delle persone normali, che leggono di questi dischi, e non li hanno mai sentiti nominare. E chiedono: ma tu, dove li trovi? In un sacco di posti. Nitin Sawhney, per esempio. Fnac alle Halles, Parigi, autunno del ’99: c’è questo cd in grande esposizione. I francesi, si sa, se la tirano: e la musica gli piace “strana”. Hanno dei fittoni terzomondisti che spesso danno risultati imbarazzanti. Ma quando ci indovinano ci indovinano, come con il Buena Vista Social Club. O come con Nitin Sawhney, anglo-indiano di dolcezze indefinibili, tra il pop britannico e certe cantilene orientali. Si chiamava “Beyond Skin”, quel disco. Questo gli è bello uguale.

Vasilis Tsabropoulos
Akroasis
Con questo è più facile. Intanto è un disco della ECM, che è l’equivalente di Adelphi tra le etichette discografiche. Ma, come per Adelphi, a vederli da fuori ti sembrano tutti uguali. Venne il sindaco di Roma a un programma tv e parlò del suo libro su un giovane jazzista italiano morto suicida. Uscendo, mi consigliò questo disco di pianoforte. Quelli seri troverebbero scandaloso che io sostenessi che è molto bello perché è lo stesso genere di roba di certo Keith Jarrett o del Tord Gustavsen di cui scrissi un mese fa. Ma oggi quelli seri li stiamo ignorando, d’accordo?

Tindersticks
Waiting for the moon
Qui ho dovuto ricostruire, far delle telefonate. E alla fine non ci sono riuscito. Nessuno si ricorda come saltarono fuori. Eravamo a Pisa e c’era questa cassetta, nel ’97, del loro primo cd, che aveva una copertina stupenda con il disegno della gonna rossa di una ballerina di flamenco. Chi me l’aveva registrata? Vatti a ricordare. Facevano delle canzoni notturne, tese, con una voce tenebrosissima e gli archi che si infittivano e all’improvviso rilasciavano un ritornello liberatorio e canterino. Da allora ho comprato tutti i cd dei Tindersticks, e anche quello con la gonna rossa. Non è che siano cambiati molto, da allora. Ora hanno fatto questo bel disco, intercambiabile con quello.

The fog
Ether teeth
Questi li ho scoperti da poco. È andata così: c’è un negozio di dischi, a Milano, con una solida storia. Ci sono stato il mese scorso e ho chiesto il cd di Smog, di cui avevo letto su una rivista. Smog o Fog?, hanno chiesto loro. Nel dubbio, datemeli tutti e due. Quello di Smog era così e così. Questo è una pacchia, invece: lui ha 24 anni, viene da Minneapolis e mette insieme suoni elettronici e non, rumori, oggetti, voci, uccelli e auguri di compleanno in un brusio continuo in cui appaiono nenie formidabili e allegrie malinconiche (lo so che non si capisce cosa vuol dire, allegrie malinconiche, ma mi è venuta e la tengo). È un disco a cui ci si affeziona.

Giugno 2003

Polyphonic Spree
The beginning stages of
Con i tempi che corrono, 24 texani in tunica bianca potrebbero essere un incontro assai preoccupante per qualunque cittadino democratico, figuriamoci per quelli delle minoranze. Ma le reazioni sono state piuttosto sull’attonito, quando tutti e ventiquattro sono stati visti a passeggio per New York cantando tutti e ventiquattro assieme e muovendosi come una via di mezzo tra uno stormo di storni sui cieli di Roma e una corale gospel di Memphis. Una corale, lo sono in effetti, “una corale sinfonica pop”, che si è fatta notare dai giornali musicali dopo aver ipnotizzato il pubblico dei loro concerti, che pare siano difficilmente descrivibili (una volta hanno portato sul palco un pinguino, una zebra e un coccodrillo, un’altra volta hanno celebrato un matrimonio) ma piuttosto coinvolgenti. Una specie di Beach Boys con le famiglie al seguito, che stanno per far uscire il loro nuovo cd. Intanto esercitatevi su questo.

Tord Gustavsen Trio
Changing places
Tu, che hai tutti i cd di Keith Jarrett, e tu, che hai solo il Concerto di Colonia di Keith Jarrett, e anche tu, che hai il Concerto di Colonia ma anche “The melody at night, with you”, che è il suo più bel cd di standards (Keith Jarrett ha due grossi scatoloni: quello dei concerti – Vienna, Parigi, Colonia, Bregenz, La Scala, eccetera – e quello degli standards, e ogni due per tre pesca e fa un disco), e tu, che non hai nemmeno un cd di Keith Jarrett, e poi chi è, ‘sto Keith Jarrett?, insomma a tutti non può che far bene un trio norvegese jazz in cui il pianoforte ha il sopravvento e le melodie liquefanno le scorze più dure. Vi voglio bene, a tutti.

Mariza
Fado em mim
Se vi trovate in questo momento arrampicati su al castello di San Giorgio, seduti sulle mura vicino ai leoni di pietra, e guardate giù Lisbona e il mare in fondo e il sole tramonta, e quel vento atlantico vi soffia addosso un po’ caldo e un po’ no, ci sono solo due cose che vi allontanano dalla felicità terrena: qualcuno che vi prenda un’ordinazione e un disco come questo. (Se siete tornati da Lisbona, e vi prende la malinconia, certe sere, a Milano, potete farvi un aperitivo con la ciliegia in cucina, e mettere un disco come questo).

Mountain Goats
Tallahassee
No, questa pagina non è diventata la sezione “Nuovi suoni” di una rivista del settore. Un disco di rocketto americano ce lo troverete sempre, ma ve la voglio mettere così, invece di parlare dei racconti di queste canzoni, delle chitarre, delle ballate, e quelle cose lì. Ve la voglio mettere così: se li avessi scoperti prima, che so, il 15 febbraio di quest’anno nel primo pomeriggio, avrei preso la macchina e sarei andato a Rovereto al loro concerto.

Maggio 2003

Simply Red
Home
Certo, a voi i Simply Red ricordano una certa stucchevolezza sintetica degli anni Ottanta, volatili e spensierate canzonette che a insistere oggi paiono datate, e poi lui abitava pure a Milano, per colmo di sfacciataggine, e le modelle, e le passerelle. Certo, voi riconoscete nella canzone che si sente sempre in radio la versione originale di Hall & Oates, appena modificata. Certo, voi pensate che un ragazzotto con i capelli rossi – che abitava pure a Milano – non dovrebbe incidere una cover di Bob Dylan, e pensate che il soul un accidente, il soul lo fanno i neri. Ma provate a immaginare di essere una bambina di tredici giorni, che si è appena svegliata e si sta guardando intorno. A lei queste canzonette mettono allegria.

Richard Hawley
Lowedges
Come lo vorreste, vostro papà, se foste una bambina di 13 giorni? Non lo vorreste grande, protettivo, con una voce profonda e dolce? Non vorreste che vi cantasse “Oh my child, it’s been a while”, quando torna a casa, la sera e vi trova lì imbambolate nella culla? Non lo vorreste un po’ all’antica, solenne ma sobrio, affettuoso ma solidamente ostile all’uso di percussioni superflue? Non vorreste che avesse una motocicletta? Non vi intenerireste a sapere che papà deve cancellare un tour perché ha un guaio ha un dito e a volte non riesce a suonare la chitarra? Come lo vorreste?

Lisa Germano
Lullaby for liquid pig
Chissà com’era Lisa Germano quando aveva tredici giorni. Com’era il suo papà. Se immaginava che da quelli strilletti la bambina avrebbe tirato fuori questa voce sussurrata, che viene da chissà dove. Chissà se le filastrocche che le cantava lui somigliano a quelle che canta lei, se immaginava che sarebbe diventata violinista, che sarebbe diventata malinconica, che avrebbe suonato con David Bowie, che avrebbe inciso sei cd e che avrebbe compiuto quarantacinque anni durante la guerra. Era piccola piccola.

Damien Jurado
Where shall you take me?
Quando una bambina di tredici giorni sarà grande, le racconteranno che con questo disco si addormentava. Le diranno che nei momenti più difficili di quell’intenso periodo della sua vita, quando il papà cercava di convincerla con argomenti solidi e razionali che la mamma sarebbe rientrata a minuti, mentre lei per esperienza riteneva impossibile che si potesse anche solo uscire di casa, o quel che era, e muoveva conseguenti obiezioni, solo l’ascolto di queste languide ballate western la riassopiva per il tempo necessario. Le diranno che questo disco fa dormire i bambini.

Aprile 2003

Howe Gelb
The Listener
Avete presente Lou Reed? Bene. Avete presente Spike, il fratello di Snoopy? Quello che vive nel deserto in mezzo ai cactus, solo e malinconico, e racconta dei diversivi con cui passano il tempo, lui e i cactus? Bene. Adesso, immaginate che Lou Reed un giorno sia caduto fuori dalla macchina, come l’Armando (avete presente l’Armando?), mentre attraversava l’Arizona e sia rimasto svenuto lì per un po’. Quando si è svegliato aveva intorno diversi cactus e Spike. Spike l’ha accompagnato in un certo baretto perso in mezzo al deserto per farsi un cicchetto e ricordarsi chi era. Lou non si è ricordato, ma nel baretto c’era un vecchio pianoforte a parete, e si è messo a suonare qualcosa. Alla fine, è rimasto lì a fare il pianista di pianobar, in mezzo ai cactus. Non ricorda il suo nome, è sempre un po’ suonato e Spike gli chiede sempre come si sente, oggi: “How are you?”. I cactus lo chiamano Howe.

Bonnie Prince Billy
Master and everyone
Fuori nevica. Dentro è una stanza vuota, le pareti di legno, grandi finestre. Lui suona la chitarra, la pizzica, seduto su una sedia, e canta. Ma piano, più che cantare borbotta, sussurra, si sente la sedia che scricchiola e la suola che si sposta sulle assi del pavimento. Le corde tintinnano. Le canzoni sono sottili, dolci, nenie, a momenti. Non sai dire se sia musica molto avanti o musica molto indietro. Fuori nevica.

Vero
Preghiere
Leggo: “Fabio Barovero è nato a Torino nel 1966 e attualmente vive in Val di Susa”. Leggo: “Durante una settimana, i microfoni posizionati sopra il pianoforte di casa a qualsiasi ora del giorno e della notte, hanno permesso di farmi registrare un totale di cinque ore di improvvisazioni, umori e respiri”. Leggo: “Dopo un mese o due ho riascoltato”. Leggo: “come quando sbagli permanente ma le persone sorridono ugualmente e ti vogliono”. Ci sono voci passanti, strumenti appoggiati in giro, dialoghi, suoni meridionali, e il pianoforte. È un disco strano e bello.

Maximilian Hecker
Rose
Se tu sei tedesco, ventiquattrenne, e fai un cd di pianoforte, elettronica e falsetti, con canzoni che si intitolano “Kate Moss” e “My love for you is insane”, tutto molto anni Ottanta nei suoni e nelle parole, struggente e sdolcinato che a momenti pare quasi l’arrangiamento del Tempo delle mele, i casi sono due. Caso uno – novantanove per cento delle probabilità – viene una roba svenevole tra l’imbarazzante e il ridicolo, che solo i tedeschi si possono ancora bere. Caso due, per un colpo di bacchetta magica che nessuna logica e raziocinio sono in grado di spiegare, viene molto bello. Salacabùla megicabùla bibbidi bobbidi bù.

Marzo 2003

Carla Bruni
Quelqu’un m’a dit
Sono tre giorni che sto ascoltando ininterrottamente il disco di una top model che canta con vocetta infantile canzoni francesi che potrebbero essere di Françoise Hardy: manca Tous les garçons et les filles, ma in compenso c’è Il cielo in una stanza. Dev’essere l’età, credo che invecchiando capiti, mi sento un po’ Jean Gabin con la giovane Brigitte Bardot in quel film, come si chiamava? Ecco, non mi ricordo. Comunque, più lo sento e più mi piace: sto cominciando ad avere paura di me stesso. Mi guardo le rughe allo specchio. Ho chiesto anche a degli amici: dicono che la voce è bella, e anche gli arrangiamenti - minimi con quasi solo la chitarra - e che non c’è niente di strano che mi piaccia. Ma non sono convinto. Sto invecchiando.

The Aluminium Group
Happiness
Poiché sto invecchiando, mi vengono delle nostalgie. Mi sembra, per esempio, che le cose una volta fossero meglio. Tipo quella trasmissione di musica, quella con lo spilungone vestito tutto di bianco. Adesso mi viene in mente, un momento ancora. Comunque, quella con i video dei Simple Minds e Flavio Giurato e gli Spandau Ballet. Dai, lui è quello alto alto che poi ha fatto un programma in cui parla di internet. Vabbè, comunque metteva anche i video di Joe Jackson e Donald Fagen, quello degli Steely Dan. Quel disco di Donald Fagen, The Nightfly (dì la verità, che me ne ricordo di cose, non sono ancora così rimbambito, eh?), era bellissimo. Insomma, sarà che sto invecchiando, ma questo cd degli Aluminium Group – e anche un altro di una band che si chiama “The sea and the cake”, uscito negli stessi giorni – mi ricorda Donald Fagen, e quella trasmissione di là col tipo vestito di bianco, va’ e sappi come si chiamava.

Willy De Ville
In Berlin
Lo so. Lo so che si dice che il blues è una musica da vecchi. Ma intanto per cominciare, io ho una nipote di vent’anni che va matta per il blues, e basta. E poi, a me il blues non piace. Non mi piace e non mi è mai piaciuto. Non lo capisco, e lo trovo noioso. Quindi sarò ignorante, semmai. Ma non sono vecchio, sennò mi piacerebbe il blues. L’unico disco di blues che avevo è il concerto Unplugged di Eric Clapton, che è bellissimo, ma i puristi vi spiegheranno che quello non è blues, è una cosetta all’acqua di rose per noi ignoranti a cui non piace il blues. Infatti, adesso ne ho tre, di dischi di blues. Quello di Clapton, e questi due di Willy De Ville, anzi del suo “acoustic trio”. Una cosetta all’acqua di rose, per noi a cui non piace il blues.

Jesse Malin
The fine art of self destruction
Adesso, non è che perché sto invecchiando ve ne dovete approfittare. Non è che se dico che mi piace questo Jesse Malin, tutti lì a sgignazzare e a dire “etticrédo, sembra Neil Young”. Non è che c’ho l’età di Neil Young. Non è che sono come quelli lì che a quarant’anni e passa vivono ancora con la mamma e i poster di Jim Morrison e ciondolano nei negozi di cd di quartiere attaccando bottone ai commessi ed elemosinando sconti sulle ristampe di certi bootleg dei Ramones. Uè, ragazzini, portate rispetto. Il mese prossimo recensisco Britney Spears, e Carmen Consoli. E Marilyn Manson. Oh. (Bello, però questo disco: sì, è vero, sembra un po’ Neil Young).

Febbraio 2003

Cargo - High Tech 2
- Padre, l’ho fatto di nuovo
- Santo cielo, figliolo, ancora le calle?
- No, non è più stagione, padre
- E allora? Hai di nuovo ordinato sei sushi e sahimi misti in una volta sola?
- No, il giapponese non mi fa più entrare
- Non avrai mica passato un altro weekend intero al Buddha Bar?
- L’ultima volta mi hanno buttato fuori perché leccavo i bicchieri vuoti dei Cosmopolitan
- L’Hotel Costes?
- No, no, i fratelli Costes mi hanno interdetto da tutti i loro locali di Parigi
- E allora? Se hai solo letto un’altra volta Glamorama, pazienza…
- Ho comprato un’altra compilation lounge
- Ma benedetto figliolo, un’altra? Uguale a tutte quelle degli ultimi cinque anni?
- Già…
- E magari ti è piaciuta? Chi l’ha fatta questa volta, la pensione Mariuccia di Chiavari?
- Boh, un negozio di Milano. Sì, padre, mi piace un sacco. Mi fa sentire fighissimo


Joni Mitchell
Travelogue
Il critico del New York Times ha stroncato questo disco, è giusto che si sappia. Con rispetto, con amore e devozione, ma lo ha stroncato. Ha scritto che Joni Mitchell ha preteso troppo e troppo poco, a riassumere trent'anni di musica, 23 dischi, 22 canzoni, in una scelta su due cd, riarrangiata per una grande orchestrazione, a metà tra il sinfonico e il jazz. Il critico del New York Times ha paragonato i quadri di Joni Mitchell riprodotti nella elegante confezione - quadri ingenui, qualcuno gradevole, molti bruttini, assai colorati, ben dipinti - a questo doppio cd. Che l'artista non dovrebbe avventurarsi in terreni che non sa a sufficienza, quando in quelli consueti è così grande. Questo ha scritto il critico di New York Times. Il disco è bellissimo.


Beth Gibbons & Rustin' Man
Out of season
Mettiamola così. Mettiamo che "Out of season" sia esposto in tutti i negozi di dischi del centro. Mettiamo che il singolo "Tom the model" sia programmato a tappeto da tutte le radio, e le ragazzine la cantino andando al liceo. Mettiamo che Beth Gibbons sia sulla copertina di Panorama, questa settimana, e che Tom Webb sia intervistato da Vincenzo Mollica al TG1. Mettiamo che "Romance" sia la canzone scelta per la nuova campagna informativa del Consiglio dei Ministri. Mettiamo che in prima serata, contro la De Filippi, Raidue mandi uno speciale sui Portishead e i Talk Talk, le bands da cui vengono Gibbons e Webb. Mettiamo tutte queste cose. Sarei felice di come va il paese, finalmente, o geloso che tutti conoscano il miglior disco dell'anno?

Ben Folds
Ben Folds Live
Ad attraversare la storia del rock con un pianoforte sottobraccio si rischia di far storcere molti nasi. Il rock è roba da chitarre. I più grandi sono quattro: due, Randy Newman e Joe Jackson, sono immacolati; gli altri due, Elton John e Billy Joel, si sono sporcate le mani agli occhi dei sapienti nei piano bar e alle cerimonie. Tra tutti e quattro, fanno più di un secolo di carriere, diversi miliardi, due oscar, e la commozione di popolazioni di quaranta-cinquantenni. Poi c'è il quinto, in giro dal 1995, che va forte tra gli studenti americani, suona il piano, lo paragonano sempre a Elton John ma scrive canzoni che Elton John se le sogna da una ventina d'anni. Ma a farla completa, in questa raccolta dal vivo Ben Folds canta anche "Tiny Dancer", una delle sue canzoni più belle. Sue di Elton John.

Dicembre 2003

David Gray
A new day at midnight

Dice David Gray che fare un disco sull'11 settembre è una cosa quasi impossibile, troppo presuntuosa. Bruce Springsteen ci ha provato, dice, e non è che sia riuscito molto bene. David Gray è gallese e ha messo nel suo nuovo disco dei riferimenti alle sofferenze del mondo in quest'anno e alle sue in questi mesi, da che è morto suo padre. Il suo quarto cd aveva avuto una storia strana: fatto in casa e con pochi soldi era stato stravenduto solo in Irlanda dove era andato in testa alle classifiche. Poi, dopo ben due anni aveva fatto il botto in tutto il mondo. Milioni di copie. Canzoni, tutto lì. Le ha messe anche in questo nuovo disco, che non è così bello, ma quasi.

Bright Eyes
Lifted

"Chi diavolo è questo ragazzo e come ha fatto a sapere tutte queste cose di noi?". Conor Oberst ha 22 anni e da due anni spinge a domande come questa i giornalisti musicali americani. I Bright Eyes sono lui, e certi amici che tira dentro di volta in volta. "Un Tom Waits che ha ingoiato una Fisherman", ha scritto un altro. Una volta è venuto a Milano ad aprire il concerto di una band più famosa, e quando ha finito il suo turno non lo volevano mandare più via. Questo è il suo quinto disco – a ventidue anni, appunto – malinconico e strillato come sempre, ma più arrangiato e vario delle sue precedenti lamentele monocordi e incessanti. "Non ripeto i ritornelli; con tutte le cose che ho da dire, non posso permettermelo". Non sfonderà mai.

They Might Be Giants
No!

Una volta se volevate divertirvi e insegnare l'inglese ai bambini, non c'era niente di meglio che i Beatles, "All together now" in particolare. Adesso i Beatles se la battono con i They Might Be Giants, band americana di culto che sta facendo parlare di sé per una tournèe assieme al giovane romanziere Dave Eggers. I TMBG hanno pubblicato qualche mese fa "un disco per tutta la famiglia", di canzoni infantili e spiritose. Si chiamano "Where do they make balloons", "Clap your hands" o "I am a grocery bag". Particolare successo con i bambini avrà "No!", se non temete un effetto diseducativo. Il cd è "enhanced", nel senso che contiene dei cartoni animati dedicati alle canzoni visibili sul computer. Dice una nota: "La sequenza delle canzoni è pensata per giungere alla fine avvicinando al sonno, quindi gli ascoltatori non devono assolutamente operare macchinari o animali di peluche mentre ascoltano le ultime tre canzoni".

Sigur Ros
()

Qui a Rejkyavik non si sta male. Siamo appena 260 mila in tutta l'Islanda, e anche Bjork non la si vede quasi più. I cinque Sigur Ros vanno e vengono. Adesso che se ne vanno in tournée staremo ancora più larghi. Solo il Kaffibarin la sera è sempre pieno, ma mettono quasi sempre musica anni Settanta. I dischi dei Sigur Ros li sentiamo sì, ma non è che ci fanno perdere la testa come a voialtri americani e sudeuropei. Copertine, interviste, capolavoro, eccetera. Chisà come vi piacerà questo loro nuovo cd, se quello di tre anni fa vi era sembrato così straordinario. Per carità, bello era bello: struggente, sì, originale, inventivo. Ma, se si può dire, faceva venire anche un po' sonno, con quei pezzi lunghi nove minuti, e i pianoforti e i violini lamentosi e le vocette ancora più lamentose. No, no, non è che siamo invidiosi perché noi restiamo qui e alle due fa buio. Non si sta male, davvero. Vi piacerà, comunque.