La musica è finita,
gli amici se ne vanno
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Chissà cosa canticchiava
sotto la doccia, il
nuovo capo di EMI Alain Levy, la mattina che sarebbe andato in
ufficio ad annunciare che la società avrebbe tagliato
dai suoi contratti discografici 400 nomi in tutto il mondo. Lo
scorso anno le vendite dei cd in tutto il mondo hanno subito
perdite tra il 5 e il 10 per cento. La spiegazione è semplice,
tutta colpa di Napster, e fine di questo articolo.
Oppure no. Oppure diamo un'occhiata
a cosa significa la parola musica, di questi tempi, se ha a che
fare con canticchiare sotto la doccia. Avete presente come si
vendono i cd, no? I cd si vendono se la gente li conosce: nessuno
entra in un negozio e chiede "mi dà un cd a caso,
per favore?". Salvo i rari casi in cui ci si può
fidare del consiglio del commesso, i cd che si vendono sono quelli
che hanno avuto pubblicità. E la pubblicità passa
per due canali, essenzialmente: le radio e i giornali. Anche
la televisione, ma meno. Le radio le radio maggiori, quelle
che fanno ascolti rilevanti e orientano gli acquisti programmano
musica scelta in discreta autonomia, ma all'interno di una scrematura
a totale discrezione delle case discografiche. Diciamo che se
in un mese escono cento dischi, le etichette ne anticipano alle
radio venti e ciascuna radio sceglie di programmarne sei. Vale
a dire che poi sentiamo quindici volte al giorno Alanis Morissette
e zero Norah Jones, per paragonare due buoni dischi di cantanti
bianche. E quale dei due si venderà e quale no? Estendendo
il discorso, possiamo tranquillamente dire che per ogni canzone
che occupa uno dei primi posti in classifica ce ne sono altre
venti che potrebbero aver avuto quella sorte se la discografia
avesse scelto diversamente. Voi direte: ma i discografici sanno
il fatto loro e scelgono sapendo quali sono i dischi di qualità.
Parleremo di questo tra poco. Intanto prendiamo atto del fatto
che le radio con le loro programmazioni identiche e preparate
a tavolino - non servono più a consigliarci musica nuova
e prima sconosciuta ma a evitare che possiamo scoprire musica
nuova e sconosciuta (e che cambiamo stazione durante la pubblicità).
Veniamo ai giornali, ignorando
per correttezza questo. Mediamente, la qualità del giornalismo
musicale italiano è in una scala da zero a dieci
tra il due e il tre, direi. Anche volendo attribuire a
queste stesse considerazioni la medesima qualità, non
si farebbe che confortare la media. Il giornalismo musicale italiano
è innanzitutto eccezionalmente omologato: fare dei nomi
sarebbe inelegante, ma provate a distinguere una recensione su
uno dei quotidiani maggiori, da una su una rivista femminile,
da una su un mensile specializzato. Per gli autori, i lettori
di ognuno sono sempre gli stessi: stesse competenze, stessi interessi,
stesso linguaggio. L'approccio alla musica è fanatico,
autoreferenziale, elitario e pieno di cliché e luoghi
comuni, come se l'appartenenza a una setta dovesse essere dimostrata
con la ripetizione a memoria dei suoi codici e delle sue parole
d'ordine. Il giornalismo musicale è una sorta di negozio
di dischi di "Alta Fedeltà" (ve lo ricordate?)
su dimensione nazionale. Espressioni di pigrizia insuperabile
come "il boss", "il menestrello" e "i
fab four" arrivano di serie a qualsiasi citazione degli
artisti relativi (anche dell'uso di questa parola artisti bisognerebbe
parlare, ma teniamocela così, per oggi), come se a risparmiarsele
anche una sola volta si corresse il rischio di venir squalificati
da qualcosa. La musica islandese sarà sempre glaciale,
o evocante la natura di quei luoghi, o ribollente come i geysers.
Eccetera.
Tutta la scrittura è
fatta apposta per tenere alla larga ogni persona normale che
non sia intrippata dentro le stesse infantili carbonerie. E le
recensioni ne fanno le spese più di ogni altra cosa, scritte
quasi sempre solo per esibizione del recensore o dei suoi gusti
o per poter sfogare esercizi linguistici avvilenti e di nessuna
utilità per i lettori in cerca di informazioni sul disco
segnalato. Questo è un elenco di passaggi di recensioni
tratti dai maggiori quotidiani e settimanali e da alcune riviste
musicali: tenete a mente che si parla di dischi. Uno: "(il
precedente cd), carico di sospensione e indeterminatezza, era
stato un perfetto commiato dal secolo; ***** ritrova invece la
spazialità ampia e i percorsi di terra di un lavoro come
*****, ma li prosciuga di ogni specificità per dilatarli
lungo le terre incognite e pericolose del cambiamento".
Due: "energie che ora sembrano indirizzate verso un fine
ancor meglio precisato e fanno della levità e della rarefazione
il loro fine ultimo e sublime". Tre, "muri simbolici,
esplorazioni al confine tra realtà e irrealtà,
fuochi d'artificio dell'immaginazione, ma soprattutto, col senno
di poi, una vena dolente che all'epoca dei grandi entusiasmi
rischiava di essere trascurata". Quattro: "per cucinare
in prima persona suoni complicati e precari, dove contano, come
nel sushi, anche le più piccole sfumature". Cinque:
"Il cuore, infine, quello che giace e aspetta tranquillo
nelle sue profondità che un suono lo risvegli, è
nutrito (ma attenti, potrebbe esplodere) dalla voce di *****".
Sei: "Il Pop Mart della più alienante delle periferie,
con i musicisti inchiodati nelle loro postazioni in una sorta
di rappresentazione dell'incomunicabilità alla Van Der
Graaf Generator. Che produce il caos sonoro nel quale la voce
di ***** spazia paranoica, disperata, alienata". Sette:
"Concepito come una paradossale messinscena tv, o come un
invito ad ammutolirsi di fronte alle convenzioni della comunicazione
(). Le prime due canzoni sono strepitose per bellezza intrinseca
e per come si ricollegano ad altri modelli altrettanto strepitosi
(Prince, Neil Young, Neil Finn, Lennon). Il resto è in
sintonia: valanghe di piccole luci cui l'arte del pop deve ancora
molto. Anche se pochi sapranno come metterci le mani, e l'anima,
sopra". Attenzione, che qualche volta qualcuno parla davvero
di musica, invece: "Minore enfasi sulle cadenze drum'n'bass,
ora un po' demodé. In favore di ritmi più in voga:
dal breakbeat scolastico di *****, all'impulso "chemical"
che muove *****. Ma è in battuta bassa che ***** sviluppa
la maggior parte dei brani". Eeeeh? E una persona normale
dovrebbe trarre una qualche informazione da tutto questo? E io
dovrei comprare un disco perché uno mi dice che "le
prime due canzoni sono strepitose per bellezza intrinseca e per
come si ricollegano ad altri modelli altrettanto strepitosi"?
(modelli alquanto vasti, peraltro).
Ma ammettiamo che una persona
normale non sia respinta
da tutto questo e accetti i consigli che riesce a intravvedere
tra tanto fumo. Qui interviene il rapporto dei giornali e dei
giornalisti con gli uffici stampa delle case discografiche. Ossia,
nella maggior parte dei casi, un basso mercato in cui la possibilità
di avere retribuzioni che vanno dai cd gratis alle interviste
in esclusiva, a premi anche più cospicui, viene pagata
dai giornalisti con la segnalazione più o meno ampia di
questo o quel disco. Altre volte la cosa è più
leggera e cordiale: la casa discografica ti aiuta a fare il tuo
lavoro e quando ogni tanto ti chiedono un favore ti pare il minimo
andar loro incontro. È vero d'altra parte che ormai per
avere un rapporto con gli artisti prodotti commerciali
in ogni senso - bisogna sempre passare attraverso gli uffici
stampa che ne sono piazzisti, e che i direttori pretendono dai
giornalisti interviste in cui la rockstar di turno spieghi al
pubblico in deliquio il suo segno zodiacale, piuttosto che autentiche
critiche musicali. Quindi il mercato di favori è spesso
inevitabile: ma non approfondisco questa parte del fenomeno perché
non sarebbe giusto trattare i giornalisti musicali come un caso
particolare nella categoria.
Naturalmente, esistono i bravi giornalisti: quelli che non si
vendono, che sanno scrivere, che vogliono farsi capire, che non
si credono portatori della fiaccola, che si rendono conto che
fuori c'è un mondo e che non si sentono rockstar mancate
come scrisse qualcuno tanto tempo fa o che non sfogano
malamente l'essere costretti sempre più spesso a scrivere
dei Gazosa. Ne ho conosciuti. Ma è impressionante come
anche i più giovani e immacolati cronisti si avventurino
in questo mondo pensando di dimostrare la loro appartenenza alla
cricca attraverso l'uso degli stessi cliché. Almeno i
più giovani non sono però contagiati dalla crisi
dell'invecchiamento che porta la generazione dei critici dell'establishment
a parlare sempre e assolutamente di capolavori per i dischi dei
loro coetanei Bob Dylan, Neil Young, Paul Simon, eccetera, che
di capolavori cominciano a mancarne, ma non si può mai
dire.
Infine, ci sono le uscite e
gli artisti che fanno notizia per il loro successo passato, e
dunque ricevono spazio. Ricevendo spazio, il loro successo sarà
rinnovato, e così via. Faccio l'esempio di Michael Jackson,
ma non voglio rinnovare la querelle sul suo disco, quindi prendetelo
come un esempio sostituibile con un'altra delusione che ritenete.
Esce un disco di Michael Jackson, mediocre e peggiore di centinaia
di dischi di cui nessuno scriverà una riga. Gli si dedicano
pagine intere perché è di Michael Jackson e ha
un suo pubblico meritato in altri tempi. Grazie a tanta pubblicità
il disco vende comunque un po', mentre le centinaia di uscite
migliori continuano a restare ignote. E al prossimo disco, Michael
Jackson avrà sempre una mezza pagina. Vale per decine
di cd scadenti ogni anno. In sostanza, si scrive solo di chi
va in classifica, e va in classifica solo chi ha avuto scrittura.
Tutto questo va a scapito di una quantità straordinaria
di buona musica e soprattutto di chi non avrà mai l'occasione
di ascoltarla. Musica che in rari e memorabili casi riesce ad
affiorare per i suoi meriti e per il passaparola malgrado le
case discografiche non ci avessero creduto, privilegiando boys
band di quarta mano: Buena Vista Social Club, Moby, Manu Chao,
David Gray, pochi altri. L'anno scorso la colonna sonora di "Fratello
dove sei?" ha venduto tre milioni di copie nel mondo, senza
che nessuno avesse investito un dito nella sua promozione. L'avete
sentita per radio? Ne avete visto un video? Ne avete letto più
di un colonnino? Condenso queste vicende con un esempio: dei
dieci cd che io che valgo uno, un esempio e nulla più
ho segnalato come i migliori del 2001, solo uno Reveal
dei REM è stato promosso da un'etichetta maggiore
e quindi è stato programmato dalle radio italiane o citato
sui quotidiani maggiori. E molti di voi avranno le loro chicche
scoperte per caso e di cui non hanno mai letto una riga. Invisibili,
a favore di Michael Jackson, o dei Gazosa, il cielo li perdoni.
A volte le case discografiche riescono a piazzare dei prodotti
preparati a tavolino anche senza l'aiuto dei media. È
il caso della moda "lounge" o "chill-out",
come viene chiamata a seconda della vena del titolista. Come
sapete, da alcuni anni impazzano le compilation di questa musica,
guidate dalle pluriepisodiche "Cafè del mar",
"Hotel Costes" e "Buddha Bar". La chiamano
musica da ascensori del 2000: piacevole, spesso elettronica ma
non è detto, buona da ascoltare come sottofondo, quasi
impossibile venir colpiti da una singola canzone. E soprattutto,
terribilmente figa: per un periodo averne un cd sul tavolino
del soggiorno quando arrivavano ospiti sembrava irrinunciabile.
Poi, come tutte le mode modaiole, ha sbracato e ha raggiunto
anche gli angiporti e i negozi per animali, e ora le etichette
ne pubblicano raccolte su raccolte in cui non si distingue più
il criterio. Praticamente ogni artista del secolo è stato
incluso in una compilation chill-out (con l'eccezione di Bon
Jovi, ma non ci giurerei) solo guarnendolo di una copertina un
po' esotica o retrò. E si vendono, uh, come si vendono.
Minor successo ha avuto il "new acoustic movement",
una roba buttata lì non si sa da quale redazione dopo
che un paio di norvegesi avevano fatto un disco di ballate e
un cantautore inglese aveva avuto una svolta intimista. Vent'anni
fa una tendenza degna di questo nome era stata sostenuta da gente
come Sade, Everything but the girl, Smiths, Style Council, ma
oggi ci si arrangia come si può, con mediocri risultati.
Meglio è andata con gli Strokes, che piacciano o
no sono una semplice buona rockband come molte altre e
senza niente di nuovo da dire, ma che sono diventati assolutamente
di moda presso le redazioni musicali, e a non parlarne benissimo
ci si sentiva tagliati fuori.
Di quello che ha messo in
luce Napster rispetto
alle politiche della discografia mondiale si è già
detto quasi tutto. Le grandi etichette sono state pigre, avide,
pavide, prive di fantasia, lente e stupide. Hanno pagato l'incoscienza
con cui si erano convinte di poter restare sedute sul monopolio
della distribuzione della musica: scegliamo noi cosa farvi sentire,
scegliamo noi cosa mandare in classifica, scegliamo noi quanto
farvelo pagare, e nessun alito di vento ci spingerà a
mettere il naso fuori e vedere cosa succede. Nessuna lungimiranza
sulle nuove tecnologie, nessuna lungimiranza sugli artisti di
valore nel lungo periodo, grossi investimenti solo sui successi
immediati e volatili e sulle cause legali. Un fiume di cd con
al massimo due canzoni decenti da pagare venti euro (se parliamo
di prezzi italiani, ma non sono le inerti sezioni italiane delle
multinazionali del disco a portare le responsabilità di
queste scelte). Spese di marketing ipertrofiche per ottenere
che i media di cui sopra dessero spazio agli 'N Sync. O per convincere
i lettori che è proprio perché è inascoltabile
che devono comprare il cd dei Radiohead: campagna geniale, in
effetti, su cui la collaborazione supina della stampa è
stata totale. E ora si trovano a licenziare Mariah Carey: scelta
mai troppo lodata, ma un po' riduttiva del problema. "Cattive
pratiche industriali", ha detto il capo di EMI di come la
discografia si è comportata nello scorso decennio, annunciando
i tagli del 20% su spese, contratti e personale. Gli artisti
non hanno avuto la forza o la voglia di imporsi su questo giogo,
e oggi pagano anche loro un calo di vendite e di opportunità.
Adesso molti di loro stanno raccogliendo le forze per ribellarsi,
e chissà come andrà.
La parola musica, sul dizionario,
significa "Arte fondata sul valore, la funzionalità
e la concatenazione dei suoni". Di questi tempi, come abbiamo
visto, suona piuttosto così: un connubio tra la dittatura
dei profitti in parte anche legittima, nelle nostre società
e la mediocrità e vanità di molte delle figure
che la circondano. Non è da escludere, naturalmente, che
come molti sostengono sia per la televisione, la maggioranza
del pubblico voglia esattamente quello che riceve: ma per confermarlo
bisogna anche provare a dargli altro, e questo pare il momento.
Che lo faccia questo giornale, non sta a me dirlo. Nel frattempo,
canticchiate sotto la doccia.
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