La migliore rock band del mondo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Adam Duritz dei Counting Crows attraversa la sala del Palladium di Roma, e va a prendersi da bere al banco del bar. Tra poco inizierà il concerto: la band è per la prima volta in Italia, dopo il grande successo di critica del suo primo disco "August an everything after", uscito pochi mesi prima, alla fine del 1993. Ma fuori dagli USA sono ancora poco conosciuti e la sala è semivuota, non più di un centinaio di persone. Al banco del bar Duritz, robusto e ciondolante leader del gruppo, si vede venire incontro un ragazzo che ha la sua stessa età, poco meno di trent'anni. Quello deve aver riconosciuto i suoi dreadlocks, e gli offre la mano, dicendogli in inglese: "Ciao, il vostro è il più bel disco che abbia sentito da anni. Siete la migliore rock band del mondo". Una cosa da fan, ma Duritz non ricambia la stretta di mano e abbozza un sorriso tirato: borbotta un "thank you". E si allontana con il bicchiere in mano.
"Ero terrorizzato", dice oggi Duritz, a chiedergli di quei primi tempi di notorietà. "Le persone mi si avvicinavano come se mi conoscessero e io mi chiedevo 'Cosa vuoi da me? Perché mi parli?'. Non c'ero abituato, e per un lungo periodo non seppi entrare nell'ordine di idee che qualcosa era cambiato". Qualcosa era cambiato. Si dice che Duritz, autore delle canzoni dei Counting Crows, frontman, portavoce e animatore del gruppo, abbia attraversato allora anche una depressione seria, ma è una cosa di cui lui non parla. Magari non è vero. Oggi la sua band riempie i teatri americani, ma anche quelli italiani, oggi le cronache del concerto italiano di Lenny Kravitz parlano tanto di costui quanto dei Counting Crows che hanno aperto la serata, oggi mezza America conosce la sua faccia, vuoi per ragioni musicali, vuoi perché è stato fidanzato di mezzo cast di Friends (Jennifer Aniston, Courtney Cox) e di Mary Louise Parker (l'Henrietta di "Ritratto di Signora"): oggi sono la migliore rock band del mondo, o quasi. "Ma la popolarità e la fama non mi convincono ancora. Soltanto, uno impara che deve nuotare o affogare". Lui nuota molto sul sito internet dei Counting Crows, dove la settimana scorsa ha spiegato duramente ad alcuni fans duri e puri seccati dal boom di popolarità che "questo è un business. Non ve lo scordate. Io non sono uno che pensa che sia una butta parola. Business è quello che fanno gli adulti; sono i bambini a vivere senza tempo e a sfuggire al lavoro, ma gli adulti si occupano di quello e di raggiungere dei risultati. E il risultato che mi interessa è di fare il business dei Counting Crows nel modo migliore e senza nuocere in nessun modo al lato creativo".
Duritz è un giovanotto grande e grosso di trentasette anni, con il pizzo e i dreadlocks, e una faccia più da collettivo studentesco che da rockstar o sex symbol. Con gli altri cinque Crows - il nome viene da un antico verso inglese sulla vita che è insensata quanto contare i corvi - suonavano nei bar di San Francisco, quando qualcuno importante sentì un loro nastro, eccetera, la solita storia. Il disco d'esordio sbancò le recensioni ed ebbe un discreto successo: rock americano classico, un po' Dylan e un po' Nirvana, con un'imbattibile ispirazione melodica, sostenuta dal sapere quando usare un pianoforte e dagli eccellenti versi di Duritz, dolci, malinconici, cullanti. Con gli anni sono andati sempre più forte, pur senza fare niente di rivoluzionario, senza creare un genere: "Le etichette, i generi muscali, servono per gli scaffali dei negozi. A me non importa distinguere un'influenza dall'altra, né fare un tipo di musica particolare, finché si tratta di buona musica", spiega a proposito del suono tradizionale delle loro canzoni. "La gente sente che la nostra musica è vera, sincera, che parla di emozioni reali e sentimenti reali, che parla delle persone. Non c'è altro, siamo bravi. Prendi il grunge: quasi tutti imitatori, e niente di veramente nuovo. Ma i Nirvana hanno fatto il botto, e sai perché? Perché erano bravi. Prendi gli Strokes, che adesso fanno il rock che sentiamo dagli anni Settanta. Ma vanno fortissimo, e sai perché? Perché erano bravi". Adam Duritz parla lentamente, un po' perché pensa a quello che dice, un po' perché è a Londra e la notte prima ha festeggiato fino a tardi tra la folla la vittoria calcistica contro l'Argentina. Le sue canzoni raccontano quasi sempre di cose sue, storie, ragazze - "il disco nuovo parla dei ricordi, della memoria, di come le cose cambiano con il tempo" -, momenti. Mai del mondo, né di quello che legge sul giornale. "La musica non cambia il mondo, e chi lo sostiene non sa quello che dice. Pensa agli anni Sessanta, la rivoluzione della musica, i Beatles, Dylan, e tutto il resto: cosa ne è venuto? La presidenza Nixon. Io penso che siano le persone singole a cambiare le cose, per se stessi e per gli altri, non le folle. Il potere della folla mi fa paura". Le parole, nelle canzoni dei Counting Crows, scorrono e si legano, diventano la melodia. "Io non sono un poeta, io scrivo canzoni".
Il nuovo cd, il quarto - ma non bisogna trascurare uno straordinario doppio live a New York - esce in questi giorni e si chiama "Hard Candy". Ci cantano Sheryl Crow e Ryan Adams, ultimo eletto del rock americano. Duritz ha ritoccato i testi fino all'ultimo momento: "ogni tanto mi accorgo di commettere il peccato capitale dello scrittore di canzoni: scrivere versi che suonano fighi". Adesso sono partiti per l'ennesimo lungo tour, in cui non si sottraggono al ruolo di gruppo supporter: in questi anni hanno aperto i concerti di Who, Rolling Stones, Santana, Cranberries, Suede e Lenny Kravitz, oltre ad aver suonato con mille altri in concerti sempre diversi ("ogni sera cominciamo con la canzone che abbiamo voglia, e le altre vengono dietro") e ricchi di pezzi altrui: da tempo accarezzano il progetto di un disco di covers, massima umiltà per un grande songwriter. In "Mr. Jones", la canzone che li fece conoscere, cantavano "Tutti quanti vogliamo essere grandi star e ognuno per una ragione diversa". Ora sono la migliore rock band del mondo, o quasi: Duritz sorride appena e borbotta un "thank you", come otto anni fa.