I miei pregiudizi su Carla Bruni

Luca Sofri

Il Venerdì, 7 marzo 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’idea era questa: scrivo che è antipatica. Scrivo che se una nasce da una famiglia ricca e di artisti, cresce tra gente colta e cosmpolita, diventa la ragazza più bella del pianeta, ci guadagna un sacco di soldi facendo la modella, il minimo che il buon Dio possa fare per ricompensare noialtri sfigati, è renderla almeno antipatica. L’idea mi pareva un buon sistema per distinguermi da quelli, dagli intervistatori- adoranti-di-belle-donne, categoria che avvilisce alcuni noti campioni del giornalismo italiano. In realtà la prima idea era un’altra, più facile ancora: che se una è stata tra le modelle più famose del mondo e come tale è nota, quando esce un disco di sue canzoni ci si fa una bella risata e si stigmatizza la presunzione di quelli che non sanno stare al posto loro, aggiungendoci un po’ di insano maschilismo: ehi, bambina, sei uno schianto, ma ora lasciaci lavorare (vi ricordate il cd di Naomi Campbell? Appunto).
La prima idea però si è rivelata un fallimento umiliante. Carla Bruni – ex modella trentenne di famiglia franco-italiana – ha pubblicato un cd, “Quelqu’un m’a dit”, che anche se affrontato con il peggiore pregiudizio di cui mi ero solidamente armato, è molto bello. È molto bello, dannazione. Sia chiaro, il mio pregiudizio era meramente artistico: quando Carla Bruni splendeva sulle copertine di tutto il mondo io avevo l’età (la sua, in sostanza) in cui uno del mio sesso tende a investire una certa ammirazione in quel genere di ragazza. Ma adesso che le nostre vite si sono separate, diciamo, ho fatto fatica a immaginare che una bellissima ragazza con niente di meglio da fare potesse avere prodotto qualcosa di interessante in un settore artistico tanto affollato di cose inutili. Ho quei pregiudizi lì, già. Mi dovrei vergognare, già.
Un po’ mi vergogno, in effetti. Il disco è bello. Dodici canzoni, arrangiate con grande sobrietà, quasi soltanto voce e chitarra. Dieci le ha scritte lei. Dodici canzoni cantate in francese (undici e mezzo, ora ci arriviamo) con grande dolcezza, e qualcosa di classico, fuori tempo. “Demodé”, dice lei. “È un disco modesto”, dice. “L’abbiamo fatto in casa, in un mese e mezzo, è prodotto molto poco: adesso con l’ordinatore si può fare qualsiasi cosa con pochissimi mezzi. L’avrei potuto fare a casa tua”. L’idea di Carla Bruni a casa mia che suona la chitarra e canta “quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti ma alberi”, mi genera ancora qualche imbarazzo: al piano di sotto sta una signora che fa sempre un sacco di domande. Però, domando, avendo fatto questo bel salto di immagine – da modella solo superficie a cantautrice e musicista accolta dai critici – presentarsi su un palco nazionalpopolare come quello di Sanremo non è stato un rischio, un passo indietro? “Intanto, è stato molto divertente: mi hanno invitata come ospite straniera”, risponde ancora in italiano (è bilingue, con appena un po’ di accento), “e dopo molte volte che mi avevano contattato per presentarlo. Ma ho preferito di gran lunga fare la straniera, senza lo stress della gara. Quanto alle canzoni, per me le canzoni sono tutte canzoni, trallallà eccetera. Non sarà un’ apparizione su quel palco a cambiare i gusti dei critici”. Su questo non ci giurerei. “Sanremo è un patchwork dove si sono visti anche Marianne Faithfull e Luigi Tenco. Mi fa persino paura: ho cantato la canzone che conosco meglio proprio perché avevo una gran paura di sbagliare”. Parla e tira gran boccate di fumo: “Adoro fumare, adesso che ho un bambino fumo fuori dalla finestra, come da ragazzini”.
Comunque, delle due canzoni del disco che non ha scritto lei, una è di Serge Gainsbourg, l’altra è “Il cielo in una stanza”, cantata mezzo in francese e mezzo in italiano. Carina, piacevole, ma un po’ scolastica, infantile: meno naturale delle altre canzoni. E poi, una modella francese che decide di cantare in italiano “Il cielo in una stanza” – quel po’ di accento si sente – sfiora pericolosamente la banalità e il ridicolo. È come Ronaldo che canti “Volare”. Ma i francesi non la conoscono, dice lei, e le è piaciuto molto tradurla. Aveva provato anche altre canzoni italiane, per esempio “I giardini di marzo”, ma alla fine ha scelto quella e ne è molto contenta. Vabbè, concesso. Il risultato è assai dignitoso: i Rolling Stones che cantavano “Con le mie lacrime” e David Bowie con “Ragazzo solo, ragazza sola”, fecero di molto peggio. Ormai sono entrato nell’ordine di idee che sia una musicista prestata alle passerelle, e non una modella avventurata nelle hit-parade, e quindi le chiedo perché abbia aspettato tanto a fare un disco. “Prima lavoravo moltissimo. Moltissimo. Poi, quando ho smesso, ho fatto un bambino, e se ne sono andati altri due anni”. E perché aveva smesso? “Mi hanno fatto smettere loro, veramente. Quella della modella è una carriera brevissima, come quella degli atleti”. Il fantasma di Ronaldo a fine carriera che canta “Volare” guadagna ulteriore credibilità. Parliamo d’altro. Della Francia e della guerra? “Io sono una bella ignorante, ma credo anche che non veniamo molto informati. La cosa dell’America contro i francesi per me è solo una un’idea dei media. Gli americani sono molto più contro la guerra di quanto si dica, secondo me”. Glielo ha detto Richard Gere, spiega.
Le canzoni del disco hanno qualcosa di demodé, dicevamo. Hanno qualcosa delle canzoni francesi degli anni Sessanta e Settanta, una via di mezzo tra quelle più leggere e quelle d’autore. Tra Françoise Hardy e Barbara. Sembra che vengano da lontano. L’ultima, è una trovata spiritosa e poetica insieme: la richiesta a chi ascolta di “un ultimo minuto”, che dura un minuto esatto, scandita dal ticchettio di un metronomo. “È il metronomo di mio padre. L’idea viene dalla storia di quella contessa parigina a cui durante il Terrore fu chiesto se aveva un ultimo desiderio prima della ghigliottina, e lei rispose “ancora un minuto, signor boia””. Il padre di Carla Bruni era un compositore. Di musica dodecafonica, che anche a sapere cosa vuol dire aggiunge ulteriore solennità alla sua figura. La madre pianista. “Abbiamo vissuto nella musica sempre. Non sono mai stata una musicista: suono la chitarra ma non tanto bene, suono il piano ma non tanto bene. L’ambiente, però era quello. Anche se io da ragazzina ascoltavo i Beatles e De Gregori come i miei coetanei. Brassens e Barbara li ho scoperti molto più tardi, e forse per questo sembra che ci sia qualcosa di loro nel disco che ho fatto adesso”. Dice che il francese è una lingua bellissima, ma è difficile da cantare, a differenza dell’italiano e dell’inglese. Il prossimo disco lo vorrebbe cantare in italiano e in inglese, appunto. Tremo. Per cambiare discorso, chiedo del bambino. Esplode in un’accorata scena di maternità napoletana mista a citazioni di Louis Aragon che spiegano il nome di Aureliano.
L’idea era questa, insomma: scrivo che è antipatica. Niente da fare. È pure simpatica. Sono diventato uno di quelli.