Berlino, il muro, i muratori

L’evento più atteso dell’anno, a Berlino, è l’arrivo dell’estate. Tanto che alle sue prime timide avanguardie, spesso respinte da un rigurgito di nuvole e temporali, tutto il guardaroba estivo viene subito e temerariamente estratto dagli armadi a rischio di gran raffreddori. Le persone si mettono in canottiera nei giardini o attraversano sotto il sole le piazze con una nuova spavalderia. La luce rallegra le architetture più grigie e persino la spianata di Alexanderplatz, che è uno spazio grande come una decina di campi di calcio del tutto estraneo al concetto di piazza che è lecito avere, in cui ogni cosa ha dimensioni che scavalcano di gran lunga l’idea di misura d’uomo. C’è un grande spiazzo di cemento, interrotto da una pesante costruzione commerciale e dalla sopraelevata della metropolitana, la S-Bahn. Alle sue spalle incombe la Fernsehturm, la torre-antenna televisiva alta 365 metri, innalzata alla fine degli anni ’60. Negli stessi anni il socialismo reale ridisegnava tutto lo spazio intorno, creando un gigantesco vuoto da parate e adunate militar-popolari e guarnendolo di edifici grigi e sterminati. Tutti pesanti, tutti parallelepipedi, molti prefabbricati. Palazzi per uffici, di rappresentanza, per appartamenti. Tutti pesanti, tutti parallelepipedi.
Alle spalle della Fernsehturm (“una palla da golf sopra un ferro da calza”, in cui ruota pian piano, a 250 metri d’altezza, la sala di un ristorante) c’è un altro vuoto, contiguo, stavolta di alberi e aiuole, grandi. E c’è la Marienkirche, uno dei rarissimi motivi per credere, a Berlino, all’esistenza di un tempo prima del secolo scorso. Da quando è caduto il muro, la tristezza di Alexanderplatz si è vestita di nuovi colori, di neon, vetrine e cartelloni pubblicitari. Gli orrori del capitalismo reale si sono appiccicati sui duttili orrori socialisti. Indomite malgrado la giornata di sole le nuvole berlinesi sfrecciano sopra la piazza come in una sequenza accelerata di Koyaanisqatsi.
Salgono a est, verso Prenzlauer Berg, cuore della Berlino orientale e oggi estrema parentesi provinciale di una città che non è più provincia senza essere davvero metropoli, e che è un sacco di cose tutte assieme. A Prenzlauer Berg, è un po’ un paese. Le persone camminano sui marciapiedi portando i sacchetti della spesa, e incrociandosi si salutano. Ci sono pochi semafori. Il semaforo, a Berlino, regola e intralcia le giornate, le vite, sospende i pensieri, tiene allenati alla disciplina tedesca, è il vero Grande Fratello (e la madre di tutti i semafori è la Fernsehturm, che occhieggia di luci intermittenti sul cielo della città intera, sempre e ovunque). Non esiste altrove una regolazione semaforica puntuale e diffusa come a Berlino Ovest, e meno ancora un’abitudine così consolidata al suo assoluto rispetto. Alle tre del mattino, con seicento metri di strada sgombra alla propria sinistra e altrettanta alla propria destra, solo nel buio, il tedesco non attraversa. Aspetta. Aspetta l’omino verde del semaforo.
A est è diverso. Lasciata Alexanderplatz, la città è paese, gli incroci più eterei, i semafori più rari, i berlinesi più anarchici. E gli omini del semaforo sono diversi, più tozzi, con un gran cappello, senza busto, tra ragni e bambini. Quello rosso è fiero della sua responsabilità e vigile, mentre l’omino verde attraversa gaio e deciso, con la gioia dell’attraversare, quasi saltella, più unico che raro caso in cui il regime socialista mostrava un’intenzione libertaria e permissiva: va’, berlinese, va’ e attraversa la strada, puoi.
Che attraversare, a Berlino, non è cosa da poco, lo dicono le dimensioni delle strade. Fanno venire il sospetto che, barricate o no, qui si intuisse inconscio l’arrivo dell’automobile da molto tempo. E oggi che la città è sconvolta da una parte all’altra da cantieri, blocchi, ruspe e gru, la circolazione ne subisce meno traumi che non Roma quando c’è da aprire un tombino. Le gru sono ovunque: se ne contano tredici alle spalle del Reichstag, mentre le trenta di Potsdamer Platz, che erano entrate nello skyline cittadino, un po’ alla volta vengono occultate dai primi grattacieli conclusi. Si cammina serpeggiando tra tavolati di legno e transenne, tra cataste di tubi, tondini di ferro e blocchi di cemento. Gli operai lavorano al buio, rimbombano i motori e luccicano le fiamme ossidriche. La città che ha abbattuto il muro è in mano ai muratori.
Potsdamer platz, il cantiere più grande, ha appena vissuto le sue prime inaugurazioni e aperture, mentre i lavori proseguono. L’effetto è paradossale. Il contraltare al fallimentare vuoto di Alexanderpaltz, è un fittissimo complesso di mattoncini di lego e fondali cinematografici. A metà tra la cittadina impeccabile del Truman Show e un progetto disegnato al computer, tra rivoli d’acqua, lampioncini e vetrate. In assenza della piazza che dà il nome a tutto quanto, la donna tedesca con più classe ed eleganza della storia è ricordata nello spaesato centro di un posto che pare un cartone animato: la Marlene Dietrich platz.
E i muri dei vecchi palazzi, intanto, sono ancora sbriciolati di buchi grandi e piccoli, memorie di quando qui si sparò sul serio, tanti anni fa. Perché Berlino (che è un po’ triste, molto grande) non dice quasi niente di sé che risalga ai secoli passati (il Nikolaiviertel, antico centro restaurato e zuccherato, è una specie di paese dei puffi per turisti), ma quello che è successo negli ultimi ottant’anni non ti lascia per un attimo. Sulla Bebelplatz, lungo Unter den Linden (ancora un nome dolce e accogliente, traditore), per ricordare il rogo di libri che Goebbels vi organizzò nel 1933 (quando il suo nome era Opernplatz, qui i posti hanno sempre un altro nome, e i nomi un altro posto), un artista ha creato uno spazio cubico interrato, bianco e splendente, una biblioteca vuota con librerie su ogni lato, di cui si calpesta il soffitto di vetro. Brevi tratti di muro si incontrano qua e là all’improvviso. Ex-sedi di Gestapo, Stasi, polizie varie, il bunker di Hitler, luoghi di tortura, sono indicati nelle guide e diffusi nel centro della città. Mille palazzi hanno una storia nazista, a cominciare dal Reichstag rinnovato. Lapidi ricordano gli attentatori di Hitler, gli omosessuali sterminati, gli ebrei deportati, misfatti ed eroismi. E poi la guerra fredda, il ponte degli scambi di spie, il Checkpoint Charlie con la copia del cartello che recitava “You are leaving the american sector”, i luoghi di McEwan e dei film con Michael Caine. Lui si sedeva col suo contatto sulle gradinate dell’Olympiastadion, dove si può entrare e andare a spasso pagando due marchi d’ingresso. Ci sono tutti i nomi dei vincitori del 1936, iscritti nel marmo, accanto al braciere olimpico. Jesse Owens, Jesse Owens, Jesse Owens, Jesse Owens, Ondina Valla. Poi, vicino a dove un tempo passava il muro, nei pressi della porta di Brandeburgo, sono state appoggiate le croci che ricordano le ottanta persone uccise mentre cercavano di fuggire all’Ovest. Una strada che attraversa il Tiergarten, il grande parco al centro della città, porta il nome del 17 giugno, la data in cui, nel 1953, i carri dell’Armata rossa aprirono il fuoco sui lavoratori in sciopero e ne uccisero più di duecento. Sul cielo dell’Oranienburger Strasse splende la cupola della sinagoga ricostruita; fu attaccata durante la Notte dei cristalli, nel 1938, il 9 novembre.
Ma c’è una targa anche dove abitò Christopher Isherwood, vicino alla Nollendorf Platz, e dove ambientò le storie con cui si fece Cabaret. E una che ricorda Rudi Dutschke, a ridosso del Checkpoint Charlie, dove venne ferito a morte nel 1968. E la statua di Brecht davanti al teatro della sua compagnia. E in un piccolo cimitero nel quartiere di Schöneberg, persa fra la altre, una pietra di marmo nero con su il nome di Marlene.
Sulle vicende del muro c’è un piccolo e affascinante museo, visitatissimo. In una sala si proietta un documentario sulle ore del crollo, il 9 novembre del 1989. Il 9 novembre. Le persone si soffermano di fronte allo schermo, poi si avvicinano, si siedono, restano a guardare per tutta la durata del film e alcune si alzano con gli occhi gonfi e una specie di sorriso. Fuori, molti berlinesi dell’ovest maledicono il giorno che ha dato loro i berlinesi dell’est. Fuori, molti berlinesi dell’est maledicono il giorno che li ha dati ai berlinesi dell’ovest.
La repubblica di Weimar fu proclamata nel 1918, il 9 novembre.
Il nuovo museo dell’Olocausto è una costruzione arditissima, un braccio metallico zigzagante solcato da tagli e ferite, platealmente evocativo. Al suo fianco un giardino di torri di cemento doppiamente inclinate crea una sensazione impressionante di perdita di equlibrio. Intorno, ancora reti metalliche e lavori in corso. Al senso di spaesamento e di alienazione che infonde questo turbinio di evoluzioni e cambiamenti urbanistici (Berlino diventerà il centro dell’Europa, ma come sarà fatto il centro dell’Europa?), alla frattura tra la modernità efficiente e desolata dei nuovi quartieri comerciali e l’umanità un po’ trasandata delle zone più vissute, un artista di qui ha dato un nome: malinconia cantieristica.

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