Dio c’è?

Wired, mensile americano di tecnologia e tempi moderni, ha pubblicato un’inchesta di copertina dedicata ai nuovi ateisti. L’inchiesta è in realtà un viaggio molto personale di Gary Wolf tra le tesi di tre apostoli dell’ateismo americano, che sta conoscendo un periodo molto fertile dal punto di vista editoriale e dialettico.

In America non è come da noi. Qui ci si scandalizza (alcuni, e alcuni no) delle ingerenze della Chiesa negli affari di stato e soprattutto della timorata condiscendenza di uomini di stato e politici anche insospettabili nei confronti dei desideri vaticani: ma di fatto, questo è un paese di credenti in diminuzione e praticanti in via d’estinzione. Potete chiamarla ipocrisia o piuttosto elasticità, ma lo scollamento tra le tradizioni cattoliche del paese e l’aderenza dei singoli alle richieste ecclasiastiche è rassicurante per chi teme gli assolutismi delle chiese. Tanto che le recenti teorizzazioni a favore di un riavvicinamento alla religione da parte della cultura e della politica appaiono un colpo di coda – magari decisivo, va’ a spaere -, un tentativo di invertire o rallentare la tendenza.

Negli Stati Uniti la situazione è opposta: quanto alle chiese e alle strutture, ce ne sono migliaia di piccole invece che una, e nessun papa o cardinale con cui politica e cultura facciano direttamente i conti. Invece la fede, l’osservanza, la sincera passione religiosa delle persone sono la norma assolutamente prevalente. Ed è allora la minoranza degli atei, e la sua ala militante degli “ateisti” a cercare spazio e a fare notizia.

Wolf incontra tre scrittori celebrati e importanti in questo dibattito, che riempie gli scaffali delle librerie americane da qualche tempo. Il primo è Richard Dawkins, autore di un libro che pretende di smontare scientificamente la tesi dell’esistenza di Dio, “The God delusion”. Dawkins è un ateista agguerrito, che ribalta una battuta di recente popolarità tra gli atei devoti da noi – “vivere come se Dio esistesse” – sostenendo di avere un residuo inevitabile di dubbio sull’esistenza di Dio, ma di voler condurre la sua vita “sulla base dell’assunto che Dio non esista”, assunto a suo dire ineludibile da ogni mente razionale. Della campagna di Dawkins è soprattutto curioso il paragone con i movimenti per il riconoscimento della normalità degli omosessuali. Partendo dalla constatazione che la percentuale di non credenti sarebbe maggiore tra le classi più istruite, tra gli scienziati, gli accademici, gli intellettuali, Dawkins prende come avversari da convincere non i credenti ma gli atei che tacciono le loro convinzioni: chiede un “coming out” che tolga chi non crede in Dio da una condizione di minoranza silenziata dal fragore evangelista. E permetta una rimonta a chi crede nel raziocinio verso chi crede nel soprannaturale, di qualsiasi genere. Il suo esempio illuminante è quello del Congresso degli Stati Uniti, dove non esiste un solo deputato che si dichiari ateo: “se le persone più intelligenti sono più spesso atee, allora o i deputati sono tutti stupidi, oppure mentono per paura di non essere eletti, come avveniva (e avviene) per i politici gay”. All’obiezione di Wolf sul fatto che i gay non pretendono che gli altri diventino gay, e sul rischio di un fondamentalismo ateo – di una fede della mancanza di fede – Dawkins ribatte che il punto della sua campagna è l’educazione dei bambini, a cui le famiglie credenti insegnano da subito a considerare un ambito in cui la ragione e il pensiero scientifico non valgono, tarando sul nascere e tautologicamente il loro approccio al pensiero indipendente e la loro possibilità di fare una scelta. In tempi in cui il fondamentalismo e la fede cieca sono diventati il terrore dell’Occidente e delle democrazie, l’approccio raziocinante e scientifico di Dawkins ha compattato molti atei americani, ma la logica aggressiva e precipitosa del suo libro lo ha fatto avvicinare, da parte di un suo estimatore come Jim Holt del New York Times, al peggior Michael Moore.

Il secondo autore incontrato da Wolf si chiama Sam Harris, è un neurologo, autore di “Letter to a Christian Nation”, in cui mette in guardia sui pericoli che l’umanità corre se prevale la fede irrazionale. Diversamente da Dawkins, Harris riconosce che il maggior pericolo per il libero pensiero e la civiltà oggi siano i fondamentalismi islamici, ma sottolinea la distinzione tra fedi e ragioni: “I non credenti come me stanno sbalorditi al fianco dei Cristiani minacciati dalle orde musulmane che annunciano la morte di intere nazioni. Ma non siamo meno sbalorditi dai Cristiani stessi, dalla loro negazione della realtà tangibile, dalla sofferenza che creano in obbedienza ai loro miti religiosi, dalla loro fedeltà a un Dio di fantasia”. Secondo Harris, un giorno guarderemo ai tempi in cui si credeva in Dio come oggi guardiamo agli anni in cui la schiavitù era ritenuta moralmente accettabile: “imbarazzati”.

L’ultimo studioso con cui Wolf confronta il suo ateismo soft, cercando di convincersi che ci sia una battaglia da combattere, si chiama Daniel Dennett, ed è un filosofo che vive nel Maine e insegna a Boston, autore di “Breaking the spell”. L’atteggiamento di Dennett verso fedi e superstizioni è ancora drastico e definitivo (“una specie che inganna i bambini per garantire che mantengano la fede da adulti, merita di essere estinta”), ma a differenza di Dawkins (che riconduce la nascita delle fedi a puri meccanismi naturali) riconosce alle religioni un ruolo difficilmente sostituibile nell’articolazione di un sistema di valori necessario a ogni essere umano. E però sostituibile, con fatica e attenzione, da una sorta di “religione della ragione”, in cui persino i tabù siano frutto di un’elaborazione razionale.

Ognuna delle posizioni raccontate da Wolf appare convincente, eppure minata da qualche contraddizione. La sua conclusione è che per un non credente come lui il confronto quotidiano con posizioni e atteggiamenti altrui che dovrebbero apparirgli irrazionali e illogiche non sia sempre frutto di pigrizia, viltà, e altrettanta irrazionalità. È anche semplicemente tolleranza, democratico rispetto, e inclinazione a pensare che – con tutte le proprie concrete e atee ragioni – ci sia sempre la possibilità di essersi sbagliati.

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