Abbiamo solo bisogno di spazio

Questa conversazione con Dan Barry, ex astronauta e molte altre cose, è uscita sul numero in edicola dell’edizione italiana di Wired.


200px-Daniel_Thomas_BarryCome mai sei diventato astronauta a quasi quarant’anni? Cosa facevi prima?

Ero ingegnere, mi occupavo di ricerca nella riabilitazione neuromuscolare e ortopedica, studiavo invenzioni e apparecchiature per aiutare a recuperare la funzionalità dei movimenti. Ma avevo fatto domanda per la NASA già tre volte. Nel 1992 mi hanno preso.

E ti ha cambiato la vita?

Eccome. Era il tipico sogno da bambino. Ma le cose che avevo studiato fino ad allora sono importanti anche nello spazio, dove diminuisce la densità ossea e i muscoli si indeboliscono: ci sono moltissime implicazioni mediche nell’esplorazione spaziale.

Quanti voli hai fatto?
Tre: nel 1996, nel 1999 e nel 2001.

E poi?
E poi per un nuovo volo avrei dovuto aspettare almeno sei anni, e avevo voglia di tornare da mia moglie nel Massachusetts.
Come mai una pausa così lunga? Ragioni medico-biologiche?
No, è che c’è una fila di persone che vuole andare. E le cose di cui mi stavo occupando io non avrebbero implicato un nuovo volo per molto tempo. Era il momento di lasciare.
Cos’è una cosa che hai imparato?
Ne ho imparate due. Da lassù ti rendi conto della fragilità della Terra: vedi il fumo di una foresta che brucia in Sudamerica arrivare fino alle Hawaii, e vedi la sabbia delle tempeste in Africa che si sposta fino alle Bahamas. E vedi quanto è sottile l’atmosfera terrestre, la buccia di una mela.
E l’altra?
L’altra è quanto rapidamente cambia il nostro sistema nervoso quando si adatta a un ambiente diverso. Fin dal primo giorno modifichi il tuo modo di avvicinarti a una parete, e impari un nuovo sport: impari a volare. E al ritorno a terra è di nuovo questione di pochi giorni: e io avevo già quarant’anni.

Scusa la domanda banale: ma come ti muovi, nelle stazioni spaziali?

All’inizio, ti dai una spinta contro una parete, ma troppo forte, e così vai a sbattere contro la parete di fronte. Dopo un po’ prendi le misure, e voli.
Ci sono delle maniglie?
Sì, e dei corrimano: ma dopo un po’ non ne hai bisogno. A meno che tu non stia lavorando, e abbia bisogno di rimanere ancorato e non galleggiare via: quindi metti i piedi dentro alle maniglie. Quando rientrano a terra, gli astronauti hanno la pianta dei piedi morbidissima, che ha perso ogni callosità; e invece hanno un callo sulla parte superiore, dove il piede si ancora alla maniglia.

E quando hai lasciato la NASA sei tornato a fare le cose di prima?
Non proprio: mi interessavano già i robot da prima, e adesso avevo l’occasione di cominciare un’altra cosa nuova, quindi fondai una mia piccola compagnia e cominciai a costruire robot.
Da solo?

All’inizio da solo. Un paio di motori, qualche ruota e un microprocessore. Programmi il processore perché sappia dove sono le ruote, poi magari ci metti un sensore di luce che faccia allontanare il robot dalla luce: ma così non smettevano mai di allontanarsi e finivano sotto il divano, e allora ho tarato il sensore perché si avvicinassero alla luce. Così imparai i meccanismi di base: mi ci volle qualche anno per affrontare e capire i problemi veri.
Che sono?
Per me, per quello che avevo studiato, sono le disabilità delle persone, le loro limitazioni rispetto all’efficienza del proprio corpo. Ho collaborato con delle altre società nella produzione di sedie a rotelle che si muovono senza che siano necessari dei comandi. La produzione e la vendita non mi interessano, io lavoro alla fase di progetto e sperimentazione di robot che rendano le persone indipendenti fisicamente e psicologicamente.

Psicologicamente?
L’indipendenza fisica di una persona disabile è decisiva non solo in quanto tale, ma soprattutto per non farla sentire limitata e incapace di cavarsela da sola. Riuscire a sostituire le persone a cui sei costretto a chiedere aiuto può essere molto importante.
Ma non può avere controindicazioni? Quelle persone sono anche una compagnia…
Questa è una necessità che non esiste per i ragazzi e i giovani, che chiedono soprattutto indipendenza e di solito hanno compagnia sufficiente. Per gli anziani invece stiamo lavorando su robot che siano anche dei compagni. Programmandoli perché conoscano i tuoi interessi, e sappiano informarti, raccontarti, tenere una conversazione. Se sei tifoso dei Boston Red Sox il robot ti racconta la partita di ieri. Ma non è solo quello: una delle maggiori fonti di depressione tra le persone anziane è la tendenza a non uscire di casa per la difficoltà ad alzarsi dalla sedia o per paura di perdersi. Il robot le aiuta su entrambe le cose.
Ho visto tutte quelle scatole di Lego nel tuo ufficio. Ti servono davvero?
Certo, c’è questa linea della Lego che si chiama Mindstorms che è utilissima per studiare i prototipi. Il limite è che a ogni mattoncino puoi collegare solo quattro sensori e tre motori alla volta, ma per abbozzare un’idea è ottimo. E anche per far esercitare i miei studenti. Questo è un settore dove ci saranno grandi cambiamenti presto.
Che genere di cambiamenti?
Alcune tecnologie accelereranno moltissimo l’efficienza dei robot: il riconoscimento vocale, le videocamere capace di riconoscere gli oggetti e la nostra posizione. Il costo dei robot scenderà molto, e crescerà la loro autonomia. Parlo di cinque, dieci anni al massimo.
Ho letto di un tale Neil…
Sì, è il mio robot principale, è un gran bravo ragazzo.
È un maschio?
Già, in realtà non lo so. Ma apre la porta al fattorino delle pizze e lo saluta. E lo paga.
E il fattorino che dice?

Ormai lo conoscono tutti: gli dice “Ciao, Neil”, gli dà la pizza e prende i soldi.
E cos’altro fa?
Non è un maggiordomo: gli faccio aprire la porta, consegnare i dolcetti ai bambini ad Halloween, e può portare delle cose in giro per la casa. Ma non parliamo di un vero maggiordomo o assistente. In generale, la ricerca sta lavorando su robot specializzati in alcune funzioni, che quindi suppliscono alle mancanze specifiche degli anziani e dei disabili: mentre le cose di cui avrebbero bisogno le persone non menomate sono troppe e troppo diverse per poterle fare gestire a un solo robot.
Ma se possono essere utili ai disabili e non servono agli altri, vuol dire che siamo perfetti?
No: vuol dire che abbiamo costruito un mondo a misura dei non disabili, in cui possiamo arrivare allo scaffale in alto, alzarci dalla poltrona, uscire dalla vasca. Ogni oggetto costruito per un umano in piena disponibilità dei propri movimenti contiene delle barriere architettoniche per chi non ha quella piena disponibilità.

Vale anche psicologicamente: io non sono in imbarazzo se non trovo le chiavi di casa, un anziano sì…

Quello è perché per noi perdere le cose non è ancora sintomo di niente, non ci fa paura, non evidenzia le nostre insicurezze. Io ho cercato di entrare in una casa che non era la mia, una volta, e quando me ne sono accorto mi sono messo a ridere. Tra qualche anno mi farà paura.

Significa qualcosa che alla NASA tu abbia lavorato sui movimenti di quella sorta di supereroi che sono gli astronauti, e ora tu stia studiando invece le necessità opposte di persone con delle disabilità?
Gli astronauti non sono supereroi, sono solo persone molto concentrate sui loro obiettivi. E la differenza di cui parli è al contrario una similitudine: le persone con problemi di mobilità adorerebbero lo spazio, proprio perché annulla la differenza tra loro e le persone “normali”. Una persona con una lesione al midollo spinale può persino volare, nello spazio, come me. Quando inizieranno i viaggi di massa nello spazio molte di queste persone compreranno un biglietto di sola andata: una voltà là saranno indipendenti, e supereranno tutti i limiti di igiene personale, movimento, eccetera, che la gravità ci impone. Perché tornare?

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