Il pezzo di D’Avanzo su Repubblica di oggi è formidabile e impressionante. Sull’uso delle intercettazioni telefoniche da parte dei pubblici ministeri e da parte dei giornali dice le cose che avrei voluto sentir dire da tempo, con spietatezza e sincerità mai lette.
“In realtà una magistratura pigra abusa delle intercettazioni. Con quel metodo di lavoro invasivo, si afferra rapidamente il risultato “oggettivo” senza dannarsi troppo l’anima. Oggi si intercetta per il piccolissimo spaccio e per il grande traffico di droga. Per la manipolazione di una Opa e per una truffa di poche centinaia di migliaia di euro. È sufficiente contestare l’associazione per delinquere. La bulimìa intercettatoria ha numeri spaventosi che oggi non hanno confronti internazionali. Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni, sono state intercettate in Italia circa 30 milioni di persone; nel 2004 per le intercettazioni sono stati spesi oltre 300 milioni di euro e il 2005 ha registrato una spesa ancora maggiore. Nel 2001 i telefoni intercettati sono stati 32.000. Sono diventati 45.000 nel 2002. 77.615 nel 2003. 92.781 nel 2004 e nel 2005 hanno superato i 107.000. Considerati i tempi medi delle intercettazioni, circa 45 giorni, ogni anno sarebbero intercettate oltre un milione e 500.000 persone. Non è solo la magistratura a rendere ipertrofico il meccanismo. Ne abusa la polizia giudiziaria quando diffonde le intercettazioni per mettere un pubblico ministero riottoso dinanzi al fatto compiuto o per condizionare le indagini. Ne abusano gli avvocati che, secondo convenienza, scaricano in pubblico le «carte» dell’altro imputato per proteggere, dal clamore o dalle responsabilità, l’assistito che paga la parcella.
Prima conclusione, allora. Le intercettazioni sono necessarie alle indagini, ma non tutte le indagini hanno bisogno di intercettazioni”
D’Avanzo fa nomi e cognomi per quanto riguarda gli atteggiamenti del Corriere, mentre si limita a espressioni come “chi è senza peccato…” per implicare che anche Repubblica non ha la coscienza a posto. Ma pazienza. In ogni caso traspare l’assunzione di responsabilità e l’accusa pesantissima verso le redazioni come quella in cui lui stesso lavora per come fanno male il loro lavoro.
“Per non rimanere tartufescamente nel vago (anche se chi è senza peccato scagli la prima pietra) si può parlare di come il Corriere della Sera ha maneggiato l’affare giudiziario del Savoia.
Editoriale rituale di Piero Ostellino che censura «le gigantesche e rumorosissime inchieste poi finite in una bolla di sapone». Qual è l’inchiesta? In sette pagine piene non si riesce a capire di che cosa si sta parlando, quali sono i fatti che hanno provocato l’indagine e gli arresti. La cronaca dell’affare è infatti soltanto a pagina 6. Non pare essere quello il tassello più importante. Il maggiore rilievo è affidato da pagina 2 a pagina 3 a sbirciare nel buco della serratura. A sbattere nero su bianco chiacchiere telefoniche, nomi, facce, storie di sesso vero o presunto, turpiloqui, vaniloqui, millanterie e arroganza. Sembra essere una curiosità morbosetta il solo interesse pubblico che il giornale diretto da Paolo Mieli attribuisce all’avvenimento. Chi fa sesso con chi. Come. Dove. E quel maritino lì, è contento ora che gli stiamo spiattellando la storia della mogliettina incinta? Diamogli un colpo di telefono e intervistiamolo
(Maritino e Mogliettina, va detto, sono del tutto estranei all’inchiesta penale)”
Bene, è il bello di Repubblica, in cui ognuno può dire quello che vuole anche contraddicendo il resto del giornale. Forse però sarebbe meglio – parlo almeno per noi lettori – che la posizione espressa oggi da D’Avanzo fosse quella prevalente, e le dissidenze minoritarie, piuttosto che il contrario. Che ci fosse una buona dose – senza esagerare con il rigore, per carità – di corrispondenza tra le parole e i fatti.
“l giornalismo italiano – tutto il giornalismo italiano, nessuno escluso – diffonde a piene mani intercettazioni non per fare informazione, per rispettare quel “patto etico” con il lettore che gli impone di rendere (anche con frasi rubate) comprensibile la realtà, di spiegare per quanto è possibile che cosa è accaduto e perché. Quelle frasi rubate sono pubblicate per mero scandalismo. Per voyeurismo. Il giornalismo c’entra come il cavolo a merenda. A chi fa i giornali non interessa sapere di che cosa è responsabile, se è responsabile, il Savoia e la sua miserabile corte, a ricostruire il contesto che solo rende possibile comprenderne gli errori o i reati. Vuole soltanto raccontarne la vita oscura, le miserie, le volgarità, le voglie, come se ci fosse un delizioso godimento a scoprire il mostro nella faccia dell’altro, nella vita degli altri.
L’abuso delle intercettazioni della magistratura non ha nulla a che fare con l’abuso che ne fa il giornalismo italiano, ipocritamente dissimulato dalle consuete litanie contro la magistratura e da quella stupidaggine che nelle redazioni suona così: «Si pubblica tutto ciò che abbiamo» anche se il più candido di noi sa che è vero per alcune carte ma non per tutte, naturalmente. I due abusi incrociati e sovrapposti provocano la barbarie della civiltà che abbiamo sotto gli occhi. In un Paese dove il crimine di mafiosi e colletti bianchi è patologico, sarebbe necessario un dibattito pubblico che possa tenere insieme le necessità investigative, la tutela della privacy dei singoli (soprattutto se non indagati, soprattutto se le intercettazioni personali sono irrilevanti per le indagini), un diritto-dovere di informare e di essere informati che trovi limiti nell’interesse pubblico e nel diritto altrui. Sarebbe sufficiente soltanto ritrovare le ragioni di codici deontologici che sappiano essere condivisi e rispettati”
Dai.
Repubblica
Giorno dispari
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