Due chiacchiere con Arianna Huffington, per Wired

Arianna, siamo insieme da un pezzo, oggi. Io pensavo che un giornale online andasse seguito ventiquattr’ore su ventiquattro. Riunioni, telefonate…

Infatti, ho una conference call tra poco, bisogna che parliamo in macchina. Ti dispiace?

Per niente. Il giornale lo fate al telefono?

Io faccio le riunioni soprattutto al telefono. Riunioni diverse con ciascuna sezione del giornale: poi i singoli caposervizio hanno molta libertà e successivamente assestiamo insieme le impostazioni di ciascuna sezione.

Ma lo Huffington Post dove si fa? C’è una redazione o è tutto decentrato, ognuno a casa sua (o in macchina)?

No, no. Abbiamo una redazione a New York, il quartier generale. E una redazione più piccola a Washington. Ma io lavoro a casa a Los Angeles: in uno studio segreto al piano di sopra, nascosto da una libreria e da un immagine dei Cardinals.

I Saint Louis Cardinals?

No, no: cardinali. Fiorentini. È un quadro. Il mio studio è dietro il quadro.

Pare lo studiolo del duca a Urbino.

Non sono mai stata a Urbino.

Dovresti. Il duca sapeva come farsi pubblicità. È vero che sullo Huffington Post le sezioni specializzate rendono di più in termini di pubblicità?

Non esattamente. Gli spazi più costosi sono sempre sulla home page, che copre tutti gli argomenti. Ma alcune sezioni sono più interessanti della politica, per gli inserzionisti.

E avete niente tipo il  colonnino morboso?

Il cosa?

È uno spazio che hanno in home page i siti di news italiani, più o meno esteso: ci stanno i video curiosi, le notizie di sesso, lo strano ma vero…

Abbiamo una sezione comedy e ci mettiamo quel genere cose: video comici, estratti da programmi tv.

E i guadagni dello Huffington Post vengono tutti dalla pubblicità o da altro?

Che genere di altro? Dici che dovremmo vendere delle scarpe? Coi tacchi alti…

A-ha. Molto alti…

Molto. E anche il traffico di droga funziona.

Sì, l’ho sentito dire.

No, dai: pubblicità. il nostro modello di business è esclusivamente basato sulla pubblicità..

Cosa pensi del vostro principale concorrente, il Daily Beast di Tina Brown?

Mi piace il Daily Beast. Hanno un bel design, ottime storie. Io penso che più gente c’è online meglio è.

Che differenze vedi tra voi e loro?

Noi siamo più un giornale, loro più una rivista. Noi copriamo tutto, loro selezionano. Noi abbiamo molti più blogs, loro stanno su una scala minore. Noi produciamo molti più contenuti originali, abbiamo più reporter e corrispondenti. Noi siamo un giornale online.

Quali sono gli altri bravi che fanno il vostro genere di cose?

Talking Points Memo, Drudge, Politico. Ma il nostro genere di cose è un prodotto fatto di aggregazione e produzione di news da una parte e di una comunità di bloggers dall’altra. E quindi devi metterci anche i siti dei giornali e dei grandi gruppi, che ci si sono avvicinati venendo da un’altra direzione: New York Times, CNN, MSNBC, Wall Street Journal. Anche loro fanno news e hanno i blogs.

E come vi è venuto in mente lo Huffington Post?

Il mio socio Kenny Lerer e io decidemmo di creare quello che poi diventò lo Huffington Post dopo la sconfitta di John Kerry. Volevamo mettere assieme un aggregatore di news e un blog collettivo: cominciammo con 500 blogger, ora ne abbiamo 3000.

Ma volevate fare giornalismo o politica?

Giornalismo, è sempre stata una cosa di giornalismo.

Non vi interessa influenzare la politica?

Sì, ma attraverso il giornalsimo. Non attraverso l’attivismo. C’è una differenza. Vogliamo fare del giornalismo che abbia dei risultati. Significa per esempio che cerchiamo di restare fedeli a un’inchiesta, di non lasciarla morire. I media tradizionali trovano una notizia e poi la abbandonano rapidamente. Ma per ottenere dei risultati bisogna perseverare su quella storia fino a che la gente non è stufa.

Ma all’effetto che fanno le vostre cose a Washington ci penserete…

Io non sto a Washington: vivo a Los Angeles e vado spesso a New York. A Washington vado se serve, ma il mio lavoro è attraverso lo Huffington Post, non nella politica. Sulle banche siamo stati molto critici con Obama: e questo è il modo in cui lo Huffington Post si occupa di politica, mantenendosi affidabile presso i propri lettori.

È per questi attacchi che poi Obama va in giro a dire che non legge i blog…

Guarda, Obama sta facendo molte ottime cose: sulle staminali, sul piano di aiuti, sulla riforma della sanità. Ma con l’indulgenza sulle banche rischia di mettere a rischio tutta l’operazione di superamento della crisi.

Che impressioni hai dell’informazione online italiana?

A quanto sento, la convergenza è ancora in corso. Ci sono troppi ruoli separati tra le redazioni di carta e quelle online, tra i giornalisti e i bloggers, tra le varie gestioni. Hanno bisogno di integrarsi, come è successo in America: basta guardare come funzionano oggi il New York Times e il Washington Post.

Ma tu cosa pensi di tutto il dibattito sul futuro dei giornali, che comprende anche un ripensamento sulla circolazione gratuita dei contenuti giornalistici? C’è chi teorizza la necessità di trovare un modo perché chi produce news sia l’unico detentore della loro pubblicazione online…

È troppo tardi per sovvertire quello che succede in rete, e in rete non si paga per i contenuti: a meno che non parliamo di contenuti molto specializzati (come il Wall Street Journal e le sue competenze, o il porno). Ma nessuno riuscirà a cambiare il modo in cui le persone si sono abituate a raccogliere le informazioni in rete. Per questo credo molto nel potere degli aggregatori, e non credo che limitare l’aggregazione e la riproposizione dei contenuti originali sia una buona idea: se gli aggregatori lavorano bene portano traffico anche alle fonti originali. Noi riceviamo centinaia di richieste ogni giorno da parte di siti che vogliono che linkiamo le loro storie. Per avere più lettori.

L’obiezione è: se tutti i soldi vanno agli aggregatori e non a chi produce le news, poi con quali soldi si producono, le news? Se il New York Times chiude, voi poi cosa aggregate?

Guarda, adesso c’è stata una specie di tempesta perfetta prodotta dalla crisi economica e la crisi della pubblicità, ma non è che il New York Times non faccia profitti. Aspetterei a pensare che il New York Times chiuderà. E poi ci stiamo muovendo verso molti potenziali modelli diversi: io credo che l’informazione sarà prodotta da combinazioni di enti commerciali e no-profit, di giornalisti, blog e citizen journalism, eccetera.

Internet non ha quindi nessuna responsabilità sul futuro del giornalismo investigativo?

Io penso che le ipotesi sulla morte dei giornali siano molto esagerate e trascurino gli enormi spazi di innovazione che ci sono nel futuro. Ma non dimentichiamo anche che il giornalismo investigativo tradizionale ha avuto di recente i suoi bei fallimenti: ha fallito sulla guerra in Iraq, quando ha fatto da cheerleader all’amministrazione Bush e trascurato di fare inchieste che andavano fatte, o non ha dato loro lo spazio che meritavano. Dopo di che di nuovo i giornali hanno mancato del tutto di prevedere la crisi finanziaria. E sono due.

 

 

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3 commenti su “Due chiacchiere con Arianna Huffington, per Wired

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