Mi sono fatto da tempo una ragione che per deprimenti ragioni di età non mi capiti più quasi mai che un disco mi piaccia tutto quanto e per un periodo più lungo di un mese. Quella cosa di quando ascoltavi per giorni e settimane lo stesso disco, è finita: perché ora ne puoi scoprire talmente tanti che la curiosità del nuovo ti distrae da un ascolto attento e ripetuto che poi ti faccia radicare dentro i dischi davvero belli; e per meccanismi opposti, avere ormai tantissime cose meravigliose “vecchie” da ascoltare spinge a vivere ogni ascolto di altro come tempo sottratto a “The dark side of the moon” o “Aja” per la milionesima volta.
E quindi mi rallegro del fatto – e lo condivido volentieri – che ci siano due dischi che continuo ad ascoltare da più di due mesi dall’inizio alla fine e mi piacciono ogni volta di più, e mi tolgono la tentazione di sentire il nuovo dei Gorillaz, che tanto lo so che passerà come lacrime nella pioggia salvo un paio di canzoni forse. Questa è quindi – oltre che un manifesto per l’emancipazione dal nuovo disco dei Gorillaz (o nome a piacere) – la segnalazione di due dischi di sei e due mesi fa, che in un mondo sano dovrebbe essere sempre il tempo minimo da mettere in mezzo tra un’uscita e una recensione.
Uno è il disco degli Elbow, band di Manchester che ha vent’anni e diversi dischi fatti, tutti tenuti su dalla voce particolare di Guy Garvey (poi una band che si disse influenzata da Genesis, Radiohead e Talk Talk, massimo rispetto): ma questo gli è venuto meglio di tutti, ed è notevole che una band faccia un disco così buono dopo vent’anni, con arrangiamenti inventivi e belle canzoni. Si chiama “Little fictions“.
L’altro disco si chiama “Ripe dreams, pipe dreams” ed è il primo disco da solo di Cameron Avery, australiano, musicista e cantante in varie band e da qualche anno nei Tame Impala. È un disco più convenzionale di ballate pop e canzoni-canzoni (in un paio di casi sembra di conoscerle già), alcune molto riuscite e appiccicose, e con una sua preziosa coerenza, se come me odiate quei dischi in cui a un certo punto arriva il pezzo “diverso” che rende discontinuo e cacofonico l’ascolto complessivo.