Ogni tanto una buona analisi sul PD, tra tanta fuffa per farsi notare. Questo è Gianfranco Pasquino sull’Unità di sabato.
Il problema non è l’esistenza di uno scontro all’interno del Partito Democratico. Forse, di scontri ce ne sono molti, in orizzontale, sul piano della leadership nazionale, e in verticale, sui piani delle primarie cittadine, delle alternative organizzative, delle questioni affaristiche. Il problema reale è, invece, duplice. Da un lato, attiene alla negazione della compresenza di opinioni diverse su quello che il Partito Democratico è, potrebbe essere, dovrebbe fare. Le interviste dei leader massimi comunicano informazioni cifrate, per pochi intimi, ma non rafforzano la linea attuale, peraltro, alquanto criticabile, né suggeriscono alternative, allo stato dei fatti, piuttosto fumose. Per di più, sono seguite da allineamenti subalterni, tutti prevedibili, e da qualche battuta di spirito per avere spazio giornalistico. Dall’altro lato, il problema attiene ad una mancanza che, quanto più passa il tempo, tanto più risulta grave. Fintantoché non si discuterà senza rete delle ragioni della sconfitta dell’aprile 2008 e delle sue conseguenze ineluttabili, non soltanto non si potrà cambiare strategia e eventualmente leadership, ma si rischia di andare incontro ad altre sconfitte, nelle elezioni amministrative e in quelle europee. Dopodiché, l’eventuale Congresso, il primo del Partito Democratico, non potrebbe che essere non un rendiconto, ma una resa dei conti. La situazione attuale appare talmente brutta e pericolosa che è facile prevedere che la Direzione del 19 dicembre condurrà ad un nulla di fatto, un rappacificamento superficiale e rituale senza riorientamento politico. Gli schieramenti interni si riprodurranno senza cambiamenti, senza innovazioni strategiche, senza autocritiche che producano correzioni di rotta. Veltroni richiama costantemente il molto positivo esito numerico della sua elezione: fu un vero mandato a guidare il Partito che si andava formando intorno a lui, ma che, in pratica, non sembra essersi ancora fatto le ossa. È ora di dire a quale modello di partito aspira il Partito Democratico come organizzazione sul territorio (federato?) Con quali livelli e pratiche decisionali (Assemblee nelle quali le maggioranze non siano precostituite e prevedibili e quindi poco interessate al dibattito delle idee e al confronto delle opinioni?) Con quale reclutamento politico (affinché “casi Villari” non si ripetano mai più)? Quali attività parlamentari: possibile che il ministro ombra delle Telecomunicazioni non sapesse dell’esistenza di un impegno di Prodi al riallineamento dell’Iva? Se ne possono chiedere le dimissioni? Insomma, il leader deve conquistarsi il suo consenso anche a rischio di scontentare qualcuno dei suoi interessati sostenitori. Altrimenti, quella che poteva essere una grande novità rischia di apparire un partito proprio come i due partiti fondatori che dovevano esprimere il meglio delle loro culture, e non l’hanno fatto.