La zattera

Qualche anno fa scrissi, dopo essere stato a L’Aquila, di come la percezione attenuata dei danni di un terremoto per chi ne è distante diventi più reale e impressionante se si faccia lo sforzo di immaginarlo avvenuto in luoghi familiari: se ognuno prende la sua città, il suo quartiere, i luoghi che vede tutti i giorni o che conosce esattamente, e se li figura crollati, distrutti, spaccati da crepe, la sua comprensione di una cosa successa lontano diventa all’improvviso più esatta e meno astratta. Bisogna guardare quello che si conosce e farlo diventare la vittima: può essere, poteva essere, è stato per qualcun altro.

Due giorni fa invece un amico che so intelligente e buono mi ha confessato la sua crescente insensibilità alle notizie di stragi e catastrofi che riceve ogni giorno continuamente: “non sento“, ha detto dei numeri con le centinaia, delle ripetizioni di barconi affondati, di stragi di autobombe, di altri numeri di persone stipate in centri di accoglienza. “Mi arrabbio per la notizia, e a volte mi arrabbio con chi me la dà, ma non sento quelle persone e quello che gli succede, che gli è successo”.

È un vecchio tema, rinnovato da questi tempi di mille informazioni, quello della reazione nei confronti delle tragedie “lontane” nel senso che riguardano persone e contesti che sentiamo diversi, se non geograficamente distanti, altri mondi da noi, altre persone, numeri. Tema che genera ciclicamente fastidi per la diversa misura dei dolori e delle attenzioni, e spiegazioni sulla “umana” maggior sensibilità per ciò che ci somiglia di più, che ci è intorno, con cui viviamo. Non sono i numeri di morti che rendono più impressionante e sentita una strage: è quanto riusciamo a riconoscere le sue vittime, a vederle, a trasformare i numeri in persone. I giornali ogni tanto ci provano, quando mettono in fila quelle piccole biografie con la foto accanto, che spesso hanno però l’effetto delle figurine, figurine di morti, e diventano rituali a loro volta.

Bisogna fare come con i terremoti, ho pensato: bisogna guardare quelle persone ignote sulle zattere di rottami, a Rodi, e riconoscerle, figurarsi che siano una compagna di scuola di mia figlia, il signore che vende i fiori all’angolo, il ragazzo da cui prendo il caffè tutti i giorni. Riconoscerle. Qualcuna di loro lo sarà, forse.
E allora il mio amico, credo, sentirà. Sentirà una cosa all’improvviso terribile, che desidererà di non aver sentito, forse. Meglio i numeri, trecento cinquecento settecento novecento.

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6 commenti su “La zattera

  1. Effe

    Il presupposto è trovarsi di fronte ad una persona che, per qualche motivo, si pone il problema di “non sentire”. In una situazione così si tratta di un approccio assolutamente condivisibile.
    Come fare, invece, di fronte a chi dice di non voler nemmeno provare ad applicare alla realtà “vicina” ciò che dice di “sentire” sapendo di tragedie “lontane”?
    Ovvero. Come si può rispondere a chi dice “mi spiace per loro ma io ho già i miei problemi”?

  2. quxxga

    con la decrescita felice non gliel’hanno fatta. auspico che ce la possiamo fare con la de-informazione felice a breve

    mi viene anche da pensare che se fossimo minimamente una civiltà avanzata, di fronte a queste tragedie saremmo tenuti ad autoprocessarci e credo a condannarci per strage e disastro umanitario

  3. Pingback: Stragi nel mare | Associazioni Riunite

  4. Raffaele Birlini

    Si ha l’impressione che ogni tragedia diventi una cinica occasione per ribadire chi sono i buoni, gli antropologicamente superiori. Non solo devi provare pena per le disgrazie altrui, com’è normale che sia, ma devi esprimere pubblicamente dolore e costernazione, cordoglio e indignazione, a voce alta, per ribadire non che sei un essere umano ma che quelli del tuo partito sono buoni, gli altri no, gli altri sono insensibili, crudeli, egoisti, e sono felici quando la gente muore. A rafforzare l’idea che i media aiutino la politica a strumentalizzare l’immigrazione contrubiusce anche il fatto che se capita qualcosa nelle Filippine nessuno manda avanti le prefiche di partito né punta il dito contro il nemico del popolo che non partecipa al rito umanitario del lutto sociale, non mette il mipiace sotto il post buonista del giorno. Se poi il mipiace lo mette sotto il commento del poliziotto viene etichettato come fascista e licenziato, vivà la libertà, viva la democrazia, meglio della fossa dei loeni, della gogna, di pece e piume. Inoltre vorrei sapere cosa hanno fatto, personaomente, concretamente, gli amici “buoni”, per lenire il senso di colpa del benestante che guarda il servizio del tiggì. Ospita in casa dei profughi? Manda mezzo stipendio in nigeria? Perché son capace anch’io a essere buono sul divano di casa, a scrivere pezzucci strappalacrime per unirmi al gruppo degli antropologicamente superiori, dotati di particolare sensibilità, di grande umanità, di empatia fuori dalla norma. Dietro a tanta bontà esibita a parole, tanto desiderio di realizzare con la politica il paradiso terreno, non si nasconde tanta vanità, tanta superbia, tanta presunzione, tanta ipocrisia? La verità è che nessuno subisce volentieri, tantomeno desidera, essere oggetto di ondate migratorie. Il trasferimento dei poveri entro i confini geografici del mondo ricco non è sostenibile né socialmente né economicamente. Tra un po’ diventerà normale parlare di neocolonialismo e quelli che oggi fanno i buoni suggerendo “dategli brioches” diventeranno cattivissimi quando cadranno fuori dalla culla del benessere. Quando incontro un comunista ricco mi sembra di vedere un medico che fuma, un obeso che vende barrette dietetiche, fate quello che dico non quello che faccio, armiamoci e partite.

  5. Lazarus

    Gli amici “buoni” non hanno fatto e non faranno proprio niente come gli amici “cattivi”. Ma i primi essendo affetti da quel mascheramento dell’anima che chiamasi ipocrisia si scaricano la coscienza esprimendo pubblica esecrazione. Poi tornano a farsi gli affari loro.

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