Il “native advertising” è passato un po’ di moda nei dibattiti sul futuro del giornalismo: un po’ per sfinimento e cicli di hype, un po’ perché nessuno ha ancora ben capito come farlo e si è rivelato non essere la cura di tutti i mali invano attesa da molti editori disperati. Però il tema è sempre attuale, e secondo me con le lentezze del caso un po’ alla volta entrerà nei meccanismi dei prodotti giornalistici.
Ripasso: vengono chiamati “native advertising” diversi nuovi formati editoriali che stanno a metà tra la pubblicità e il contenuto giornalistico. L’espressione è usata per cose anche molto differenti tra loro, ma diciamo che si tratta di un’evoluzione dell’antico “pubbliredazionale”, in cui un contenuto è pagato da un inserzionista che quel contenuto promuove, ma è prodotto dalla redazione e dai giornalisti. Quello che lo distingue dalla “marchetta” già assai frequente nei giornali italiani, è che la sua natura di contenuto pagato dall’inserzionista dovrebbe essere palese e visibile ai lettori (e potenzialmente, il contenuto sia anche molto indipendente dalla promozione diretta del prodotto).
Questa è, anche per chi sia laico rispetto a queste “contaminazioni”, la pregiudiziale indiscutibile: se pubblico un articolo su un orologio, su uno smartphone, sulla storia di un’azienda alimentare, o sul tema generale della produzione del caffè o anche su una bella storia che non c’entra niente, i lettori devono sapere chiaramente se quell’articolo si debba a una scelta indipendente della redazione – a cui sembrava una storia interessante, punto – o se la redazione lo ha prodotto (con identica qualità, nel caso più riuscito di native advertising) su richiesta di un inserzionista, a pagamento, o dentro un più ampio rapporto economico con un inserzionista.
Queste cose, dicevo, oggi avvengono in maniera non trasparente sui quotidiani e sulle riviste italiane, col risultato di avvilire il valore degli articoli indipendenti: una cospicua quantità di recensioni, praticamente tutte le pagine di moda, le pagine di “eventi” e mostre, gli inserti o speciali su “stili di vita” o simili, sono decisi e confezionati in conseguenza di rapporti con gli inserzionisti. Che è una scelta legittima per un prodotto commerciale come un giornale – e di questi tempi spesso necessaria – ma ingannevole nei confronti dei lettori se il messaggio complessivo è che anche quelle pagine siano costruite a partire dai criteri di rilevanza, obiettività, autonomia da cui il giornalismo si dice indirizzato.
Per le testate che invece a questa distinzione tengono – dovesse il Post affrontare progetti e formati simili, sarebbe indiscutibile -, soprattutto americane, la discussione è già un passo avanti: ovvero sulle formule linguistiche e grafiche con cui spiegare efficacemente al lettore la natura di quei contenuti, senza svilirne il valore. Insomma, sono contenuti giornalistici prodotti per ragioni commerciali e quindi vi si scontrano le due grandi tensioni dei progetti di informazione (migliorare il mondo e stare in piedi economicamente): è inevitabile che la sintesi sia molto difficile.
In questi anni giornali e inserzionisti americani hanno molto discusso e oscillato su queste scelte di confezione formale: se indicarli come “sponsorizzati”, “a pagamento”, “pubblicità”, “presentati da”, “offerti da”, “promossi da”, o cosa ancora; con quale dimensione in quali spazi indicarlo; quali scelte grafiche usare per distinguerli dai contenuti giornalistici più indipendenti.
Still, publishers are all over the place in how they disclose native ads. The Huffington Post uses the moniker “presented by,” while Slate uses “sponsored content” and The New York Times has its “paid posts.” Earlier studies have shown people often can’t distinguish native ads from editorial, which raises concerns about the ethics of the format.
Il sito Digiday ne parla presentando una ricerca secondo la quale la formula “pubblicità” è quella – prevedibilmente – che più tiene alla larga i lettori e quindi indispone gli inserzionisti; mentre “presentato da” e “sponsorizzato” sono meno respingenti – parliamo di contenuti che spesso contengono informazioni rilevanti per i lettori, al di là della loro genesi sponsorizzata -, ma al tempo stesso sono meno chiari per i lettori sulla natura di quei contenuti, e spesso non permettono di associare il contenuto con l’inserzionista, diminuendo l’effetto di promozione del brand.
La discussione è interessante non solo per gli addetti ai lavori, ma soprattutto per i lettori, che è meglio se sono al corrente dei meccanismi, il valore, la credibilità e il senso di quello che leggono. Ripeto, l’unica pregiudiziale indiscutibile è che da dove venga la scelta di produrre quell’articolo – di quell’ottimo articolo, nel migliore dei casi: anche se per alcuni tanto ottimo non potrà mai essere – i lettori devono saperlo.
Mi viene da pensare : nel 1978 nacque Mediaset , sostanzialmente 3 canali televisivi che si reggevano sul ‘ inserto pubblicitario . Tale e tenta era la portata che alcuni slogan sono diventati d’uso quotidiano nelle conversazioni , non che hanno fatto diffondere su larga scala il prodotto stesso .
Ne deriva che gli italiani siano mass mediatici dipendenti nella scelta dei consumi .
Tutto questo per dire che , preferisco sapere ed avere ben chiaro quale sia lo scopo di cio che sto leggendo .
Tante parole, tanti argomenti, una sola realtà variamente declinabile: ci siamo dentro fino al mento. Non fate l’onda, non fate l’onda…
Questo post risponde al dubbio che avevo riguardo alcuni video che ogni tanto IlPost mette, come l’ultimo sul cibo.
Avevo il dubbio che fossero una forma pubblicitaria (nel senso che si facessero pagare) e invece, mi pare di capire, no.
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