L’elefante nella stanza

Riparliamo un momento di notizie false. Quando uscì quel libro, l’anno scorso, dissi in giro che averlo fatto era anche un modo per chiudere una decennale attenzione divenuta un po’ fanatica sulle “notizie che non lo erano” e attenuare un po’ il lavoro di debunking prima di diventare un “professionista delle notizie che non lo erano”: che poi quando le cose si fanno con troppa insistenza si diventa meno credibili e forse anche meno obiettivi.
Nel frattempo, però, come avrete notato, la questione è dilagata, soprattutto nelle ultime settimane: il mondo ha scoperto i rischi delle democrazie informate male, rischi che erano stati sottovalutati ma che erano arcinoti.

«Occhio che questo è lo snodo principale di tutti gli equivoci che si sviluppano intorno alle esaltazioni della democrazia, sincere o strumentali che siano. Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa. Funzionano bene le democrazie in cui i cittadini sono informati correttamente, e male quelle in cui non lo sono. Come diceva Goffredo Parise, «Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra». Frequente nel populismo è invece l’appello alla volontà popolare coordinato con un investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini.»

E con quello che è successo quest’anno, a cui si è aggiunta la notiziola di grande attrattiva mediatica sul termine “post truth”, adesso stiamo improvvisamente parlando tutti di notizie che non lo erano, a buoi abbondantemente scappati, e domandandoci come rimetterli nel recinto. E l’unica cosa che ci viene in mente è “il problema è internet, e i social network” (analisi che peraltro non risolve un bel niente, fosse anche vera). Soprattutto è l’unica cosa che viene in mente all’informazione giornalistica tradizionale, sempre molto elusiva rispetto alle proprie responsabilità su questo fronte (oggi Monica Maggioni, con la distanza che il ruolo le consente, cita per qualche riga queste responsabilità, ma sfuggendo al tema dell’inaccuratezza: è il massimo di autocritica si sia visto in questi giorni).

Per questo userei invece, come esempio di analisi assai più competente e obiettiva di quelle che leggiamo sui giornali, quello della direttrice di “Snopes”, sito di debunking di notizie false di grande esperienza e popolarità. La quale dice le due cose fondamentali da cui invece tutto il dibattito di questi giorni sta sottraendo lo sguardo, per coda di paglia o ignoranza di questi temi.

1. «Non sono i social media il problema. È che la gente vuole qualcuno con cui prendersela».

2. «Il pubblico ha perso fiducia nei mezzi di informazione, e quindi nessun giornale è più considerato credibile. Le ragioni sono note: il business dei media è diventato difficile e molti giornali hanno tagliato le risorse che permettono ai giornalisti di fare bene il proprio lavoro. “Quando sei sulla storiaccia di oggi e non c’è un caporedattore perché è stato licenziato e non c’è un fact checker e quindi devi cercare tu su Google e non hai a disposizione studi o ricerche scientifiche o niente del genere, finisci per fare un casino”».

Il risultato è che avere argomenti per aggredire qualcuno è diventato più importante che conoscere la verità, e che non esiste più un’autorevolezza della verità.
Entrambe le cose sono valide negli Stati Uniti come in Italia. Per dire, Brooke Binkowski fa l’esempio di una falsa notizia su “El Chapo che minaccia l’ISIS” uscita su alcuni quotidiani americani, che hanno dovuto smentirla dopo che Snopes aveva individuato il sito di satira che se l’era inventata. Quella notizia è però tutt’ora online su: Ansa (con successivo insignificante inciso), Secolo XIX, Libero, Messaggero e altri siti di news. El Chapo è peraltro il soggetto frequentissimo di notizie false, come la Corea del Nord o il Vaticano. Solo qualche giorno fa il Corriere della Sera ha dedicato un articolo alla tesi che El Chapo in persona scriva cose bellicose su Twitter, e ha scritto che “dalla sua cella in Messico, il boss della droga ha twittato (o qualcuno ha postato in rete per suo conto)”: ipotizzando che un account molto dubbio e screditato sia in realtà gestito personalmente in carcere da un gangster di cui si teme continuamente l’evasione, o che almeno lo detti lui.

Ma in Italia al punto 2 c’è da aggiungere un elemento in più: i media italiani “finiscono per fare un casino”, nelle notizie che danno e nei loro articoli, già da ben prima che arrivasse la crisi di risorse. Per una scarsa inclinazione all’accuratezza estesamente nota e documentata, e per affinità tradizionali coi meccanismi sensazionalistici dei tabloid britannici più screditati (che oggi sono fonti usatissime nei media tradizionali italiani). Meccanismi che in tempi di vacche magre sono ulteriormente esaltati: l’asticella con cui attirare l’attenzione del lettore viene alzata ogni giorno, per panico da crisi di vendite. Scrivendole grosse e scrivendole false. Non si pubblicano notizie false perché mancano i mezzi per controllarle, ma perché l’accuratezza non è una priorità, nelle teste.

A volte ultimamente mi sembra che in alcune redazioni maggiori, responsabili in questi anni di clamorose trascuratezze e falsità nel racconto delle cose, la reazione critica ricevuta da siti e lettori online – gli unici ad avere creato un’attenzione al problema, anche se spesso troppo aggressivamente – e il grande lavoro di debunking contemporaneo sembrino aver imposto un accenno di premure in più: se non altro per timore del discredito/gogna. Può darsi sia solo un’impressione rassicurante, che viene ancora frequentemente smentita. Come mostra questo aggiornamento di ieri alla storia dell’Elefante della Minerva, che trovate solo a cercarlo con la lente d’ingrandimento. Ricorderete invece come era stata annunciata la notizia del danno solo pochi giorni prima (danno che qualcuno aveva pure chiamato “irreversibile” senza che un solo giornalista domandasse “davvero?”).

Restauro in corso per l’elefantino della Minerva a Roma. Vittima di atti vandalici, l’elefante aveva perso la zanna che oggi è stata riattaccata alla scultura. Pare che a rovinare la statua sia stata una pallonata, ma in tempi record i restauratori hanno riportato l’elefante al suo splendore applicando una resina e poi circondando il tutto con un foglio di polietilene in modo che la pioggia non interferisca con la presa del collante. Da oggi pomeriggio l’elefante sarà di nuovo ammirabile nella sua interezza.

Ok, ho un po’ divagato: gli esempi nuovi e quotidiani mi incuriosiscono e un po’ mi manca, evidentemente, l’analisi di questo genere di cose. Quindi riprendo il filo principale, nelle parole di Brooke Binkowski. I fattori principali dello svilupparsi pericoloso delle notizie false sono due: che la gente è incattivita e che i media tradizionali lavorano male. Il primo dei due è a sua volta incentivato dal molto di falso, inesatto, aizzatore, che i  media tradizionali raccontano (con l’allegra complicità di molti politici che ci vincono le elezioni, con questo racconto). Non è per dare colpe: ormai siamo ben oltre. Ma se vogliamo farci qualcosa, non devono essere solo Google e Facebook a promettere “staremo più attenti”.

The only thing that we are doing that we can really keep doing is: just say the truth again and again and again and again and again, and just keep doing it

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5 commenti su “L’elefante nella stanza

  1. uqbal

    Mi rendo conto che il post non è una raccolta di notizie che non lo erano, bensì una riflessione generale, però oggi sono incappato in una “notizia che non lo era” particolarmente fastidiosa, e il bottone offertomi da questo post è più che sufficiente per segnalarla qui:

    http://www.repubblica.it/scienze/2016/11/19/news/sonda_su_marte_test_affidati_a_una_ditta_romena_cosi_si_e_schiantato_schiaparelli-152309028/?ref=HRER3-1

    Al contrario di quanto detto nel titolo e nel cappello (e stamattina la notizia era data con un’espressione ancora più netta, poi cambiata) la ditta romena NON ha effettuato alcun test, rinunciando preliminarmente all’appalto.
    E’ stata l’ESA che a fronte della rinuncia di Arca (la ditta romena) ha detto: “Beh, il test non lo facciamo, ci teniamo le simulazioni di una ditta inglese”.
    Però Repubblica non ha scritto “L’ESA non ha effettuato i test necessari” o anche “Una ditta inglese ha sbagliato la simulazione”. Ha scritto “aziende coinvolte imprese prive di esperienza”, quando nello stesso articolo si dice che è il team ESA a non avere esperienza.
    D’altra parte, perché farsi mancare un bel titolone contro i romeni? Oltre alla deontologia professionale, questo è anche un giornale che si propone come progressista e sensibile ai problemi di discriminazione, razzismo.

  2. BoJack

    La dico anche qui, vedi mai che seminandola qualcuno non la raccolga.
    Facebook ha la possibilità di essere un attore straordinario nella lotta a favore di un’informazione di qualità.
    Può rendere economicamente conveniente fare giornalismo serio di nuovo.
    Deve “solo” trovare il modo di dare la stessa visibilità agli articoli di fact-checking rispetto alle bufale che smontano. Questo è facile, perché può sparare la storia in alto nel feed di tutti quelli che hanno visto, commentato, interagito con quella falsa. Per l’autore significa enorme traffico, e sarebbe ottenuto grazie a un servizio civico che da anche possibilità di fare un certo tipo di giornalismo.
    Potrebbero esserci regole oggettive molto severe perché un articolo di fact-checking sia accettato nel sistema (fonti documentate, materiali audio/video, carte istituzionali, etc). Di certo ci sarebbe una componente umana, in questo scrutinio. Ma rendere trasparenti le regole e le decisioni potrebbe attenuare le polemiche.
    L’altra cosa da fare è che se proprio grazie al fact-checking si individuano i siti e le pagine violatori seriali, si può annichilire la loro reach organica, cioè la loro visibilità su Facebook.
    Penso che in breve tempo il fenomeno dei falsi si sgonfierebbe.

  3. udippuy

    Sogno da anni di creare un buon sito, utilizzabile da chiunque e aggiornato, per segnalare e archiviare i casi in cui la stampa e media riportano notizie false o presentate in modo distorto. Si potrebbe creare nel tempo un indice consultabile di quali giornalisti e quali testate siano piu’ sciatti o addirittura disonesti.
    Naturalmente il problema e’ che un archivio del genere, per essere minimamente autorevole, deve poter prescindere da un singolo punto di vista e quindi deve permettere di discutere ogni singola segnalazione nel dettaglio- altrimenti diventa un’opinione di parte fra le altre. Il modello wiki sembra il piu’ adatto a questo tipo di discussione.
    Immagino che la smentita delle bufale possa essere virale sui social media quanto le bufale stesse, se viene condotta con attenzione e se si riesce a renderla accattivante. D’altra parte che cosa piace di piu’ al pubblico che leggere degli errori dei famosi e degli autorevoli?

  4. dona cap

    Credo che il ruolo dei giornali, in edicola o online, nell’orientare l’opinione pubblica sia marginale. Leggerli non è un’abitudine di massa.
    Inoltre quello che tu giustamente denunci da tempo a me sembra piú una conseguenza che una causa del dilagante fenomeno di perdita dell’apprezzamento delle competenze.

    Nel XV secolo l’introduzione della stampa a caratteri mobili ha avuto conseguenze enormi: tra l’altro non è stata la causa della Riforma, ma ha contribuito a renderla possibile, indebolendo il ruolo di mediazione della Chiesa. Sta succedendo qualcosa di analogo, ora?
    A me sembra che mettendo a disposizione di chiunque la possibilità di consultare direttamente le fonti (senza poter controllare la loro affidabilità) e di esprimersi direttamente quello che internet stia provocando sia soprattutto l’indebolimento del ruolo di mediazione delle elites. E purtroppo anche quello del sapere scientifico certificato. Si stará mica affermando l’idea che la merda deve essere un’ottima cosa se miliardi di mosche l’apprezzano?
    E poi. Chi teme i poteri forti si chiede mai quanto sia forte il potere chi elabora e gestisce gli algoritmi fondamentali in internet?

    L’inevitabile ritrovarsi in internet in una cerchia di simili, nei social networks e non solo, contribuisce certo ad una radicalizzazione delle posizioni e alla perdita del contatto con la realtà ma è solo uno dei nuovi fenomeni… troppo da dire per un commento.

    Non voglio certo demonizzare internet . Il confronto con l’introduzione della stampa dovrebbe bastare ad escluderlo. Che fare? Pedagogia, d’accordo. Ma chi insegnerà agli insegnanti? La maestra elementare ora senatrice M5S che ha rilanciato la bufala sul taroccamento della magnitudo del sisma probabilmente come senatrice può fare meno danni che a scuola.

  5. gbrombin

    Credo che il punto 1 venga liquidato un po’ troppo facilmente. Non per dar contro FB o per difendere i giornali, ma credo sia davvero più complesso di così. Perché questo risentimento verso le “elite” sta venendo fuori in modo così dirompente solamente ora? Io credo c’entri molto la frustrazione di vedere il proprio disagio percepito contrapposto al racconto dei molti “inseriti” (molto più numerosi, prossimi e attivi delle vecchie e semplici celebritiy), e il potersi sfogare in pubblica piazza molto più efficacemente, affiliandosi a “gruppi” appositi.
    Sicuramente anche le notizie false hanno un ruolo, ma quanto può incidere nel discredito verso i mezzi di comunicazione, specie paragonandoli ad altri fenomeni ancora meno credibili che però riescono a proliferare?

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