Disobbedire agli Ordini

Non sono quasi mai d’accordo con i difensori a spada tratta e petto in fuori dell’Ordine dei Giornalisti: non perché escluda che un Ordine dei Giornalisti non possa aiutare a tutelare sia i diritti dei giornalisti che quelli dei lettori (giornalisti compresi), e a far sì che il giornalismo sia migliore e migliore la vita di una democrazia. È proprio perché penso che questa debba essere una sua proficua e prioritaria funzione che – vedendola quotidianamente insoddisfatta – sono diventato scettico sulla sua reale utilità e sulle motivazioni e coerenze dei suoi difensori. L’OdG italiano è un sindacato, e ha come priorità la tutela delle condizioni di lavoro dei suoi iscritti, fine.
Non suoni per fatto personale, ma solo come l’esempio più spiccio che posso fare, tra altri mille (qualcuno nell’Ordine ha indagato le responsabilità dei media sulla creazione del panico da vaccini? Qualcuno ha contestato il ruolo di molte testate nella conservazione di un’immagine subordinante e umiliante delle donne? Qualcuno ha messo in discussione le persecuzioni giornalistiche subite da persone dimostrate poi innocenti? L’allarme sociale generato da notizie false ed esagerate, e le sue conseguenze, sono una preoccupazione dell’Ordine? Eccetera): ho pubblicato due anni fa un libro imbottito di dimostrazioni di pessime dinamiche del giornalismo italiano e delle loro nefaste conseguenze sulla vita civile; molti lettori hanno detto di esserne stati illuminati, molti colleghi si sono privatamente o pubblicamente complimentati, e secondo voi l’Ordine dei Giornalisti ha mai mostrato qualche reazione o interesse, in qualunque sua emanazione, anche solo per negare la tesi? I casi sono due: o dico la verità, e allora c’è un problema di dimensione tale che un ordine professionale non può eludere, o mento e allora sto infangando la professione e mi merito un provvedimento disciplinare, o una denuncia.
La mediocre qualità e scarsa accuratezza del giornalismo italiano – della sua cultura – è il problema principale non solo del giornalismo, ma temo di più estesi ambiti della società italiana (e le conseguenze del proprio essersi squalificato le stiamo vedendo): eppure è un problema che non esiste, per l’Ordine dei Giornalisti, che sembra agitarsi solo per difendere la propria esistenza o astratta onorabilità. Questi “precetti deontologici” sono annunciati per bellezza:

b. la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti princìpi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica.
c. l’esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà:
d. il dovere di rettificare le notizie inesatte. La pubblicazione della rettifica è un obbligo di legge (art. 8 legge 47/1948 sulla stampa), ma sul piano deontologico il giornalista deve provvedervi autonomamente senza attendere l’impulso della parte lesa dalla diffusione di “notizie inesatte”
e. il dovere di riparare gli eventuali errori;

Detto questo, non c’è dubbio che l’espressione usata due giorni fa da Maria Teresa Meli – una giornalista del Corriere della Sera che si occupa di politica – contro l’Ordine sia piuttosto riprovevole: «L’ordine dei Giornalisti va sciolto nell’acido». Non per quello che dice all’Ordine (che alla fine è una istituzione amministrativa astratta) o alle sue vestali vittimiste, ma per l’uso sventato di un’espressione che ha origini orribili e non dovrebbe essere usata neanche per scherzo, per rispetto di altri. Immagino che a Meli sia sfuggita e che preferirebbe aver detto altro: ma lo sfuggire delle parole e la disattenzione alle conseguenze è uno dei tipici problemi del giornalismo italiano corrente, e “che vuoi che sia”, “i problemi sono altri”, tipiche formule da autoassoluzione di ogni sventatezza.

Adesso quindi stanno litigando, i difensori dell’istituzione svuotata e i difensori di Meli sventata: c’è persino una raccolta di firme di colleghi che rifiutano l’esistenza dell’Ordine ma contestano i provvedimenti disciplinari dell’Ordine (come un mio amico ateo e mangiapreti che si indigna per le scelte interne della Chiesa). Di alcuni conosco buone fedi e buone ragioni, ma mi auguro che siano tutti altrettanto solerti nel protestare pubblicamente quando i principi dell’etica giornalistica siano violati da questa o quella testata (la propria, per esempio), da questo o quel giornalista: ciò che non fa l’Ordine. Che non merita auspici tanto efferati: solo la constatazione della sua natura reale, che niente ha a che fare con l’etica giornalistica e i principi della democrazia di cui parlano i suoi difensori, e la cui manifestazione più familiare a tutti i giornalisti professionisti è la richiesta di cento euro all’inizio di ogni anno, seguita dall’esibizione del tesserino per entrare gratis nei musei. Il giornalismo non è – soprattutto nel 2017 – quello che è iscritto all’Ordine, ma quello che aiuta a capire il mondo, con o senza tesserini, come dice Jeff Jarvis. E ce n’è un sacco, grazie al cielo:

«Qualunque cosa svolga efficacemente il compito di creare comunità più informate – e quindi meglio organizzate – è giornalismo»

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