Senza fare alcuno sforzo

Ognuno ha i suoi ricordi infantili mitologici: tra i miei c’è anche il concerto di uno che suonava le sedie. Oggi l’ho incontrato di nuovo, dopo alcuni decenni, in un pezzo di Corrado Sannucci su Repubblica:

“Forse non finirà in classifica, ma comunque sentir fischiettare dagli spettatori “Lavorare con lentezza” all’uscita del film di Guido Chiesa è una tardiva, parziale ma anche affettuosa ricompensa per Enzo Del Re, uno dei cantastorie dimenticati della musica popolare italiana. E il fatto che nel film la canzone accompagni lo scavo sotto terra dei due balordi non potrà che avergli fatto piacere, a lui che della lotta a ogni potere ha fatto una bandiera radicale, ultimativa, inflessibile, fino ad autoescludersi da ogni circuito commerciale.
Ma quello che adesso risuona come un ironico ritornello era però stato un hit negli ambienti della sinistra rivoluzionaria e in quelle che allora si chiamavano le “feste del proletariato giovanile”. E la canzone era tratta da un Lp che si era stampato da solo, con canzoni non depositate alla Siae, ente che egli odiava massimamente, così come l’Inps, le aziende municipalizzate dei trasporti pubblici e la Rai. E quel disco, ormai una rarità da antiquario conservato gelosamente da chi lo possiede, vecchi militanti per lo più di Lotta Continua, aveva un«indimenticabile copertina gialla, che non sarà diventata famosa come quella della mucca dei Pink Floyd, ma che ha lasciato un ricordo indelebile in chi l’aveva avuta tra le mani e ne aveva ascoltato le canzoni.
Tutto in Del Re era al di fuori di ogni schema, a cominciare dello strumento per accompagnarsi, la sedia, che egli percuoteva ritmicamente tenendone la parte piatta tra le gambe. Ne nascevano ritmi ipnotici, sui quali modellava il suo canto, con una voce calda, profonda, ammaliante, perfettamente intonata. Nonostante la sua ideologia ferrata (per un certo periodo girava con due valigie piene di libri di Mao) le sue canzoni hanno sempre avuto un tono lieve, con giochi di parole, scherzi onomatopeici, invettive bizzarre ai potenti, aforismi, (“Adoro il lavoro ma detesto la fatica”) che bene si miscelavano all’accompagnamento del tamburo di legno, un suono materico che ora era cabaret, ora propaganda, ora coscienza dolorosa.
Ogni suo concerto era un ciclone che passava sopra gli organizzatori. Mutuando lo slogan “resistere un minuto più del padrone” Del Re ricordava a tutti che il padrone dell’artista è il pubblico, quindi il suo scopo era quello di resistere un minuto più dell’ultimo degli spettatori. E la vinceva, perché il cantante popolare non ha limiti e non ha scalette, anche se chi lo aveva chiamato aveva le mani tra i capelli e imprecava guardando l’orologio. In quei momenti l’organizzatore non apprezzava di aver dovuto offrire all’artista solo una sedia qualsiasi, risparmiando su gli strumenti.
Il suo impegno sul palco, il suo servire il pubblico, obbedivano a un dovere e un’etica: documentare i fatti, risvegliare le coscienze. Cantò la rivolta di Avola, l’uccisione di Tonino Miccichè, negli ultimi anni ha composto una monumentale opera di cinque ore e mezza, “La leggenda della nascita di Mola”, la città dove è nato e vive, lui pugliese come l’altro grande cantore popolare, Matteo Salvatore. Una volta spiegò perché suonava la sedia: per riscattare l’oggetto dall’uso infamante che ne avevano fatto gli americani uccidendo Sacco e Vanzetti nella versione elettrificata.
A sessant’anni ha ingaggiato una lotta con la creatinina ma assicura che ce la farà. «È l’amore per la musica che mi guarisce». Ora ci vorrebbe un Wenders che avesse voglia di ripescare lui e altri come lui, e fare un film con le loro biografie, o cantanti che imitassero Dylan o Dulce Pontes che recuperano le canzoni dei compositori popolari. Solo in Italia i cantanti commerciali hanno la spocchia di ignorare il patrimonio popolare e di sentirsene superiori”.

Commosso dall’incontro, sorvolo su quest’ardita e temibile lezione conclusiva.

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