“I am a deejay, I am what I play”
(David Bowie, D.J.)
“Heard that tune, and now I’m pining
Honey, can’t you see?
‘Cause every time I hear that melody something breaks inside”
(Tom Waits, Grapefruit moon)
L’avevamo voluto moltissimo. Io e mio fratello ricevemmo in regalo il magnetofono Castelli per un natale, o un compleanno: questo non me lo ricordo esattamente. Ma lui, il magnetofono, me lo ricordo benissimo. Per la lingua di allora – la parola è in effetti desueta – un magnetofono era semplicemente un registratore a cassette, che aveva ereditato il suo nome dai precedenti registratori a bobine (mia zia ne aveva uno, a bobine: ma era rotto, e noi bambini l’avevamo sempre guardato desolati, schiacciando i tasti invano ogni volta che gli passavamo vicino, hai visto mai). Cosa fosse un registratore dovreste invece saperlo tutti, almeno ancora per qualche anno. E insomma, l’avevamo voluto moltissimo. L’idea di poter “possedere” la musica che sentivamo alla radio, di poterla ascoltare a nostro piacimento, e gratis, ci sembrava una cosa quasi troppo bella per essere possibile. Un registratore. E invece arrivò. Era nero, grande come una scatola da scarpe – una scatola da mocassini, direi – e aveva i tasti di colori diversi: rosso quello della registrazione, che andava premuto assieme a quello della riproduzione, e grigi gli altri. Naturalmente si chiamavano REC, PLAY, PAUSE, FFWD, REV e STOP. Noi li pronunciavamo esattamente così: “premi rec!”, oppure “premi ffwd!”, che suonava una specie di sputacchio ma dava anche un’idea immediata e onomatopeica dell’avanzamento veloce del nastro.
Eravamo piccoli. Io avevo nove anni e mio fratello otto. Non so come diventammo appassionati di “musica leggera” (allora si chiamava così) così presto. In casa c’erano in effetti alcuni dischi e alcune passioni: ma erano cantanti francesi, vecchi Battisti, Mozart, Donovan. Non le cose che passavano in radio nel 1974.
Invece noi ascoltavamo quelle: e in particolare Alto Gradimento e la hit-parade di Lelio Luttazzi. Andava in onda tutti i venerdì intorno all’una: forse 13 e 20, se la memoria non m’inganna (ma forse mi confondo con Happy Days, che andava alle 19 e 20, qualche anno più tardi). Erano le nostre scadenze fisse della settimana. La Hit-parade, i primi otto in classifica, il venerdì e in replica il lunedì. E i Dischi caldi – la serie B, i secondi otto – la domenica e il giovedì. Presentati da Giancarlo Guardabassi.
Il magnetofono Castelli ci cambiò la vita. Usavamo delle cassette BASF o “Compact Cassette”, vendute senza scatola all’Upim: TDK e Sony sarebbero venute poi. Chiudevamo la porta del soggiorno e ci sdraiavamo sul tappeto con la radiolina portatile e il registratore. Predisponevamo tutto schiacciando il tasto PAUSE, poi REC e PLAY assieme, e dopo il rituale urlo “hiiiit-parèeeeiiiii!”, ci concentravamo sull’operazione: indice pronto sul tasto PAUSE e attesa dell’annuncio del titolo successivo per decidere se ci interessava o no. La cosa era resa più complicata dagli applausi che aprivano e chiudevano la trasmissione della canzone, e che vi si sovrapponevano a metà dell’esecuzione. Quelli a metà erano inestricabili, e ce li tenevamo. Gli altri cercavamo di tagliarli fuori. Il risultato non era sempre soddisfacente: a volte sbagliavamo il tempo, o sbagliavamo il tasto. In altri casi la canzone era trasmessa già molto iniziata. Nel primo caso ci avremmo riprovato qualche giorno dopo, con la replica, stavolta allertati. Nel secondo ci saremmo tenuti quell’esecuzione, salvo sostituirla la settimana successiva, sperando fosse ancora in classifica. Altre volte era reso necessario dai maldestri suoni di risate (nostre), starnuti o inciampi negli oggetti del soggiorno, che finivano sul nastro.
Naturalmente dopo un po’ di tempo possedemmo un discreto repertorio (una compilation, si sarebbe detto, se i tempi fossero stati già così degenerati), e le nostre attese si concentrarono sulla prima parte del programma, dove era più facile apparissero “nuove entrate”. Luttazzi aveva tutto un suo gergo: c’era “l’olimpo della hit-parade”, la “canzone regina”, la “canzone veterana”, la “damigella d’onore”.
Collego a quel tappeto del soggiorno nomi immortali nella mia memoria bambina e giustamente stradefunti in quella della musica mondiale: i Santo California, gli Albatross, Paolo Frescura, Leano Morelli. Malgrado le debolezze del gusto infantile, con mio fratello avevamo già maturato una certa capacità critica, per cui le nostre cassette privilegiavano i titoli internazionali che – era invece ancora scarsa la dimestichezza con l’inglese – scrivevamo sulla custodia così come li sentivamo declamati da Luttazzi: “RICIAU ALBIDÈ”, “DE ASSOL”, “A BLU SCIADO”, “ARRI CHEN”, “DETSUEI”, “NEVER CHEN SEI GUBBAI”.
Mi ricordo di quando il primato di “Pensieri e parole” – canzone avvolta da un alone di grandezza e mistero: non l’avevamo mai sentita, ma Luttazzi la citava sempre – fu infranto da “Ancora tu”, che rimase prima in classifica per dodici settimane (fu rimpiazzata da “Ramaya”, col nostro concorso: sospetto con vergogna possa essere il primo 45 giri che ho comprato in vita mia, in competizione con “All by myself” di Eric Carmen). Mi ricordo che saltavano sempre la trasmissione di “Je t’aime moi non plus”, e si parlava di una a noi misteriosa vicenda di “censura”. E mi ricordo di quando cominciammo – più tardi – ad applicare il procedimento miracoloso della registrazione alle canzoni contenute in alcuni dischi che passavano per casa. In assenza di cavi opportuni per il collegamento diretto, bisognava avvicinare molto il magnetofono Castelli agli altoparlanti di un giradischi Lesa a valigetta, appoggiare la puntina, schiacciare il tasto PAUSE e allontanarsi furtivamente e zittissimi dal soggiorno per i minuti necessari a che niente guastasse la registrazione.
La curiosità per la forma lunga e articolata del Long Playing era di là da venire e avrebbe segnato tutta la fase tra la terza media e il liceo: una fase dura e pura dedicata a dinosauri del rock e cantautori italiani (con un giradischi leggermente più evoluto, il cui braccio tornava a posto da solo, ci addormentavamo la sera ascoltando il Greatest Hits di Simon and Garfunkel e Tea for the Tillerman di Cat Stevens), prima che gli anni Ottanta mi riportassero a contatto con l’attualità più frivola.
C’erano i 45 giri – il primo regalo che abbia mai fatto a una ragazza che mi piaceva fu il 45 giri di “La vie en rose”, in seconda media: versione Grace Jones ovviamente -, c’erano i juke-box, c’era la hit-parade. Le canzoni nella forma radiofonica tra i due e i quattro minuti al massimo, messe in discussione anni prima nel mondo parallelo del rock, erano sempre l’unità di misura della musica pop. I concept album, le suite di tredici minuti del progressive rock, le esercitazioni strumentali, i medley, e tutti i tentativi di rivoluzione creativa degli anni Sessanta e Settanta non riuscirono in ciò che poté più tardi la tecnologia, con l’introduzione del cd. La conversione del Long Playing in Compact Disc fece storcere il naso a molti, e molti ancora ce l’hanno storto: perso il fascino dell’oggetto, persa la sua elegante vulnerabilità, persa l’unicità delle copertine e delle confezioni, persa la sfogliabilità e la leggibilità dei testi, persa per alcune scuole di pensiero persino la qualità sonora, persa ogni ritualità consolidata da decenni di uso. Perso quel senso di relazione visibile tra lo scorrere del solco sotto la puntina e il suono della musica, tra lo spazio concreto occupato sul vinile e la canzone. Ma – il successo della conversione sta lì a dimostrarlo – il compact disc diede nuova vita e un’illusione di immortalità e purezza a discografie storiche, rese più pratico, accessibile e invulnerabile l’ascolto e l’uso della musica, ci emancipò dal capovolgere il disco ogni venti minuti e dalla macchinosità di estrazione e allocazione di copertine, controcopertine, fodere interne, eccetera. Il passaggio da vinile a digitale ha funzionato, e con ragione (primi cd acquistati, questi me li ricordo: Year of the cat, L’apparenza di Battisti e Big Thing dei Duran Duran).
Ma il singolo? Il tentativo di mantenere in vita il formato del 45 giri – o EP, come si diceva dei singoli di grande formato, pensati originariamente per una più pratica gestione da parte dei deejay e poi diventati oggetti di culto per fans e collezionisti – trasferendolo sul nuovo formato si rivelò rapidamente sia erede dei limiti del vecchio che alieno alle praticità del nuovo. Rispetto al cd normale, il “cd single” suona autonomamente per un tempo molto breve; ha la sua stessa confezione – o quasi – e stesso formato, e nessuna identità e immagine sua, finendo per somigliare a una versione povera del cd vero e proprio. E in più, ha praticamente gli stessi costi industriali di un cd da dieci canzoni, ma si vende a un prezzo molto inferiore: non una gallina dalle uova d’oro per l’industria discografica.
Ne ho comprati alcuni, per collezionismo, per qualche tempo. Sono brutti, freddi, e inutili. I sedici EP su vinile degli Style Council mi sono più cari da soli di tutti i cento cd singoli che possiedo, compresi quelli dei Counting Crows e quello dei Pogues con la confezione di cartone. Quanto ad ascoltarli: prendere dallo scaffale una scatola di plastica, estrarne il cd, appoggiare da qualche parte la scatola, aprire il cassetto del lettore, infilare il cd, premere play, e tutto per un’emozione da tre minuti e quarantuno secondi che oggi posso avere con due click di mouse, è un’impresa dal rapporto costi-benefici del tutto assurdo per gli standard correnti. Ma questo è l’oggi, che come vedremo ha ulteriormente rovesciato la questione: il singolo intanto era già morto pochi mesi dopo l’arrivo del cd (tra il 1997 e il 2002, i cd singoli consegnati ai negozi americani passarono da 66 milioni e 700 mila a 4 milioni e mezzo).
E altrettanto precipitosamente, morirono le hit-parade. I numeri delle vendite dei singoli calarono, i singoli stessi divennero quasi solo un’unità di promozione radiofonica: in molti casi esistevano solo perché le radio avessero una canzone con cui ipnotizzare il pubblico verso l’acquisto di un cd che la conteneva (e questo è quello che avviene tuttora). Le classifiche divennero ostaggio di variazioni repentine e successi da una settimana. Tutto l’agonismo della lenta conquista della vetta, della lunga permanenza in classifica, del rapporto credibile tra grandi vendite e successo in hit-parade, si perse nel volgere di pochi anni. Oggi si arriva primi in classifica vendendo una miseria di copie, se ne esce altrettanto rapidamente, e soprattutto non gliene frega niente a nessuno (salvo agli addetti ai lavori, che le usano ancora come strumento di promozione e comunicati stampa, fingendo di prenderle sul serio). Chi di voi, che state leggendo un libro che parla di canzonette, sa quale sia prima in classifica questa settimana?
Sancita la mortalità dell’oggetto commerciale, rimaneva il suo contenuto: la canzone. Poteva essere mortale anche lei? Ma va’. La canzone appartiene alla specie umana e al suo modo di vivere. Per ragioni antropologiche e culturali che qualcuno saprà spiegare, la canzone è per gli uomini e le donne come il pasto quotidiano, come il sonno notturno. Nessuno mangia per otto ore e poi digiuna per quattro giorni (anche se con certi matrimoni ci si va vicino), nessuno alterna due ore di sonno a due ore di veglia, e così via. E le canzoni sono fatte così, durano quel tempo lì, hanno quegli ingredienti lì. Le deroghe sono solo deroghe, e non si può tirare la corda più di tanto: se dura ventuno secondi non è una canzone, se ha dentro un minuto di muggiti ininterrotti e discontinui non è una canzone, se cambia drasticamente volume quattro volte non è una canzone, eccetera.
La canzone non è mai morta, e non poteva morire. I concept album, le opere complesse e strutturate, possono aver introdotto “canzoni” difficilmente isolabili, che possiedono un senso più fruibile solo dentro al tutto, ma l’elemento essenziale della nostra percezione della musica è sempre stato quello. Persino le opere liriche – più “opera” di un’opera, che c’è? – nella loro completezza conoscono il successo delle arie, e persino le raccolte di arie, gli “highlights”. Non c’è verso, la grandissima parte della musica che investe le nostre vite ci rimane addosso in quella forma lì. Canzoni.
Da ragazzi, il primo modo con cui si concretizzava la dipendenza dall’oggetto canzone non era tanto l’acquisto del 45 giri – appannaggio di alcuni appassionati e dotati di maggiore liquidità – quanto la produzione della “cassettina”, o “nastrone”. Niente testimonia più di questo rito immortale la tendenza naturale dell’uomo a liberarsi dall’album e dalla sua rigidità e discontinuità, per isolarne ciò verso cui l’istinto lo porta. La canzone, e la raccolta personale e autonoma di canzoni come affermazione di sé e della propria creatività. Il primo nastrone non era altro che l’affermazione di una pulsione naturale verso la creazione di un mondo sonoro a propria immagine e somiglianza e verso il desiderio di farne partecipe il prossimo. Dopo alcuni mesi di vita, l’essere umano si solleva dalle quattro zampe e muove i primi passi sulle gambe: l’uomo è bipede. Alcuni anni dopo, abbandona l’ascolto passivo delle canzoni infilate in un album e compila il primo nastrone: l’uomo è deejay.
La relazione intensa e decisiva tra chi crea le canzoni e chi le sceglie, le organizza in successione e le consegna all’ascolto del prossimo, ha a che fare con un discorso più generale che non riguarda solo la musica. È la relazione tra chi ha talento per creare delle cose e chi non ha quel talento ma ha la capacità o la voglia di riconoscere il talento altrui per consegnarlo al mondo nella forma più accessibile e godibile. Nel mondo adulto questa relazione riguarda i galleristi, gli editori, i produttori cinematografici, i curatori di rassegne stampa, e molti altri. Da ragazzi – in società urbane e industriali in cui non si va più nei prati a raccogliere fiori di campo per una ragazza – è quello che avviene con il nastrone. Che nasce proprio dalla presa di coscienza che Francesco De Gregori, Bob Dylan e Rod Stewart sono in grado di scrivere canzoni bellissime, ma non di sceglierne dieci che in fila mi piacciano. Voi le scrivete e le cantate, io le scelgo e le metto assieme. La percezione di un simile bisogno e di una simile attività di assemblaggio in base a gusti diversi da quelli dell’artista che mette assieme un album, è quello che poi ha generato il fenomeno industriale delle compilations, il loro successo, e il loro vituperio. Le compilations consegnano ai fruitori passivi di canzoni una scelta che cerca di andare più incontro ai loro desideri di quanto possa fare il singolo artista, ma basando i propri criteri su meccanismi di mercato, le canzoni che vengono promosse come singoli: in una società capitalistica, è comunque un criterio vincente. Ma al tempo stesso è un criterio ancora una volta unilaterale e spersonalizzato, intollerabile ai creatori attivi di nastroni. Non è più un’assenza di personalizzazione della raccolta: è una personalizzazione di massa, per una persona che non esiste, e che non sono io.
Il nastrone aveva tutto un suo cerimoniale. Uso il passato, perché il nastrone as-we-knew-it è finito con la fine delle cassette, anche se in una forma più asettica e infrequente vive ancora attraverso i cd masterizzati. L’editor di questo volume mi ha di recente consegnato un cd da lui assemblato mettendo in successione sedici versioni di “Louie Louie” (purtroppo, avevo già firmato il contratto). E io stesso non tanti anni fa confezionai un cd di ballate sentimentali per colei che poi sarebbe diventata mia moglie, malgrado questo.
Ma non è più la stessa cosa. Una volta i nastroni si facevano prima di tutto per se stessi. Adesso il cd masterizzato è solo un supporto per trasportare la musica e consegnarla a qualcun altro: le collezioni di canzoni per nostro personale gradimento non ne hanno bisogno. Ci sono le playlists di iTunes, le funzioni random, e il passaggio dall’ascolto di una canzone a un’altra è così semplice – clic! – che riduce anche il bisogno stesso di una comunque rigida selezione che cammini da sola. Il cd masterizzato è rimpiazzabile, riproducibile e duplicabile a piacimento. Il nastrone era unico: duplicarlo significava aggiungere altre due dita di fruscio sulla già carente qualità della cassetta. A volte una canzone del nastrone diventava noiosa e inascoltabile, e rovinava la perfezione omogenea della raccolta. Allora si cercava di sostituirla con qualcosa della stessa durata, lavorando di cesello con la pausa, il contatore e la manopola INPUT, e combinando spesso dei guai tremendi. C’erano quelli che rimuovevano le linguette della cassetta per evitare cancellazioni accidentali, e quelli che percepivano anche la rimozione delle linguette come un sacrilegio contro l’integrità del nastrone. E c’era chi aveva imparato a intervenire chirurgicamente sui nastroni quando finivano immancabilmente “mangiati” da una piastra criminale: tagliando e ricucendo e riascoltando con una fitta al cuore lo scarto inferto a metà canzone, cicatrice definitiva.
Ricapitolando, il ventennio del compact disc ha cercato di fare fuori i nastroni da una parte, e le canzoni come unità di misura minima della nostra fruizione della musica, dall’altra.
Poi è arrivata la rivoluzione. Quella vera.
Alla fine del 1999 lavoravo nella redazione del portale (certe parole, invece, arrivano in un battibaleno e in un altro spariscono) di una casa editrice. Eravamo tutti piuttosto giovani e appassionati di quel che succedeva intorno a internet, oltre che richiesti di esserne informati per ragioni professionali. Già da diversi mesi era diventato possibile trovare in rete in formato mp3 molte canzoni e dischi completi, e anche cose che dovevano ancora essere messe in vendita. Ma il procedimento era ancora carbonaro e macchinoso. I dischi – compressi nel nascente formato mp3 – si scaricavano via ftp con dei software non immediatissimi e sistemi di ricerca molto carenti: si scaricava quel che si trovava, ma era difficile cercare qualcosa in particolare. Comunque le prime volte che entrai in questa rete parallela ci trovai i nuovi dischi dei Live, dei Pet Shop Boys e dei Divine Comedy, che sarebbero usciti settimane dopo.
Fu un periodo piuttosto emozionante. La stessa emozione di venticinque anni prima, quando con mio fratello ci eravamo trovati tra le mani le prime cassette registrate col magnetofono Castelli. Dal nulla, out of the blue, arrivava una possibilità impensata di possedere la musica, di attingere a un bacino di canzoni e ascoltarle liberamente e a piacimento. Non ci potevo credere. Cominciai a parlarne a tutti: mi sembrava la cosa più pazzesca del mondo, e ottenni che un paio di giornali con cui collaboravo me ne facessero scrivere. Lo stesso, la percezione della tranvata sovversiva che stava per colpire il mondo della discografia e dell’uso della musica era pari a zero. Il Titanic, l’iceberg, quelli che ballano sul ponte, eccetera. Passavo le notti a scaricare cose inedite o a me sconosciute: i tempi erano tali che non sapevo nemmeno rendermi conto se questo costituisse un qualche tipo di reato (nessuno se ne rendeva conto, si capì poi), e le connessioni lente abbastanza da rendere piuttosto scarso il raccolto, con i canoni di oggi.
Insomma, con queste impressionanti ma limitate avvisaglie, all’improvviso arriva Napster. Un programma semplicissimo e immediatissimo che metteva in relazione tra loro tutti i computer collegati a internet, permettendo di consultare i rispettivi hard disk e acquisire ciò che contenevano. Il procedimento che poi è diventato familiare con il nome di p2p. E il primo oggetto del traffico favorito da Napster furono appunto le canzoni, trasformate in files di quattro o cinque mega grazie all’mp3.
Nel giro di qualche giorno dalla nostra precoce scoperta di Napster la produttività della redazione scese a livelli imbarazzanti. Una ubriacatura generale inarrestabile. Eravamo in otto in un open space e ognuno faceva a gara dalla sua scrivania a scaricare e a fare ascoltare agli altri le cose più strane e tirate fuori dal cappello. Una banda di cabarettisti deejay scatenati alla ricerca di vecchie sigle televisive, canzoni della comune infanzia, lentoni da sbandate adolescenziali, capolavori del rock. Scaricavamo come saccheggiatori di New Orleans, sfinendo le reti aziendali. E soprattutto, non ci potevamo credere. La nostra segretaria di redazione guardava con sospetto la rapidità con cui sparivano dall’armadietto comune pile e pile di cd masterizzabili. Ottenemmo che fossero abbandonati i BASF in favore dei Sony, perché nelle autoradio di un paio di noi i primi saltavano. E non era solo bieco accumulo di merci a lungo sognate: grazie alle recensioni che potevo leggere in rete, avevo accesso all’ascolto di dieci volte le band che conoscevo fino ad allora. Sul sito pubblicavo in anteprima mie recensioni di dischi che non erano stati segnalati su nessun giornale nazionale. Un’eccitazione infantile e gioiosa si impadronì degli appassionati di musica di tutto il mondo, troppo straordinaria e inattesa per poter far loro percepire qualcosa di immorale in tutto questo. L’accesso alla bellezza non può essere immorale. L’amore non ha mai niente di immorale, si pensa da giovani (poi si scopre che per amore si fanno cose terribili).
Abbiamo imparato poi, in questi anni, che il legame tra immoralità e reato nel caso della violazione del diritto d’autore, c’è, ma è parecchio tortuoso. Sicuramente, il mondo è cambiato, da Napster in poi, e questo cambiamento richiede anche una revisione del modo in cui il diritto d’autore è sfruttato e ricompensato: per ragioni etiche, ma anche per ragioni pratiche. La guerra contro chi scarica gratis musica protetta da copyright è giocoforza perdente e sarebbe stato stupido continuare a volerla combattere a forza di tribunali e terrorismo propagandistico (ricordate quanto fosse inutile la vecchia campagna contro la copia dei dischi su cassetta?). Le grandi multinazionali della discografia – che non avevano mai fatto molto per costruire una qualche lealtà e rispetto da parte di chi compra i dischi – lo hanno capito tardi, ma lo hanno capito, pare. Non è detto che l’apertura totale del mercato online e l’abbassamento dei prezzi dei cd di catalogo salvino il mercato, ma erano le prime cose da fare.
E con questo siamo arrivati a oggi. Da Napster in poi, in sette anni, il tempo è volato. È successo di tutto e niente sarà più come prima. Già oggi, pensare a un mondo in cui per poter risentire una canzone che avevi appena ascoltato in radio dovevi sperare che il tuo negozio di dischi ce l’avesse oppure niente, pare pazzesco. Un mondo in cui se ti fosse capitato di leggere una recensione interessante, potevi rischiare di non trovare mai quel disco fino a quando un amico non fosse tornato da Londra. Un mondo con i registratori e le cassette. Eppure era sette anni fa (e per molti ancora meno).
Da quei primi mesi, cominciammo ad accumulare canzoni sui nostri hard disk. Canzoni. In tutti i decenni di passioni musicali passati, il contenitore aveva sempre prevalso sul contenuto: si possedevano 45 giri, cd singoli, EP, nastroni. Adesso il contenitore non esisteva più, ridotto a un’icona, un microsegno sulla scrivania del computer, dentro la cartella musica. Quello che scaricavamo erano canzoni, singole canzoni, a una a una. Musica pura. Stavano disordinatamente dentro una cartella apposita, ognuna identificata dal suo titolo e dal suo esecutore, ognuna indipendente e costretta a cavarsela da sola, senza la giustificazione dell’appartenenza a questo o quell’LP, a questa o quella raccolta. “Wrapped around your finger” sì, “King of pain” sì, “Mother” no: e chi se ne importa se stanno tutte dentro Synchronicity.
Napster fu affondato nei tribunali, ma vendette cara la pelle. Quando fu eliminato definitivamente dalla rete – salvo tornare, addomesticato, anni dopo – ormai il solco era tracciato, e passava dritto come un’autostrada di pianura attraverso il mercato della discografia. Ogni sei mesi nascevano nuovi software che soppiantavano i precedenti, meno efficaci oppure messi fuorilegge. Per un po’ la battaglia contro la violazione del copyright venne condotta con metodi alla Bava Beccaris: e il potere discografico non ne guadagnò in obbedienza da parte dei sudditi. Se ne rese conto tardi, ma si rese conto che per mantenere la monarchia bisognava fare delle concessioni, renderla una monarchia costituzionale. Fu un’aristocrazia illuminata a farglielo capire, coniugando i propri interessi con quelli del potere e con una mediazione nei confronti degli insorti. E così nacque iTunes Music Store, la Costituzione degli scaricatori di musica online.
Come si sa, iTunes è l’imbattuto programma di Apple per la gestione dei files mp3 (e poi di altro). Apple aveva capito per tempo cosa stava diventando la musica per gli utenti della rete e cosa stava diventando la rete per gli utenti della musica, e aveva creato rispettivamente iTunes e iPod. Il primo è diventato il software standard per la gestione, l’archiviazione e l’ascolto delle canzoni sul proprio computer. Il secondo è ormai il fenomeno culturale e commerciale di questi anni, ma la sua funzione originale era quella di permettere e facilitare l’ascolto delle stesse canzoni anche lontano dal computer. Nel frattempo, Apple e altre società si erano messe al lavoro con l’hardware per migliorare il più possibile la qualità dell’ascolto, limitata in partenza dalla compressione dei files mp3.
E infine, dopo che altri ci avevano provato con poveri risultati, Apple è riuscita – con la forza della sua storia – a convincere la discografia mondiale a convertirsi al mercato online. L’iTunes Music Store è oggi secondo – come disponibilità di titoli – solo a pochi grandi negozi online di cd, come Amazon. Ci si sono convertiti tutti: mancano solo alcune fette di catalogo trattenute da particolari questioni di diritti o resistenze ideologiche. Ed è inutile rielencare tutte le caratteristiche di accessibilità e praticità del servizio. Quello che è importante è che IMS è il primo negozio di canzoni della storia. Vi si vendono singole canzoni, tutte allo stesso prezzo (inferiore a quello di un vecchio 45 giri, nel rapporto tra canzone e album). La catalogazione secondo il vecchio criterio degli album sopravvive per ragioni di filologia e facilità di identificazione, e perché comunque il mercato tradizionale è ancora prevalente e detta le regole (anche se ad aprile del 2006, al numero uno della classifica inglese è arrivata per la prima volta una canzone priva di contenitore, pubblicata solo in mp3). E probabilmente il formato album o qualche tipo di raccolta continuerà a sopravvivere (ma è già interessante, soprattutto per gli artisti, verificare quali canzoni in un disco vengono acquistate di più e quali di meno, ora che ognuna è un singolo). Ma il negozio di canzoni ospita già raccolte anomale e ad hoc: playlists scelte da questo o quell’artista, o compilate dagli utenti; o raccolte create solo per la vendita su IMS. E datele tempo di raggiungere numeri più considerevoli – poco tempo – e nella forma di contatore di vendite online potrebbe tornare appassionante anche la vecchia hit-parade.
Le canzoni non sono mai state in discussione. L’epoca del cd sembra con gli occhi di oggi solo un rito di passaggio dal tempo dei 45 giri a quello della musica aerea, indipendente, inesistente come oggetto concreto. Durante questo passaggio la canzone è stata costretta ad adattarsi a formati che le stavano stretti, o larghi. Il suo vestito aderente era il 45 giri, che ne faceva risaltare le curve: poi è venuta un’era talebana, che ha vietato gli abiti aderenti e ordinato un sacco di iuta per tutti. E ora, la rivoluzione nudista. Ne soffrono solo i collezionisti, i feticisti: quelli per cui un reggiseno è più eccitante di un seno, e che a volte hanno ragione, fuori e dentro la metafora.
Quando tutta la musica del mondo si rese illegalmente disponibile, ai primi tempi di Napster, la prima curiosità non fu tanto per le anticipazioni di dischi ancora da pubblicare (che sfuggivano assai più cospicuamente alle allora distratte maglie della discografia), ma per le vecchie canzoni parcheggiate in qualche parte del nostro conscio e inconscio, capolavori che sarebbero tornati a commuoverci o robaccia datata che eppure aveva segnato estati e infanzie. Il problema era ricordarsele. Come insegna la letteratura, di fronte alla cuccagna si perde il contatto con i propri desideri, non si riesce più a scegliere, non ci si ricorda più dei propri bisogni. Come con una lampada di Aladino improvvisamente sulla nostra strada: e ora che le chiedo?
Mi buttai a cercare vecchi elenchi di canzoni messi assieme da ragazzo, recuperai le etichette dei nastroni, rimpiansi amaramente di aver buttato via gli appunti che prendevo da bambino sulle hit-parade di Lelio Luttazzi. Ci telefonavamo con i miei amici e ci canticchiavamo delle cose per aiutarci a ricordare cosa fossero (“la colonna sonora di Butch Cassidy!”; “il secondo singolo dei Blow Monkeys!”; “la sigla di Avventura!”). Adesso è diverso, e le informazioni sono molto più accessibili: in rete si trova archiviata qualsiasi cosa. E dopo aver visto un film con una bella canzone, ci si attarda sui titoli di coda per individuarne il titolo e appena arrivati a casa, la si scarica. Ma capita ancora, per un qualche accidente, di ritrovare in un angolo della memoria il ricordo di una canzone durata un mese, il brandello di una melodia, l’emozione suscitata allora da un pezzo decisamente imbarazzante (mentre mi sono emancipato da “Clouds across the moon” della Rah Band, una via di mezzo tra “Life on Mars” e “Piange il telefono”, continua a muovermi “Elstree”, dei Buggles). Solo grazie a quei vecchi appunti ho recuperato “Glad it’s all over” di Captain Sensible e “Less cities more moving people” dei Fixx.
Contemporaneamente, l’accessibilità della musica online ha resuscitato molta grande musica del passato e riequilibrato il rapporto di frequenza tra volatili nuove uscite e classici “sempreverdi”. I miseri trenta secondi di preascolto consentiti da IMS sono comunque la chance di riempire dei buchi inevitabili nella propria conoscenza della storia del pop-rock. Confesso di aver scoperto per la prima volta qualche mese fa “Badge” dei Cream, ascoltata per caso andando dietro a un distratto girovagare di link in link. L’ho comprata e scaricata: continuo a non sapere come si chiamasse l’LP, né quale numero di traccia fosse, e non ho quasi nient’altro dei Cream. “Badge” vive di vita propria e indipendente nella mia libreria di iTunes. Che oggi ospita circa dodicimila canzoni. Certo, The wall e Nursery Crime li ho importati dai cd integralmente senza nemmeno pensarci. Ma nella maggior parte dei casi, ho scelto quali canzoni far sopravvivere – e anzi restituire a nuova vita – e quali consegnare all’oblio dello scaffale.
Siamo alla fine del 2006 e per quanto concerne l’ascolto della musica le novità principali sono due. La prima riguarda appunto la disgregazione dell’album, o long-playing. Esiste già un’ampia letteratura giornalistica a proposito della sua futura presunta scomparsa, le cui cause alcuni fanno risalire già al passaggio dalla forma originale alla disumana confezione del cd. Oltre a quello che abbiamo detto, esistono altre considerazioni che suggeriscono questa possibilità. Per moltissimi artisti (inciso: uso la parola “artisti” per comoda consuetudine e parcamente, consapevole di una certa sproporzione tra l’opera di Boy George e quella di Caravaggio) l’incisione di un disco con una decina di canzoni è essenzialmente un veicolo promozionale per se stessi e per la possibilità di guadagnare con i concerti. Il guadagno che ottengono dal disco è strettamente la sua pubblicazione a spese dell’etichetta discografica. Nel momento in cui questa promozione cominciasse a rivelarsi più efficace se condotta attraverso il download anche gratuito di canzoni in mp3, il senso del disco si esaurirebbe. Ci sono già esempi concreti di successi e tentativi in questo senso. In questo caso la diffusione di una raccolta strutturata di canzoni non avrebbe più motivo, in favore della diffusione di singole canzoni a scadenze più brevi. Invece che un cd ogni due anni, gli artisti potrebbero mettere online una canzone ogni due o tre mesi. Al tempo stesso, le grandi star che continuano a vendere tantissimo e quindi a ottenere grosse royalties sui cd dovrebbero però garantire la sopravvivenza del formato almeno fino a che la familiarità con l’acquisto su internet riguarderà solo una minoranza dei fans.
E come dobbiamo disporci all’eventuale declino dell’album? Di sicuro con una sana dose di fatalismo: le cose cambiano. Ma è innegabile che perderemo molto. Ne guadagneranno le canzoni e la loro individualità, come abbiamo detto. Ma ci perderà l’identità e la riconoscibilità degli artisti. Provate solo a pensare a come la carriera e il repertorio di un artista sia definito dalla sua discografia: una decina di dischi, per esempio, riconoscibili a prima vista dai fans e comunque noti a tutti gli appassionati di musica, che segnano tappe e capitoli della loro storia. E adesso pensate a quel repertorio frammentato in un centinaio di canzoni in successione senza soluzione di continuità. Le canzoni potranno anche essere bellissime, ma diventano ingredienti puntuali e indistinti di una narrazione priva di punti di riferimento. Il paragone trova sicuramente delle obiezioni, ma ha una sua validità: ci passerebbe la differenza che passa tra scrivere romanzi e scrivere articoli di giornale. Dei grandi romanzieri sono ricordati tutti i titoli, i capolavori e le opere minori, le fasi della carriera. Dei grandi giornalisti si ricordano alcuni articoli sparsi in un mare di esercitazioni di maniera.
Aggiungete che per un ragguardevole numero di album che hanno fatto la storia del rock la loro grandezza è assai maggiore della somma delle loro parti. È difficile pensare che quei brandelli delle nostre vite sarebbero stati uguali se le canzoni di “The dark side of the moon” o di “O” di Damien Rice fossero uscite una alla volta, indipendenti l’una dall’altra, e il disco non fosse mai esistito.
C’è un altro ordine di considerazioni che possiamo includere sotto la voce “preoccupanti”, o, con maggiore lucidità “preoccupanti, ma rassegnamoci” (anni fa, il Venerdì di Repubblica pubblicò un’inchiesta sul turismo di massa in montagna e chiese a una anziana guida alpina cortinese se non vedesse come una catastrofe l’invasione dei sentieri montani da parte di orde di turisti, dove una volta era solitudine, pace ed elitario ardimento: “troveremo altre cose belle da fare”, rispose lui). È già realtà presente la maggior volatilità della musica rispetto alle nostre storie. Come vuole il luogo comune, la carestia accresce il desiderio e il godimento dei pochi beni a disposizione. L’abbondanza li avvilisce, rende la gioia e la soddisfazione consuete, le annebbia. Messe assieme, l’affollamento di suoni, musiche, musichette, melodie, canzoni, colonne sonore, da una parte, e la loro disponibilità a comando dall’altra, generano una overproduzione di musica usa e getta e una maggiore inclinazione a usarla e gettarla, appunto. Tra quando la musica usciva solo da un mangiadischi o dalla radio, e ora che esce da computer, telefonini, lettori di cd, dvd, minidisc, mp3, ogni bar e negozio in cui entrate, decine di canali musicali televisivi, radio online e presto anche dal tostapane, qualcosa è cambiato. E per sfruttare tutte queste opportunità di riempire degli spazi e dei silenzi con roba vendibile, il mercato ha accolto vagoni di cose composte con la mano sinistra, con il dito mignolo della mano sinistra. L’assiduità ipnotizzata con cui ancora vent’anni fa si ascoltavano una canzone o un disco imparandone a memoria fino all’ultima nota, fino all’ultimo verso, non è più la stessa nei ragazzi di questi anni (intanto, c’è stata una recente inversione del mercato: la discografia si è accorta che quelli che spendono di più per la musica non sono i teenager a cui si era votata spericolatamente per un terribile decennio, ma gli adulti). Il dritto della medaglia è che si finisce per conoscere anche molta buona musica più che un tempo, ma la tendenza sarà ad ascoltare poco tante cose che ci piacciono, piuttosto che innamorarsi perdutamente per mesi di una sola.
La seconda novità di questi anni che riguarda il modo in cui si ascolta la musica è tecnica: la rivoluzione della musica online ha disposto l’industria informatica a prendersi carico anche della riproduzione delle canzoni, creando le condizioni per cui sia l’acquisizione della musica che il suo ascolto avvengano all’interno del computer. Ferma restando la perdita di qualità – impercettibile ai più – dovuta alla compressione dell’mp3, il mercato di massa va verso il superamento di impianti stereo, amplificatori, eccetera. Due buone casse attaccate all’iPod o al computer è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ci stanno dicendo. In un certo senso hanno ragione: quel poco che si perde in qualità lo si guadagna in praticità. Ognuno sceglierà cosa sacrificare in base alla propria sensibilità, ma per la maggioranza prevarrà la comodità. Tutta la musica della vostra vita dentro un solo apparecchio, che è anche quello che la suona (e tutta quella della vita degli altri, e anche quella della vita di nessuno). Ce l’avessero detto vent’anni fa, ci risparmiavamo quelle montagne di cassette (macché: ce l’avessero detto vent’anni fa, gli avremmo riso in faccia, fieri delle nostre cassette).
L’idea di questo libro non ha bisogno di molte spiegazioni, a questo punto. È il libro che io avrei voluto avere tra le mani in questi anni, una guida in un nuovo mondo di canzoni. Anzi, in un vecchio mondo di canzoni, un tempo aperto alle visite a pagamento solo in determinati orari, e con certe sale chiuse al pubblico, e che ora è aperto a tutti, con biglietto ridotto, 24 ore su 24. Ne avrei voluti molti, di libri come questo. Magari un giorno potremo control-cliccare su qualsiasi titolo in iTunes e ottenere ogni informazione su quella determinata canzone: e magari saranno anche troppe informazioni, e ne vorremo meno. Nel frattempo, è venuto il momento di cominciare a raccontare la musica di cui è fatta la vita non attraverso cronologie, epopee, genalogie, storie del rock ed enciclopedie di artisti, ma raccontando la cosa vera: le canzoni. Che le canzoni siano oggi più che mai l’elemento centrale del nostro rapporto con la musica, con tutte le vicissitudini pratiche di cui abbiamo parlato, è una dimostrazione ulteriore di quanto le nostre vite non ne possano fare a meno. Qualcuno, come Nick Hornby, o Linus, ha pensato di raccontare una manciata di titoli attraverso la propria relazione con quelle canzoni, privilegiando il racconto. Altri testi anglosassoni si sono dedicati all’elencazione semplice di liste di titoli, suddivise secondo criteri vari. Qui abbiamo pensato di scegliere una via di mezzo, raccogliendo un numero cospicuo di belle canzoni – che è un piacere avere accanto a sé, nella vita – ma cercando di dare un senso alla scelta, raccontando qualche cosa di ognuna. In modo che – prima ancora di averle ascoltate, o dopo – non siano solo un titolo privo di relazione con la musica a cui corrisponde, una lettura galleggiante nel nulla. Come si sa, la storia della musica è ricca di leggende, contraddizioni, falsi miti e interpretazioni che si rincorrono: abbiamo cercato di dare per certe solo le cose certe e di prendere con le molle le altre. E speriamo non ci siano troppi errori. Quello che conta, anche se nella maggior parte dei casi non è scritto, è che ognuna delle canzoni citate, in modo grande o piccolo, è ritenuta dall’autore una bella canzone.
La scelta è una scelta molto personale, com’è ovvio. C’è quella famosa battuta di Frank Zappa: “scrivere di musica è come ballare di architettura”. Per quanto si diano da fare storici e critici, la musica fa leva in gran parte su sensazioni ed emozioni istintive, legate ad associazioni personali e biografiche, a umori di un momento, a ricordi e sensibilità. Al tempo stesso, queste associazioni e sensibilità sono comuni a molti umani, e ciò che piace a uno può piacere a molti altri. In quegli esempi di selezione del talento altrui di cui abbiamo parlato prima – galleristi, deejay, eccetera – è essenziale una personalizzazione forte della scelta e una qualche fiducia e condivisione tra chi sceglie e chi riceve la scelta. In questo libro ci sono quasi tremila canzoni. Il criterio che vorrebbe riunirle tutte quante è che siano delle belle canzoni: senza nessuna puzza sotto il naso, e sapendo appunto che a volte una bella canzone arriva da dove meno te l’aspetti. E che, per esempio, i Duran Duran hanno dato al mondo più belle canzoni di Frank Zappa, per citarlo reverentemente ancora. Come dicevamo da ragazzi, prima che arrivasse Nek: due buone canzoni nella vita le scrivono tutti.
Abbiamo quindi diviso le canzoni in playlists – nastroni contemporanei, mescolabili a piacere – corrispondenti agli artisti che le eseguono. Due canzoni di Guccini continuano comunque ad avere molto in comune. Ma la scelta degli artisti da includere è stata difficile: qui esistono per le belle canzoni che hanno fatto, piuttosto che per qualsiasi valore storico della loro opera complessiva. Abbiamo deciso che per avere dignità di playlist, una lista di canzoni dovesse contarne al minimo – al minimo – sei. Esecutori di capolavori isolati sono stati stralciati, salvo citare i capolavori isolati in playlist apposite. E per fedeltà all’idea dell’indipendenza delle grandi canzoni, abbiamo preteso che le canzoni scelte provenissero da almeno tre raccolte diverse. Sei grandi canzoni da uno stesso disco, e poi nient’altro di notevole non sono una playlist: sono un grande disco. Non c’è, per le stesse ragioni, una definizione di generi o epoche. Ci sono una manciata di cantanti di lingua non italiana o anglosassone, e un’altra di cantanti jazz, anche in questo caso strumento per segnalare alcuni dei più begli standards di sempre. Un’altra cosa che noterete è una prevalenza di nomi del passato su quelli di successo più recente: sarebbe vile negare che abbia a che fare anche con l’anagrafe dell’autore, ma giocoforza gli artisti dal curriculum più giovane hanno accumulato meno titoli.
In molti casi le scelte sembreranno così poco convenzionali da apparire snob. Nella playlist dei Beatles non c’è “Yesterday”, e in quella di Dylan non c’è “Mr. Tambourine man”. Ma sono scelte del tutto sincere dettate o dal fatto che l’autore ritiene che i Beatles abbiano scritto almeno venti canzoni più belle di “Yesterday”, o che il suggerimento di ascoltare “Yesterday” sarebbe stato superfluo e una perdita di tempo. Alla fine questo libro vorrebbe essere un manuale di fondamentali, ma anche una lista di suggerimenti e di invito alla condivisione di singole gioie, singole canzoni, magari sfuggite (come “Badge” dei Cream per me). Alla fine, tutti noi volevamo solo fare il deejay.
Nota:
Non ho fatto distinzioni esatte, in questi pensieri, tra lo scaricare musica pagandola o gratuitamente e in modo illegale. Non mi sfugge naturalmente la differenza penale tra l’una e l’altra cosa. Al tempo stesso non si può non riconoscere ai software p2p e alla partecipazione di milioni di persone il merito di aver reso accessibile e nota un’enorme quantità e qualità di musica altrimenti irraggiungibile, e di aver mostrato la via a strutture più lente nel capire i tempi. Il giusto riconoscimento (ho detto giusto) all’autore (ho detto all’autore) di ciò che ha fatto e si merita deve trovare una mediazione con il piacere di ascoltare una cosa così intangibile come la musica. Questa mediazione può essere senz’altro la vendita di musica online come avviene su IMS: ma gli utenti non dovrebbero essere costretti a scambiare illegalmente canzoni che non si trovano ancora in vendita, e la funzione di preascolto delle canzoni dovrebbe offrire qualcosa di più degli attuali trenta secondi spesso del tutto insignificanti.
(testo tratto dal libro Playlist – La musica è cambiata)